27 Ottobre 2023

Il vecchio e il fiume. Ricordo di Julien Gracq: un uomo gentile in viaggio verso Uluru

L’immagine che ho di lui, l’ultima, è quella di un vecchio di modesta statura, dai capelli corti, vestito con giacca, camicia, cravatta, maglione, pantaloni dalla piega impeccabile, scarpe robuste e comode, sulla soglia di casa sua, che mi saluta ancora una volta, con la mano, mentre mi volto, e sui suoi lineamenti non un sorriso, ma un’espressione di profonda serenità. E di gentilezza.

Avrebbe potuto essere uno dei miei prozii, un vecchio amico di famiglia, uno dei miei ex insegnanti o maestri di scuola, dalla vita placida e ritirata in una grande casa, d’aspetto modesto quanto lui, sulle rive del fiume.

Invece era semplicemente Julien Gracq, e io uno dei suoi lettori.

La scena risale al 7 ottobre 2004.

La mia prima lettera indirizzata a lui è della metà degli anni Ottanta. Ero uno studente. Stavo iniziando il mio lavoro di ricerca su André Hardellet. Avevo letto e riletto tutto di Gracq, con febbre da discepolo, meravigliandomi di ogni frase, ammirando la bellezza dell’opera, nutrendomi dell’intelligenza dei suoi testi critici, sognando le sue geografie.

Gracq non era un intimo di Hardellet, nato un anno dopo di lui, e nemmeno un conoscente abituale. Ma quando Hardellet fu processato nell’ottobre 1973 per offesa al pubblico decoro dopo la pubblicazione di Lourdes, lentes… nel 1969, Gracq testimoniò a suo favore. Per la letteratura. Per amore della libertà, il discreto Gracq non temeva di affrontare lo scandalo o le aspre ammonizioni dei giudici.

È per questo gli ho scritto. E lui mi ha risposto. Nella sua bella, minuscola, obliqua e diligente calligrafia. Oltremodo educata e attenta per uno sconosciuto studente come me.

Col passare del tempo, altre lettere.

Poi, non appena iniziai a pubblicare nel 1999, gli inviai i miei libri, come fecero molti altri scrittori che lo ammiravano e per i quali era e rimane importante. E per ogni libro che gli inviavo, allegavo una breve lettera in una piccola busta.

Lo stesso cartoncino, sempre, la stessa calligrafia che il tempo non avrebbe modificato, mai tremolante o esitante negli ultimi giorni della sua vita. E le parole, a dimostrare che il libro era stato letto. E molto, moderatamente o per niente apprezzato. Frasi dirette, educate, che dicono ciò che vogliono dire e non si preoccupano di essere prudenti, ma che non vogliono ferire o adulare. Le parole oneste di un uomo onesto.  

*

Non ricordo in quale lettera mi venne esteso l’invito a fargli visita.

Ciò che ricordo è che tra quel momento e la visita vera e propria passarono diversi anni, sì, parecchi.

Non osavo. Accettare. Fare il viaggio. Con quale intenzione? Per dire cosa?

Un altro fattore della mia riluttanza risiedeva nel fatto che la visita al grande scrittore era diventata un rito, di cui molti avevano scritto, che forse, per alcuni, era un modo per garantirsi un’approvazione che permetteva di sperare in una considerazione e un riconoscimento da parte del mondo letterario o di un certo pubblico di lettori.

Così mi sono detto: “No, non ci andrò”.

E mia moglie mi disse: “Sei un idiota. Ti sta invitando a passare una giornata con lui. Se muore e tu non vai, te ne pentirai per sempre”.

Erano giorni che macinavo le sue parole e pensai che avesse ragione.

Sarei andato.

Ma non avrei scritto nulla di questa visita.

Sarebbe rimasto tra me e lui.

Non ne avrei parlato.

Odio parlare di me.

E che diritto avrei avuto di parlare di lui?

Eccomi qui, sedici anni dopo la sua morte, diciotto anni dopo quella visita, a tradire me stesso.

Perché?

*

Senza dubbio la mia decisione è dovuta a un misto di buone e cattive ragioni, ma una di queste, mi sembra, prevale sulle altre: quando si legge Julien Gracq, quando si guardano le sue fotografie, quando si esaminano i suoi ritratti, quando si leggono le testimonianze di ex studenti, colleghi e scrittori, la statua di Gracq prende forma: qualcosa di compatto, duro, impenetrabile, marmoreo, che ricorda l’antica Roma suggerita dalla scelta dello pseudonimo, un rigore, un’austerità, una severità, un’altezza, un’inflessibilità. Sì, una statua. Fredda. Distante. Morta quando era ancora viva. Gelida. Impressionante.

Eppure.

Le ore trascorse in compagnia di Julien Gracq mi hanno invece permesso non di conoscerlo – sarebbe troppo affermarlo – ma di avvicinarmi all’uomo. Perché era un uomo di costante cortesia, di attenzione e modestia senza riguardi, di simpatia punteggiata da risate e umorismo, di grande curiosità, di cui sono stato ospite per un giorno.

*

Parcheggiai l’auto a noleggio molto vicino alla casa. A pochi passi, la Loira scorreva densa, bruna e autunnale. Suonai il campanello con un groppo in gola. Stupido, non è vero, avere così tanta paura?

Il vecchio si materializzò improvvisamente di fronte a me. Non ricordo di aver visto la porta aprirsi. Mi invitò a entrare. Poche parole, ma calde. Uno sguardo che non giudica ma osserva, malizioso, generoso.

*

Ci troviamo faccia a faccia in un piccolo salotto. Profuma di provincia, con il tempo ritagliato da grandi orologi invisibili. Seduti su poltrone che sembrano essere lì da sempre, parliamo. La conversazione è semplice e naturale. Julien Gracq ascolta, non si pone in una posizione di superiorità. No, lui è lì. E ci sono anch’io. Gli argomenti sono vari, certo un po’ letterari, ma non sono gli unici, tutt’altro.

È ora di pranzare. Il ristorante è vicino. Proprio come lui. Come il villaggio. Discreto. Di qualità. Senza ostentazione. Prendiamo del pesce. Un po’ di vino bianco. Parliamo. Parliamo. Mappe. Geografia. Notizie dal mondo. Sport. Scacchi. Libri. Tabacco e cavalli. Del dispiacere che aveva provato, qualche tempo prima, nel dover rinunciare a guidare e a fumare. E di aver rinunciato ad andare a Parigi di tanto in tanto, per paura di cadere da un marciapiede.

Voglio pagare il conto. Me lo nega.

“Lei è mio ospite”.

*

Torniamo verso la casa in rue du Grenier-à-Sel.

Di nuovo ci troviamo faccia a faccia nel salottino.

Conversiamo ancora un po’. Un’ora. Due.   

Parliamo della durata della vita. Della sua vita. All’epoca aveva novantacinque anni. Mi spiega che questa età avanzata non è compatibile con l’apparato umano, che il nostro cervello non è in grado di accumulare tanti anni di vita, tanti ricordi, che tale accumulo crea una sorta di stratificazione che comprime i capitoli dell’esistenza. E ciò che è doloroso è essere l’unico sopravvissuto, e non poter più condividere momenti ed esperienze comuni con nessun altro, perché gli altri sono scomparsi.

Torniamo alla terra, al mondo, alla geografia. Al viaggio. Lui ha viaggiato poco, al di fuori della Francia. Mi fa delle domande, perché io sono sempre in giro per il mondo in ogni direzione, e non mi è mai piaciuto.

Per qualche motivo, finisco per parlare dell’Australia, e in particolare della roccia rossa di Uluru, nel cuore del continente e del deserto. Improvvisamente, lo sguardo di Julien Gracq diventa quello di un bambino a cui viene raccontato del meraviglioso regalo di Natale che non ha mai ricevuto. Aveva sempre sognato di recarsi lì, ai piedi di questo immenso monolite, il più grande del mondo, che emerge dal terreno come la gigantesca gobba di un capodoglio fossilizzato.

“Andiamo!” gli dico. “Organizzerò tutto. La porterò con me. Andiamo a Uluru, quando vuole!”.

Mi sorride. È silenzioso. Muove un po’ la testa, come in segno di assenso, poi mi risponde.

“Lei è molto gentile. È tardi ormai. Sono troppo vecchio. La ringrazio”.

Mi domanda ancora di Uluru, della Valle dei Venti, del vuoto intorno ad Alice Springs. Gli racconto della strana sensazione che deriva dall’immensità australiana, un misto di vertigine e angoscia, ma anche di pace e lontananza.

Lontananza.  

Sembra sognante.

*

È il momento di salutarlo.

Gli chiedo se sarebbe disposto ad autografarmi uno dei suoi libri. “Con piacere”. Tiro fuori dalla borsa Les Eaux étroites, un meraviglioso racconto di una passeggiata lungo un fiume, ma anche nei libri. Scrive alcune parole che leggerò più tardi e si riveleranno molto toccanti.

*

Eccoci davanti alla porta. Alla fine di un pomeriggio pieno del respiro limaccioso del fiume. Ci stringiamo la mano. Vorrei quasi abbracciare il vecchio.

La statua non c’è più.

Mi allontano. Mi volto. Un piccolo gesto da parte mia. Da parte sua.

È tutto.

*

In seguito ci siamo sentiti. Scritti. Fino alla sua morte, avvenuta alla fine del 2007.

Ero all’estero quando ho sentito la notizia. Una morte rapida, dopo una specie di influenza. Non ero triste. Ricordavo quel giorno che avevamo condiviso. Le nostre parole. La sua voce. La sua gentilezza. Ho pensato a Uluru. Mi sono detto che finalmente aveva intrapreso il suo viaggio.

*

Tre anni dopo, all’inizio del 2010, ricevetti la sua ultima lettera: era un biglietto di auguri. Mi augurava un felice anno nuovo e ogni successo nelle mie imprese letterarie, e sperava di rivedermi.

Il bigliettino era datato 15 dicembre 2007, una settimana prima della sua morte. Julien Gracq aveva scritto il biglietto, lo aveva imbustato, vi aveva annotato il mio indirizzo, aveva apposto un francobollo e chiuso la busta. Non aveva avuto il tempo di infilarlo nella cassetta delle lettere. Fu portato in ospedale e non tornò più.

La lettera rimase in casa.

Tre anni dopo, un uomo la trovò in un lotto di vecchie carte che aveva appena comprato a un’asta e me la inviò.

I morti a volte sono spiritosi.

Sono rimasto incantato da questi auguri postumi.  

*

Penso spesso a Julien Gracq.

Sempre con un sorriso.

E sempre pensando al fiume che ha fatto scorrere le sue acque, forti o leggere, nella vita di un bambino diventato un uomo troppo vecchio.

*

Il vecchio e il fiume, dicevamo.

Il vecchio con la roccia di Uluru, mai raggiunta, mai sfiorata.

Philippe Claudel

[Scrittore e regista, Philippe Claudel è pubblicato in Italia dall’editore Ponte alle Grazie]

*L’articolo è tratto da: NRF Revue de littérature et de critique – Automne 2023 (Gallimard). La traduzione è di Fabrizia Sabbatini

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