
“Abbiamo bollato come bestialità i desideri della carne…”. Rileggiamo “Sanin”, il romanzo dell’amore violento
Letterature
Silvano Calzini
Etimologia. “Dio ha dato la sfrontatezza”. Questo, grosso modo, è Jonathan Swift. Il nome ebraico Jonathan significa “Dio ha dato”; in inglese swift è veloce, rapido, agile, pronto; infine, sfrontato. A Jonathan Swift Dio ha concesso il dono della rapidità, della prontezza, della spudoratezza. In effetti, pochi altri scrittori come Jonathan Swift hanno avuto la rapidità, la rapacità di insinuarsi nei vizi, nei bluff, nelle malizie dell’essere eretto, l’uomo. Per completare il vago repertorio di lezioni calviniane, dovremmo aggiungere la “prontezza”, appunto. Swift osserva l’uomo nei suoi lati meno nobili, lo smutanda, lo pesta e battezza di improperi, inventandone di nuovi lì per lì – non ha pietà per nessuno, ne ha per tutti, per se stesso, intanto, per i re e per le canaglie. Perfino a Dio l’irlandese insopportabile e imparruccato, morto con il conforto dei pazzi, cala le mutande scoccando ceffoni.
Lo scandalo e la didascalia. Tra i più feroci polemisti di ogni tempo, Jonathan Swift estremizza e modernizza l’arte di Aristofane e di Giovenale. Il teatro, per Swift, è l’esistenza, grottesca, esuberante di oscenità, grave di perversioni, che egli analizza con l’acribia del ghiottone. Il tentativo di limitare il nichilismo cannibale di Swift è andato a buon fine, almeno in parte: dai Viaggi di Gulliver, pazzesca antiutopia, han tratto cartoni animati e devote riduzioni per i ragazzini (lo ha detto già Mario Praz, decenni fa, “Per un destino ironico, il capolavoro di questo maestro dell’ironia che non sopportava la presenza dei bambini, è stato degradato da satira contro l’umanità a classico del ridere pei fanciulli”). Una sonora cretinata: come radunare un fiume in un ditale. “Swift ci inquieta perché talvolta abbiamo l’impressione che la sua ironia non abbia limiti”, ce lo conferma anche Harold Bloom, il quale riconosce, però, che “nei suoi scritti la ferocia dell’indignazione ha un effetto curativo”, e riferendosi al Racconto della botte sbotta, “nella lingua inglese non conosco altre opere non narrative in prosa che sia un’esplosione di genio tanto pericolosa e sorprendete”. Fidatevi.
Licenza editoriale. In realtà il titolo originario del pamphlet che Jonathan Swift licenzia nel 1708, anno capitale in cui crede nella sua possibile scalata ai massimi ranghi della politica inglese, è Argument against abolishing Christianity. Ragionamento contro l’abolizione del Cristianesimo. Che per licenza letteraria potremmo convertire a contrario: Aboliamo il Cristianesimo! Swift è un provvidenziale satiro. Non sai mai se ti sta pigliando per i fondelli, perché il suo discorso così ragionevole, planante, pacato e tendenzioso in un lampo, nel frastuono di una frase, può corrompersi in ghigno, ribaltarsi nell’assioma opposto. Come chi ti conduca tra sentieri pieni di rose e vigne e fragranti fiori per poi gettarti felicemente in un orrido. In effetti Jonathan Swift non si dimostra un abile difensore della religione Cristiana. Non vuole esserlo. Amalgama l’arte apologetica di un Tertulliano in barzelletta da taverna. Conduce un’audace dissertazione in cui la pars destruens è assai più persuasiva dell’azione di difesa. Il Cristianesimo “obbliga a credere cose troppo astruse per un libero pensatore, e per chi s’è affrancato dai pregiudizi di una educazione limitata”, metterlo in cantina tra gli oggetti desueti e indesiderati fornirebbe un immediato guadagno: il giorno dedicato al Signore, la domenica, si potrà lavorare, tramutandolo nel giorno dedito allo Sterco del Demonio, il denaro, divinità, per altro, che da tempo ha sostituito Dio, nonostante Swift – l’Europa è creata intorno alle sottane di una moneta e di una banca, mica tra le fasce di un pensiero. La difesa del Cristianesimo impalcata da Swift pare, davvero, uno scherzo, acrobazia da clown urbani: il Cristianesimo è, sostanzialmente, una favola per rabbonire i bimbi (“è argomento eccellente per tenere a bada i bambini quando diventano arroganti, e durante le noiose serate invernali fornisce divertenti motivi di conversazione”); è un oppio necessario ai polemisti (“una volta che il cristianesimo fosse abolito, i liberi pensatori, gli intellettuali e gli uomini di profonda cultura, dove troverebbero un altro argomento per esibire le proprie abilità?”) come alle masse ignobili (“senza il cristianesimo, un mucchio di persone sarebbero pronte a trasgredire le leggi del paese e disturbare la quiete pubblica”). Lo strepitoso ardore di Swift ci porta a dubitare di tutto, a diffidare dell’esaltato di Cristo come dell’estatico ateo. Soprattutto, Swift ha già capito tutto, che l’Europa civilizzata, quella che in Parlamento mette la parrucca, è cristiana per noia e per abitudine, di fatto non crede in nulla (“i turchi non soltanto sono devoti osservanti del culto religioso, ma peggio ancora credono in Dio, che è più di quanto ci si aspetta da noi, anche se manteniamo il nome di cristiani”: ogni riferimento con l’attuale lotta, devastante, contro i musulmani estremisti è ovvio, il cinico polemista Swift le ha azzeccate meglio dei Nostradamus della politica occidentale).
Intenzioni di viaggio. A proposito di Jonathan Swift, Attilio Brilli parlava di “allucinante contemporaneità”. Il virulento, sarcastico, ghignante Swift era un uomo di Dio stipendiato dalla Chiesa d’Irlanda. Ordinato sacerdote nel 1694, comincia la carriera presso la desolata parrocchia di Kilroot, nei dintorni di Belfast; sei anni dopo è canonico a St. Patrick. Certificato “il totale disprezzo nel quale Swift affettò sempre di tenere il sermone come genere dotato di dignità letteraria” (Masolino D’Amico), in fondo una posa come tante altre, per il lettore odierno le ramanzine dal pulpito di Swift sono una manna, altro che le paternali di Papa Francesco, un po’ don Camillo un po’ Che Guevara. Il sermone Sul dormire in chiesa è francamente esilarante, mentre quello che insegna a Fare il bene specifica l’unico credo di Swift, quello nell’individualità sovrana (“Ci viene chiesto, è vero, di amare il nostro prossimo come noi stessi, ma non tanto quanto noi stessi”). La bussola, va da sé, è il “Meridiano” Mondadori delle Opere swiftiane curato da Masolino D’Amico, datato, era il 1983, un millennio fa.
Antropologia horror. La luce si comprende affettando il buio. L’uomo lo capisci sfidandone le tenebre, descrivendone gli orrori prima che le glorie, il culo piuttosto che il viso. Con il senno di poi, non possiamo fare a meno di Swift, “le conseguenze della devastante ironia swiftiana, fondata sul paradosso, sull’umorismo nero e sulla concretezza” sono evidenti in “autori moderni come Wilde, Samuel Butler, Shaw, Chesterton, Waugh e per l’aspetto funambolesco nei confronti della lingua, Joyce” (ancora D’Amico). Tuttavia, Swift ha sofferto come un cane. Andandogli male la vita politica – che è, ad Atene come a Londra come a Bruxelles, tutta la vita – dal 1714 Swift si ritira sostanzialmente in oltraggiata e proficua (nascono in quegli anni capolavori fragranti come I viaggi di Gulliver e la Modest proposal) solitudine. Nel 1731 Swift si scrive anzi tempo il coccodrillo, in versi on the death of Dr. Swift, dove ci racconta che “la sua vena ironica, e tuttavia severa,/ smascherava lo stolto, sferzava la canaglia”, ma che in fondo è inutile fare affidamento alla fama perché le opere muoiono come gli uomini, “soggette anch’esse alla sorte comune”. Swift morì per davvero quattordici anni dopo, “dando triste spettacolo di demenza”, folle, come si affretta a dire il Dottor Johnson, sperando di sputtanare per sempre il più grande genio della satira e del livore d’Occidente. Ma cosa pensava davvero Swift dell’essere umano? “Il difetto è nel genere umano”, gorgheggia, a mo’ di incipit, nella sua autonecrologia (che si cita secondo la bella versione di Lodovico Terzi) il pastore irlandese. All’amico Alexander Pope specificò che “Io ho sempre odiato tutte le nazioni, le professioni e le comunità e tutto il mio amore è per i singoli individui. Ma soprattutto, odio e detesto quell’animale chiamato uomo, pur nutrendo vivo affetto per Giovanni, Pietro, Tommaso e così via…”. Nella memorabile Meditazione sopra un manico di scopa, Swift ci insegna, come un filosofo fuori dal tempo, che l’uomo non è diverso dall’aggeggio che maneggiamo per tirar su la spazzatura. Dopo aver svolto il suo bravo compito, gettiamo anch’esso nel pattume. D’altronde, la titanica creatura che ha dominato le forze del cosmo più che il cervello per ragionare usa le parti basse, è davvero una testa di… In fondo, “cos’è l’Uomo, se non una creatura sottosopra?”. Eleggiamo Jonathan Swift a massimo sapiente del nostro tempo.
Federico Scardanelli