08 Febbraio 2024

“Sono solo, ma non mi lamento”. Julien Gracq, lo scrittore assoluto

Un romanzo di puro cristallo. Un diamante rosa scritto con un bisturi intinto nell’acciaio in una lingua talmente raffinata che sembra quasi volere tenere a distanza il lettore. Uno stile ricco di vocaboli arcaici incastonati in un arazzo di sconfinata raffinatezza. Una storia ambientato in un luogo immaginario, in un’atmosfera da mondi perduti, avvolta nelle nuvole, lontano da tutto e fuori dal tempo, da ogni tempo.

Sono sicuro che chi lo ha letto ha già capito che mi sto riferendo a La riva delle Sirti, dello scrittore francese Julien Gracq, pseudonimo di Louis Poirier (1910 – 2007). Una sorta di “viaggio al termine della notte” alla ricerca di non si sa bene cosa che è stato definito «il più straordinario poema in prosa della letteratura francese».

Al centro della trama Aldo, il protagonista-narratore, che viene inviato come osservatore dalla signoria di Orsenna, ormai in profonda decadenza, nella lontana provincia delle Sirti, separata da un braccio di mare dal Farghestan, con cui Orsenna è in guerra da trecento anni. Una guerra per modo di dire, perché, senza che sia mai stata firmata una tregua o un trattato di pace, le ostilità si sono sopite per così dire da sole, per consunzione. Alla guida dell’Ammiragliato presente alle Sirti c’è l’impenetrabile capitano Marino, una sorta di reincarnazione di Oblomov, personaggio splendido e vero co-protagonista del romanzo, impegnato in una strenua lotta per il mantenimento dello status quo, un fragile equilibrio fondato sull’inerzia e sul fluire sempre uguale dei giorni in un tempo rarefatto nel quale non accade mai nulla. Fra Alberto e Marino nasce un profondo rapporto di attrazione ma allo stesso tempo anche di rivalità, dietro il quale si può vedere in controluce uno conflitto tra tradizione e novità, tra immobilità e azione, tra sogno e rassegnazione.

Su tutto aleggia un’atmosfera di inevitabile rovina. L’attesa consuma la vita di Aldo, ma in questo nulla esistenziale compare l’affascinante Vanessa che piano piano insinua nell’animo del protagonista una inquietudine senza nome accompagnata da una forte curiosità verso quel confine considerato invalicabile. Sullo sfondo, al di là del mare, il minaccioso e mai avvistato avversario. E una notte Alberto cede alla tentazione, attraversa ogni confine, reale e immaginario, e a bordo di un battello va a sfiorare la costa del Farghestan, il grande nemico di Orsenna, che, provocato, risponde a cannonate e con la mobilitazione.

«E poi, di tanto in tanto, su quell’intenerimento melanconico, scivolava come un colpo di vento vivo e allarmante in una notte tepida quella conturbante parola: “la guerra”, e i colori così puri del paesaggio che mi circondava prendevano una quasi impercettibile sfumatura di temporale».

A quel puntol’equilibrio tra i due Stati fondato sulla stasi che dura da trecento anni ormai sta per andare in frantumi. Alberto torna a Orsenna per un ultimo drammatico confronto con Danielo, una figura enigmatica arrivata per vie misteriose alla guida della vecchia Repubblica, ma il futuro di Orsenna è segnato.

La riva delle Sirti è un capolavoro e in quanto tale ognuno può trovarci quello che vuole: una metafora della fine della civiltà occidentale di spengleriana memoria, il perenne scontro generazionale tra vecchi e giovani, il tema dell’attesa, quello del bisogno di una rivelazione, l’eterna insoddisfazione di ogni essere umano di fronte alla realtà e ancora mille altri. La vecchia sfinita Repubblica di Orsenna può ricordare la Kakania di Musil, certe atmosfere sembrano rimandare al Castello di Kafka o ancora di più al Buzzati del Deserto dei tartari, tanto che Gracq fu addirittura accusato di avere copiato lo scrittore italiano e si difese sostenendo che il suo vero modello era stato il Puškin della Figlia del capitano. Ai miei occhi, quella tra Gracq e Buzzati più che letteraria è una vicinanza umana; due figure confinate su una loro personale banchisa di solitudine.

In realtà Gracq è un autore originalissimo con un ideale assoluto della letteratura. Allergico ai riti della critica e ai compromessi dell’editoria, non si concesse mai alle interviste e alla mondanità della società culturale francese o ai riconoscimenti, tanto da rifiutare sdegnosamente il Premio Goncourt assegnato nel 1951 a La riva delle Sirti. Osò persino dire no ai numerosi inviti all’Eliseo da parte del presidente Mitterrand.

Quella di Julien Gracq è una figura scolpita nel marmo, per molti versi inaccessibile. Un autore che potremmo dire già nato classico. Non per niente è stato uno dei pochissimi a essere pubblicato da vivente nella leggendaria collana La Bibliothèque de La Pléiade. A mio avviso il suo migliore ritratto resta quello fatto dallo spagnolo Enrique Vila-Matas:

«L’ultimo grande scrittore francese prima della sconfitta dello stile, prima dell’irruzione selvaggia della “letteratura alimentare”, quella di cui parlava Gracq nel suo libello del 1950 La letteratura nello stomaco, in cui si scagliava contro le impostazioni e le tacite regole del gioco della crescente industria delle lettere».

Per molti anni Gracq ha insegnato storia e geografia in un liceo parigino, amato dai suoi studenti e ricordato anche per la meticolosità che lo portava a preparare le proprie lezioni in modo che terminassero nel momento preciso in cui suonava la campanella. Una volta andato in pensione si ritirò nella vecchia casa di famiglia a Saint-Florent-le-Vieil dove passava ore e ore seduto nella veranda a osservare lo scorrere delle acque della Loira. Visse lì con la sorella, completamente isolato, fino alla morte che lo raggiunse nel 2007 alla venerabile età di 97 anni. Negli ultimi tempi usava dire:

«Sono solo, ma non mi lamento. Lo scrittore non deve aspettarsi niente dagli altri. Scrive solo per se stesso».

Silvano Calzini

Gruppo MAGOG