“La mia disperazione è un combattimento”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Finalmente, poteva riposarsi, cedersi. In Joseph Conrad, sempre, è la ruvida competenza dell’uomo di mare, che va fino in fondo, con una costanza che sfiora l’ossessione. Scriveva, in una lingua non sua – la terza: nato Korzeniowski, come si sa, a Berdyčiv, in prossimità russa, si esprimeva, quanto a fatti letterari, in francese –, navigando: l’oceano era sostituito dal foglio bianco, lo schooner dalla penna. Inventò un genere e un linguaggio; scrisse tempestato dalla necessità (di far soldi più che raccattare fama), consapevole, comunque, di essere estraneo al mondo letterario, alle combriccole di cristallo, agli zar della cultura. Restava – ben pettinato, folle fino all’ordinario – un corsaro. Anzi, un capitano. Sapeva che anche il linguaggio, sconvolto da inquietudini, da note tenebre caravaggesche, aveva un onore, l’odore di una armonia perduta. Nel 1922, pur senza allori, allora, Joseph Conrad poteva riposare su un conquistato rispetto. I suoi romanzi – aveva cominciato nel 1895 con Almayer’s Folly – aveva squassato il mondo inglese, per lo più vittoriano: la sua scrittura era diseducata, maculava i mondi esotici di un plumbeo sentore biblico – il suo Oriente è uno stato d’animo, figura di una inquietudine che desidera l’apocalisse. Aveva già scritto i grandi libri – Cuore di tenebra, Lord Jim, Nostromo, Vittoria –, Chance, nel ’13 (il romanzo più elaborato, non il più bello), gli aveva consentito una qualche serenità finanziaria. T.S. Eliot lo adorava: avrebbe voluto, quell’anno, farne il padrino del suo poema, The Waste Land: Pound (che, stranamente, non capì) gli consigliò altrimenti. T.E. Lawrence, che aveva orecchio per la grande letteratura, riteneva che gli scritti di Conrad “sono in assoluto le cose più inquietanti mai scritte in prosa: ogni suo paragrafo (dacché non scrive quasi mai frasi, ma paragrafi) suona a ondate, come la nota di una campana, dopo che si è fermata. Non si sviluppa secondo la prosa ordinaria, ordinata, ma intorno a un ritmo che esiste solo nella sua testa… i suoi libri sono più grandi rispetto alle intenzioni che si prefigge l’autore. Egli è gigantesco nel soggettivo quanto Kipling lo è nell’oggettivo: può darsi non si sopportino”.
Stava lavorando a The Rover, sarebbe morto poco dopo, il 3 agosto del 1924, nella sua casa, Oswalds, nel Kent: lo seppelliranno a Canterbury. Come tutti gli scrittori che hanno trovato pace, Conrad – sempre sull’attenti, in assalto – redigeva il proprio canone personale, di tanto in tanto: aveva scritto di Turgenev e di Stephen Crane, da tempo amava Henry James. Il saggio su Proust, Proust as a Creator esce nel ’23: il grande francese era morto il 18 novembre dell’anno prima. Nella lettera che si riproduce, scritta un mese dopo la morte di Proust, Conrad traccia il suo pensiero sul francese – la sua distanza, si direbbe. Esistono scrittori tanto difformi, in effetti? Entrambi, tuttavia, tendono ai lacci onirici, alla frase che sfocia in bosco, in una implacabile gestione del tempo, dello spazio. Charles Kenneth Scott Moncrieff (1889-1930), a cui è inviata la lettera, è stato il traduttore di Proust in inglese: il primo volume di Remembrance of Things Past è pubblico proprio nel 1922. Amico di Robert Graves e di Wilfred Owen, con una certa predisposizione al lirismo, è morto a Roma, giace al Cimitero del Verano. La lettera è raccolta nell’Epistolario di Conrad appena stampato da Giometti & Antonelli, che replica l’edizione Bompiani del 1966, a cura di Alessandro Serpieri – è dunque anche un omaggio al grande anglista. Le lettere di Conrad, spesso, sono concitate, concise; nel 1885, da Calcutta, riassume così la sua visione del mondo: “Io vivo soprattutto nel passato e nel futuro. Il presente, come può ben capire, ha poche attrattive per me. Guardo agli eventi che accadono con la serenità della disperazione e l’indifferenza del disprezzo”.
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A C. K. Scott Moncrieff
Oswalds, 17 dicembre 1922
Mio caro Moncrieff,
Le perdono l’«orribile» lettera. (Noterà come sia caratteristico di Conrad questo procedimento di rispondere a una lettera dalla fine. È il difetto che i critici hanno trovato nei miei romanzi. L’hanno chiamato «metodo indiretto». Buffi tipi, i critici.) Stamattina mi sento brillante. Un giorno voglio cominciare un romanzo in questo modo – con una parola fra virgolette e una lunga parentesi. La mancanza di risposta da parte del pubblico non mi sorprende. E non credo che sorprenda molto la ditta Chatto & Windus. Maggiore onore a loro per avere rischiato un colpo che non può ottenere alcun grande premio. Quanto a Lei, è chiaro che l’ha fatto per affetto – e non c’è altro da dire.
Nei volumi che mi ha mandato sono stato più interessato e affascinato della Sua resa che dalla creazione di Proust. Uno mi ha rivelato qualcosa, mentre nell’altro non c’è rivelazione. Sto parlando ora della semplice maîtrise de langue; voglio dire fino a che punto può essere spinta – di due lingue, nel Suo caso, – mediante una facoltà suprema, simile al genio. Perché pensare che un tale risultato possa essere ottenuto con la semplice applicazione e diligenza sarebbe troppo deprimente. E quella è la rivelazione. Per quanto riguarda la maîtrise de langue, non c’è rivelazione in Proust. Tutto ciò naturalmente è detto solo per Lei. Non è una affermazione per un depliant pubblicitario.
Ora quanto a Marcel Proust, créateur, non credo che sia stato scritto molto su di lui in inglese, e quello che ho visto è piuttosto superficiale. L’hanno lodato per i suoi «meravigliosi» quadri di vita parigina e provinciale. Ma ciò è già stato fatto in maniera ammirevole, con amore o con odio o con semplice ironia. Un critico si spinge fino a dire che la grande arte di P. raggiunge l’universale e che nel descrivere il suo passato egli riproduce per noi l’intera esperienza dell’umanità. Ma ne dubito. L’ammiro piuttosto per il suo rivelare un passato diverso da quello di qualsiasi altro, per il suo allargare, per così dire, l’intera esperienza dell’umanità immettendovi qualcosa che non era mai stato registrato prima. Tutto ciò, comunque, non ha molta importanza. La cosa importante è che mentre, prima, avevamo l’analisi alleata all’arte creativa, grande nella concezione poetica, nell’osservazione o nello stile, la sua è un’arte creativa assolutamente basata sull’analisi. In realtà è molto più di questo.
Egli è uno scrittore che ha spinto l’analisi al punto di farla diventare creativa. Tutta quella folla di personaggi nella loro infinita varietà, che copre tutte le gradazioni, della scala sociale, stanno in piedi, vivono, e si manifestano a noi solo in virtù di analisi. Non dico che P. non abbia alcuna dote descrittiva o di caratterizzazione; ma per fare un esempio da entrambi i termini della scala, Françoise, la serva devota, e le baron de Charlus – un finissimo ritratto – quante righe descrittive hanno nell’intero corpo di quell’opera immensa? Forse, contando le righe, mezza pagina ciascuno. Eppure nessuna persona intelligente può dubitare per un momento della loro esistenza plastica e coloristica. Vien fatto di pensare che quel metodo (e P. non ne ha altri, poiché il suo metodo è l’espressione del suo temperamento) possa essere stato spinto troppo in là, ma in verità non è mai tedioso. Qua e là, in quelle migliaia di pagine, può esserci un paragrafo che si può ritenere troppo sottile, un brano d’analisi spinta così in là da svanire nel nulla. Ma questi esempi sono molto pochi e di secondaria importanza.
L’interesse intenso non viene mai meno perché uno sente di star leggendo l’ultima parola su un soggetto molto studiato, su cui si è molto scritto e di interesse imperituro – l’ultima parola della sua epoca. Quanti hanno trovato bellezza nell’opera di Proust hanno avuto perfettamente ragione. C’è. Ciò che stupisce è il suo carattere inesplicabile. In quella prosa così piena di vita non c’è sogno, non emozione, non marcata ironia, non calore di convinzione, e nemmeno un ritmo marcato che ci prenda la fantasia. Attrae il nostro senso dello stupore e si guadagna il nostro consenso con la sua grandezza velata.
Non credo che ci sia mai stato nella letteratura di tutti i tempi un tale esempio di capacità analitica e son quasi sicuro nell’affermare che non ce ne sarà mai un altro simile. Questo è più o meno quel che penso, o credo di pensare. In realtà non è neanche la metà di quel che credo di pensare.
Se Le può servire, può alterare, tagliare, espandere, contorcere, capovolgere e fare quel che Le piace di quanto ho scritto, per adattarlo ai Suoi fini. È indubbio che Lei conosce Proust molto meglio di me; perciò La prego di cancellare (facendomi un amichevole servizio) tutto ciò che Le possa apparire assurdo in questa cosa senza nome. Dico sul serio! Spero che la Sua salute stia migliorando. Così sta ancora al «Times»? È un forte legame? Potrebbe trovare un giorno libero per fare una scappata quaggiù – trattenendosi la notte, se possibile? Presto, voglio dire. Mia moglie Le manda i più gentili saluti.
Sempre cordialmente Suo, mio caro Moncrieff.
Joseph Conrad