12 Maggio 2020

“Ad affiorare in me sono le cose inaccettabili”. Viaggio dentro il libro dei libri di Jung, il “Libro Rosso”

Qualche anno fa Bollati Boringhieri pubblica, con sfarzo, Il Libro Rosso – noto anche come Liber Novus – di Carl Gustav Jung. Il libro – repertorio di sogni, visioni, epopee dell’inconscio, inabissamenti onirici, “serie di esercizi di immaginazione attiva” – si focalizza su alcune esperienze visionarie del 1913-14, è elaborato fino al 1930 e pubblicato, appunto, postumo. Non m’interessa nulla del sottosuolo psicoanalitico – un primo studio è l’introduzione al tomo di Sonu Shamadasani –; m’importa la tensione letteraria. E ancora prima: la costruzione del libro, la macchina teatrale.

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Mi spiego. Il libro, fin dal titolo – Libro, Liber – e dalla composizione editoriale – copertina (rossa, solenne), impaginato e regalità del font – è inteso come una Bibbia, un libro che non è altro che il Libro – biblìoncioè il libro che riassume tutti i libri possibili, e da cui tutti i libri ulteriori hanno origine. In effetti, il Libro Rosso è presentato come “il libro segreto”, come “l’opera di fondazione”, la zona d’ombra che alimenta la bibliografia pubblica, svelata, l’Eden originario, la scuola delle risposte. Ogni insegnamento pubblico – alimentato dal mercato delle idee e dei libri – ha una ragione esoterica, il culmine, il remoto, a cui pochi intimi – o eletti – hanno accesso. Il meccanismo psicologico – va detto – fu eclatante: a tutti fu concesso di fare una gita nei recessi della dottrina di Jung, nel negativo, nel tanto autentico da restare irrisolto, nascosto. Come scalottare il cervello di un dio. Ovviamente, comprai il libro. A quel punto, il contenuto è surclassato, defunto dal contenitore: il libro in sé è tanto importante che anche se alcuni significati ci paiono insignificanti siamo disposti a tracciare la galassia dei sovra e sottosensi pur di difendere il libro dal contagio del contenuto, banale. Ad esempio. L’ultimo ciclo del Libro Rosso – che va letto, parere mio, come un planetario –, Prove, si concluda così: “L’ombra rispose: Io ti porto la bellezza della sofferenza. È quello di cui ha bisogno chi ospita il verme”. Questo concetto replica, in forma scenica, ciò che sappiamo da sempre, da Eschilo, dagli evangelisti, da San Paolo, da Dostoevskij – per sorbirlo non abbiamo bisogno di Jung. Ma questo libro – in quanto libro e non opera: cioè qualcosa che tende alla perfezione dell’inconcluso – non si può leggere come un trattato filosofico.

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Il Libro Rosso, intendo, va agito, va giocato – sì, proprio come un gioco di ruolo, solo che qui i ruoli sono le mille facce di me, l’unico, il quasi niente. Jung non vuole essere originale: cerca l’origine. La sua opera si colloca sotto la tenda biblica: cita i profeti, scrive senza distanza tra Zurigo e Patmos – chiunque tende al libro vuole annientare il Libro. D’altra parte, colloca simboli mitraici, si riferisce al culto induista, al neoplatonismo (“Accadde che aprissi l’uovo e che il Dio abbandonasse l’uovo”), cita figure del mito caldeo, appaiono gli arcani, l’Anacoreta, il Mago, il Folle, la Morte, ma anche gli elementi della fiaba (L’assassinio dell’eroe, Il castello nel bosco, Gli incantesimi). Il libro – a differenza dell’opera, che è compito bene eseguito, tramite la ragione – è aperto, non perché sia incompiuto: perché sei tu, senza concluderlo, che lo devi abitare, dando avvio a un ulteriore processo visionario.

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Benché non si affacci il Mostro, il lato sinistro dello splendore, il libro è il labirinto per scovarlo. Per tramare la vita bisogna esperire la morte: “Quando scorgo la miseria e l’assurdità del mondo ed entro perciò a capo coperto nella morte, allora tutto quel che vedo si trasformerà forse in ghiaccio, ma nel regno delle ombre sorge l’altro sole, quello rosso. Si leva in segreto e inaspettato e, come un’apparizione satanica, il mio mondo si capovolge. Presagisco sangue e assassinio. Solo il sangue e l’assassinio sono ancora sublimi e hanno la loro particolare bellezza. Si può ammettere la bellezza di un atto di violenza sanguinario. Ma ad affiorare in me sono le cose inaccettabili, terribilmente ripugnanti”. Ogni interpretazione è lecita ma poco persuasiva – dietro la lallazione di un bimbo posso scorgere la chiamata obliqua di un dio. Il libro – che non è opera – resta segreto perché si muove, ha natura fiera, felina. Le frasi, cioè, corrono, a quattro zampe, saltano, azzannano. Se non si è disposti a riconoscere la lince, meglio preferire i libri in luce, pubblici, ragionati, ragionevoli, giusti.

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Torno alla creazione del libro. In origine, il Liber Novus è vergato con caratteri specifici, da miniatore medioevale, ed è corredato da disegni: alcuni sembrano desunti da una Apocalisse pittoresca, altri sono mandala (unione degli opposti: la carne biblica e l’effimero vedico, fuoco e vento, in fondo uno). Il riferimento all’antico non è simulazione né melliflua autorevolezza: si va a caccia dell’origine per cancellarla – per cancellarsi. Riguardo alla costruzione del libro, Jung sa che il grande precedente è lo Zarathustra di Nietzsche (“Fui d’improvviso afferrato dallo spirito e portato in una terra deserta in cui lessi lo Zarathustra”, ricorda). Eppure, l’analitica costruzione – e illustrazione – del libro rimanda più che altro – compreso Dante, fonte concreta – alle azioni di William Blake (Nietzsche vuole illustrare, Blake illuminare; i libri troppo chiari vanno tenuti in ombra, all’ombra dell’irriconoscenza). Ma pure, a un livello prettamente letterario, all’Ossian di James MacPherson e al Kalevala di Elias Lönnrot, autori che consapevolmente – anche dal punto di vista editoriale – costruiscono il passato, fondano un ancestrale ipotetico. Se il pasto lirico è soddisfatto dal Faust di Goethe, l’ardore bibliomantico mi porta ad avvicinare il Libro Rosso di Jung al Necronomicon di Lovecraft, redatto dal fittizio arabo negromante Abdul Alhazred, e a quell’altro Libro Rosso, forgiato da Bilbo Baggins, che funge da fonte per i libri di Tolkien (in cui sono citati ulteriori innumerevoli libri). Anche in questo caso – senza malizie conoscitive o riverberi visionari – c’è sempre un tomo segreto a originare quello visibile. Il punto, in effetti, è sempre quello: fondare il libro invisibile, che si crea vivendolo, quasi che tra le nostre scelte e l’alfabeto non vi fosse scisma né sintagma.

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Una frase, nella porzione Il deserto, costituisce forse una chiave di lettura. “Le parole che oscillano tra nonsenso e senso superiore sono le più antiche e le più vere”. Tutto ciò che è significativo ha un significato che sfugge all’ordine logico del dire e del comprendere – una intesa per sussurri e assoluzioni. Non si tratta mai di capire – quello è il giogo – ma di accennare, semmai, di tentare un accesso nell’altro lato del parlare. Tra nonsenso e senso superiore, in verità, non c’è differenza.

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Il libro, chiuso allo sguardo univoco, insegna, come dice Jung, “a inseguire le immagini interiori” – è una bussola per perdersi. “Il nostro sovrano è lo spirito di questo tempo, che in noi governa ogni cosa, è il senso comune con cui noi oggi pensiamo e agiamo. Ha un potere spaventoso, perché ha portato a questo mondo beni incalcolabili e avvinto l’uomo con incredibili piaceri. Si adorna delle migliori virtù eroiche e vorrebbe sollevare l’umanità a splendide e radiose altezze, in un’ascesa irresistibile”. Almeno nel lato capovolto della vita – il sogno che equivale alla scrittura – sia padrone il senso ulteriore, il non senso, l’individuo che fonde comunione e elezione. Nel Libro Rosso appare spesso la figura del bambino sovrano, il puer di Virgilio, il bimbo eterno, “simbolo liberatore” di “spregiudicatezza d’atteggiamento”, che va inseguito fino al sacro capriccio. Una immagine ricorrente mi visita: un bambino che cammina sulla schiena di un giaguaro, come se quella fosse la stanza dei giochi – il giaguaro chiude gli occhi sotto il comando del bimbo; ogni volta che li riapre un mondo nuovo è sorto.

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Il libro perfetto: quello che avviene mentre lo stai leggendo. Che evoca l’autore, non più imprigionato nel reticolo dei verbi. Un libro, cioè, scritto a mano, fino a perdere le dita, soltanto per te che lo leggi – nell’atto della lettura, svanirà. (d.b.)

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