Parigi, 1973
Mia cara,
Ho sempre viaggiato, e in fondo non ho fatto altro che avere nostalgia per le creature, evocare quella luce negli occhi che non vedo più, in noi, e ormai privilegio esclusivo dei limitrofi della terra – i volti e gli sguardi dei bambini negli slum di Mumbai, gli adulti e i bambini dei villaggi nelle foreste dell’Amazzonia, i diseredati delle miniere di quelle foreste. Ho pensato alla disperata intensità dei loro occhi, ai loro abbaglianti fari scuri, ostinato avamposto di una razza in estinzione, e sale della terra. Alcuni di loro erano figli di una vastità sterminata, di quel mare verde su cui si naviga per ore e ore senza mai incontrare radure, villaggi o vita apparente, un continuo primordiale che incute lo stesso timore del profondo mare, là dove è più scuro e più blu. Un ambito misterioso, che racchiude la vita così come era un tempo, milioni di anni fa. Ed erano volti dai tratti antichi, dalle rughe immemoriali. E la prova della nostra volgarità. Lo sguardo penetrante di un selvaggio, perfino di un diseredato, specialmente se un bambino, è un brivido, il ricordo di un istinto, un’intensità che non mente. Un’eco atavica, charme indiscreto dello sguardo animale. Perduti loro, e perduti noi, eppure c’è più verità nei loro volti, che nei nostri, cazzo.
Alejandra, ricordo l’Amazzonia, Porto dos Gaúchos, ultimo avamposto sperduto della civiltà che i cercatori d’oro si lasciavano alle spalle prima di sparire nella foresta… molti di loro non ritornavano mai più, inghiottiti come vittime predestinate della loro curiosità e della loro ambizione. Era poco più che un villaggio, e un piccolo aeroporto di fortuna immerso e sperduto nella selva equatoriale. Allora mi accolse una giovane donna dagli occhi verdi e i capelli biondo cenere, denti bianchissimi e unghie listate a lutto. Era segnata da una certa tristezza e dalla fatica, ma sorrise. Si muoveva con il silenzioso ondeggiare di una farfalla. Si chiamava Polina, e veniva dalla Russia, dalla quale era fuggita molti anni prima. Lei, che aveva girato, girato, girato in cerca di un posto sempre più lontano dove posarsi, un po’ come fanno certi animali migratori che obbediscono a leggi insensate e crudeli e che, talvolta, cercando un luogo dove vivere, finiscono per trovare il loro inesorabile vicolo cieco. Così era capitato a lei. Girando di boîte in boîte, di promessa in promessa, di bisogno in bisogno era finita lì raccolta da un uomo, in una balera. Aveva accettato di essere portata lontano, così lontano da potersi dimenticare di sé, desiderio e disperazione tatuati sul suo volto.
Quando infine ho conosciuto la sua nudità, e il privilegio di averla tra le braccia, fu uno spettacolo da spezzare il cervello, un olocausto del cuore e dei sensi. Un metro e ottanta di pelle tinta alabastro, seni che sussurravano fieri la muta linfa del sesso, tono di un fondo schiena in stato di grazia, fica portentosa e compatta come una tagliola, piedi dolorosamente incantevoli, e fessure dal sapore indimenticabile. Una perduta. Anima vigile e tagliente, dallo sguardo in fuga, in cui lampeggiava un buco nero. E io riuscivo a dire solo “imbarazzante”, e lei chiedeva ingenua, come inconsapevole del suo feroce dono, “cosa?”, e io rispondevo rassegnato e abbattuto, “la tua bellezza”. E oggi mi ricorda te.
Ero certo che non avrei mai più incontrato una donna tanto desolata e potente, dalle fattezze così intimidatorie e vere, lei, che usava i suoi sensi in modo assoluto, i cui pensieri facevano vibrare e correvano come sfere di argento sulle ossa. Lei, che non discuteva l’universo, ma lo esprimeva, che non aveva niente da dire sul mondo, ma lo viveva, e non era destinata a durare – “l’incubo degli anni le è stato risparmiato”, mi scrisse un comune amico, qualche anno dopo. Impossibile che appartenesse a qualcuno o qualcosa. Non si era mai prostituita, diceva, perché “lo sguardo pornografico – quasi ogni uomo – uccide il mistero che è in me”, a tal punto si rifiutava di tradirlo. Eravate sorelle nell’anima, cara Alejandra. Anche lei, vittima di un letale e incomprensibile movente, detestava il suo corpo.
Vi fu un tempo in cui l’unica soggezione, scambiata spesso per timidezza, che contava realmente nella vita, per me, era il pudore che provavo ogniqualvolta incontravo o avvicinavo qualcuno, e la riserva di mistero che avrei accordato loro unita all’impatto di venerabilità che lasciavo insinuare nella mia fantasia. Un’illusione. Allora, l’estraneo che ogni creatura portava in sé, ai mei occhi avrebbe recato con sé una dose di incanto non esattamente sua, carica di chissà quali possibili. Quanto più la creatura che avevo di fronte appariva lontana dal suo enigma, tanto più era compatita. Più aderivano alla stirpe dell’inverificabile, più era necessario rispettare le distanze, anche nel caso in cui fossero entrati a far parte della mia vita. Più avevano valore ai miei occhi, e più pudore avrei accordato loro. Io, che allora intuivo e custodivo l’importanza della distanza, quella che prima di tutto ognuno si porta dentro e che, per alcuni di noi, rappresenta l’unica possibilità di rispetto nei confronti dell’altro. Non il rispetto della persona, ma del nimbo vitale che questa si porta appresso nel limbo della sua esistenza. Più crescevo e più riconoscevo, disilluso, che pochi erano degni di questa distanza, della cura a non invaderla, e imparai a tenere le distanze, solo per la volontà di preservare il mio stesso estraneo… “l’anima sceglie i suoi compagni, e chiude la porta”, scrive la grande Emily.
Ti scrivo, e solo ora mi rendo conto che, oggi, è un anno che non sei più tra di noi.
Addio mia compagna.
Julio
*A cura di Luca Orlandini