
“Mia madre ha perso la testa. Non ne posso più”. I diari di Mur, il figlio di Marina Cvetaeva
Letterature
Fabrizia Sabbatini
Era bello, impudente, geniale: il più eccelso wit d’Inghilterra per molti, compreso il “matafisico” Andrew Marvell, detestato come un demonio di depravazione da altri. Comunque, una sorta di enigma letterario.
Perché John Wilmot, secondo conte di Rochester e barone di Adderbury in Inghilterra, visconte di Athlone in Irlanda, tra i più ammirati Cavalier lyrists – i poeti alla corte di re Carlo II – ha lasciato dietro a sé una sterminata galassia di versi, per lo più rimasti in manoscritto, opere per il teatro, libelli, parodie: tutte luminescenze dell’autore, stella polare dei libertini nell’Inghilterra della Restaurazione. Anzi, “il” libertino per antonomasia, tanto da diventare il modello del dissoluto in varie opere contemporanee e future.
Eccelleva anche nell’improvvisazione, Rochester, proteggeva artisti e poeti, si concedeva con ugual brio amanti, bevute, liti e duelli, per cui è più volte imprigionato o bandito dalla corte. Lo stesso re, che lo adora, frequenta pari del regno e poeti, nobili e teatranti: ha, anche lui, la passione per le lettere e il palcoscenico. E rende canone la figura del Poeta Laureato (a vita): il lauro, re Carlo II, lo pone sul capo di John Dryden, che per la corona ha scritto vari panegirici.
Di Rochester, Hazzlitt dirà che i suoi versi di “splendono come diamanti”, Horace Walpole e Defoe lo citano ampiamente nei romanzi. Charlotte Brontë si ricorderà di lui nel battezzare il suo celebre e ombroso protagonista e persino il nostrano Giuseppe Verdi, passando per i drammi francesi, individua in Rochester l’eroe di una sua opera: alla fine Rocester diventa Oberto, ma vale per tutti quanto scrive Voltaire nelle sue Lettres philosophiques (1734): “Tout le monde connoit de réputation le Comte de Rochester”.
Nato nel 1647, due anni prima della decapitazione di Carlo I, e precocemente orfano di padre, la madre – donna pia, di antico lignaggio – lo equipaggia di un’istruzione sopraffina. Il bambino, una sorta di Leopardi in terra di Albione, vi fa onore: a dodici anni è ammesso a Oxford al Wadham College. Tra i pinnacoli d’oro di Oxford, John inizia a dimenticare l’obbedienza e lo studio dei classici e mentre prende a frequentare teatri e locande, sviluppa in fretta la personalità audace, incline alla perversione, che gli darà la fama. Quando il re gli assegna un vitalizio in riconoscenza ai servizi resi alla corona dal padre Henry, primo Conte di Wilmot, lui parte per il Gran Tour, va in Francia e in Italia.
Durante il soggiorno a Venezia – città che ama per la vita libera, aperta a ogni dissolutezza, prossima gloria di Giacomo Casanova – frequenta per un periodo l’università di Padova, registrato come studente “della nazione inglese”. Non gli manca il divertimento nemmeno nell’ateneo patavino, celebre per gli studi medico anatomici e per le risse frequenti e l’insubordinazione della vita studentesca.
Rientrato in Inghilterra, Carlo II lo consiglia di prender moglie e individua per lui l’ereditiera Elizabeth Mallet, poetessa anche lei. Soprattutto, però, bella e ricca. Brillante ma povero di mezzi, Wilmot non perde tempo e la rapisce: lo sappiamo dal diario di Samuel Pepys.
Mentre la ragazza torna a casa, lui viene relegato alla Torre di Londra dal re: è uno dei vari allontanamenti dalla Corte, un altro segue quando, dietro richiesta regale di scrivere un’opera teatrale, Wilmot offende Carlo II sul palcoscenico con un’opera oscena. Eppure, ci tiene a riscattarsi agli occhi del sovrano, che lo tiene come suo pupillo: s’arruola e, combattuto con coraggio nella seconda guerra anglo-olandese, rientra in patria eroe di guerra.
E dunque – siamo nel 1667 – Elizabeth Mallet consente al matrimonio, ma controllerà sempre le finanze domestiche lasciando Wilmot squattrinato fino alla fine. Nello stesso anno 1667 lui ottiene il suo seggio alla Camera dei Lord, non senza contestazioni per la giovane età. I due sposi, narra sempre l’inarrestabile penna di Pepys, genio del pettegolezzo, si ritirano in campagna nella grande proprietà dei Rochester, dove nasceranno quattro figli. Ma John si comporta da canaglia. Volubile, ha molte amanti, la vita protratta in un’alternanza tra stati depressivi a ubriacature pesanti: l’esser stato ubriaco per cinque anni di seguito, dichiara, lo ha reso “fastosamente amabile”. L’inquietudine ha in lui violenza d’uragano, non si esime dal pericolo, non scansa gli affondi della sorte.
È anche tra i frequentatori della Merry gang, come la chiama Marvell, che raccoglie appassionati del teatro, poeti, letterati, drammaturghi: tra loro George Etherege e William Wycherley, Charles Sackville, VI conte di Dorset e George Villiers, II duca di Buckingham. Se all’avvenente Buckingham (un suo ritratto di Rubens è a Palazzo Pitti a Firenze) Wilmot dedica versi apertamente erotici, è con Etherege che sente di avere gusti letterari comuni, un’amicizia che con il tempo si connoterà allo stesso modo di toni passionali. I due collaborano in poesia e in opere teatrali. Wilmot critica con ferocia il primato della ragione e l’ottimismo dell’epoca, convinto della sostanziale malvagità dell’uomo e il prevalere in lui d’incontrollabili istinti bestiali. E tuttavia cita Orazio e Seneca, Ovidio, Petronio, Lucrezio: Pope gli riconoscerà la capacità di adattare i classici al distico eroico inglese che, con Dryden, porterà alla perfezione.
Hetherage immortala l’eclettica personalità dell’amico come Dorimante in The Man of Mode, L’uomo alla moda, play tra i più rappresentativi della Restaurazione. John ha per il teatro una passione selvaggia (per il teatro e per le attrici), che non lo lascerà mai. E sui palcoscenici londinesi conosce la giovane attrice Elizabeth Barry, ancora acerba sebbene interprete di Thomas Ottaway, e ne fa una sua protetta.
Le dà lezioni, vuol fare di lei la migliore attrice di Londra e ci riesce: in breve la ragazza sviluppa chiaroscurate doti drammatiche, continua a interpretare Ottaway ma è anche Cleopatra, Ofelia, Giulietta. Diventata l’amante di Wilmot, poi anche di Etherege, dà un erede a entrambi. E di entrambi continua a interpretare i ruoli. Ma quando reciterà nella satira su Carlo II Il Satiro, sempre a firma di Wilmot, del 1674, virulenta critica del sovrano, delle sue amanti e di come queste e i loro figli illegittimi sono mantenuti a spese del popolo, per Wilmot è l’esilio.
Della relazione con Elizabeth Barry, che continuerà a recitare con compagnie importanti, rimangono molte Canzoni. Celeberrima, Absent from thee, I languish still, Lontano da te, ancora languo:
Absent from thee I languish still;
Then ask me not, when I return?
The straying fool ‘twill plainly kill
To wish all day, all night to mourn.
Dear! from thine arms then let me fly,
That my fantastic mind may prove
The torments it deserves to try
That tears my fixed heart from my love.
When, wearied with a world of woe,
To thy safe bosom I retire
where love and peace and truth does flow,
May I contented there expire,
Lest, once more wandering from that heaven,
I fall on some base heart unblest,
Faithless to thee, false, unforgiven,
And lose my everlasting rest.
Lontano da te ancora languo;
Dunque non chiedere, quando farò ritorno?
Ucciderebbe il pazzo randagio
Desiderare ogni giorno, affliggersi ogni notte.
Diletta! dalle tue braccia allora lasciami libero,
Che la mia chimerica mente possa mostrare
Di esser degna dei tormenti provati
Dal cuore fedele strappato dal mio amore.
Quando, stanchi di questo mondo di dolore,
Riparerò alla sicurezza del tuo seno
Dove scorrono amore e pace e verità,
Possa io spegnermi sereno in esso,
Ché, allontanandomi da quel cielo,
Non precipiti in miseria e viltà di cuore,
Infedele a te, falso, imperdonabile,
E ne perda il mio riposo immortale.
Segue la tradizione della lirica petrarchesca, Wilmot, ma echi da Donne sono nell’audacia della lingua, colloquiale ma dai sensuosi paragoni tra il seno dell’amata e il porto del riposo eterno, e nel wit delle immagini: il cielo d’amore dove vola eppure approda il poeta, la “chimerica”, “fantastica mente” a richiamare quella di chi è “nato per strane visioni / Per vedere cose invisibili” della Canzone Go and catche a falling starre, Va’ e afferra una stella cadente.
While on those lovely looks I gaze, Mentre contemplo quell’adorabile sembiante elabora il gusto del paradosso, anche questo caro a Donne, l’“eresia” d’amore che conduce alla morte, per cui lo sconfitto risulta alla fine il vincitore assoluto:
When on those lovely looks I gaze,
To see a wretch pursuing,
In raptures of a blest amaze,
His pleasing happy ruin,
’Tis not for pity that I move;
His fate is too aspiring,
Whose heart, broke with a load of love,
Dies wishing and admiring.
But if this murder you’d forego,
Your slave from death removing,
Let me your art of charming know,
Or learn you mine of loving;
But, whether life or death betide,
In love ’tis equal measure,
The victor lives with empty pride,
The vanquished dies with pleasure.
Quando contemplo quel bel sembiante,
E vedo uno sciagurato inseguire,
In rapimenti di beato stupore,
La sua felice e splendida rovina,
Non è pietà a muovermi;
Troppo ambizioso è quel destino,
E quel cuore, spezzato dal carico d’amore,
Muore desiderando e ammirando.
Ma se rinunciaste a questo omicidio,
Il vostro schiavo da morte strappando,
Fatemi conoscere l’arte del vostro fascino,
O imparate Voi la mia di amare;
Ma, che sia vita o che sia morte,
Nell’amore è ugual misura,
Il vincitore vive con vuoto orgoglio,
Con gioia muore lo sconfitto.
In My dear mistress has a heart, La diletta mia amante ha un cuore Wilmot aveva detto, pensando sempre alla Barry:
Angels listen when she speaks:
She’s my delight, all mankind’s wonder;
But my jealous heart would break,
Should we live one day asunder.
Gli angeli ascoltano quando parla:
Lei è la mia gioia, la meraviglia del genere umano;
Ma il mio cuore geloso si spezzerebbe,
Dovessi vivere un giorno solo separato da lei.
Invece, ridotto in miseria, malato, si allontana da tutto e dal mondo, dalla “mankind”: genere umano, società del mondo, compagnia di simili (kind). Come un personaggio minimo di cui formicolano le pagine di Pepys, in una Londra di troni e bettole, palazzi e slums, è per qualche tempo mercante nella capitale. Quindi, spacciandosi per medico che avrebbe trovato la cura per l’impotenza, irretisce e seduce molte donne in una sorta di nevrotica alienazione erotica. È l’ultimo atto dell’autodistruzione: John Wilmot, conte di Rochester muore, devastato dalla sifilide e dall’alcol, a trentatré anni, nel 1680.
Tra i primi a citare la vastità della sua opera ci sono Alexander Pope nella First Epistle of the Second Book of Horace, Prima epistola del secondo libro di Orazio (1737) e Samuel Johnson che lo annovera nelle Lives of the Most Eminent English Poets, Vite dei più insigni poeti inglesi (1779-81). Alla svolta del secolo, quello di Rochester diventa un nome “universalmente riconosciuto” ma non più letto.
Paola Tonussi