Nelle fotografie, ha sempre quello sguardo liquido, scalfito da una minacciosa malinconia, da sconfitto.
John Masefield è tra i grandi poeti in lingua inglese del secolo scorso – se non altro per il ruolo ‘civico’ che ha ricoperto –, ma lo si dice a denti stretti perché non amava l’eroina intellettuale degli erotomani dell’ego, i poeti sedotti da un esoterismo salottiero. “Poeta laureato” del Regno Unito dal 1930 al 1967 – quando la carica era a vita – ha ottenuto la simpatia di quattro monarchi, l’ultimo era Elisabetta II. Fu eletto da Giorgio V su consiglio di Ramsay MacDonald, primo ministro laburista: Masefield compiva 52 anni, era un poeta ‘popolare’ (l’edizione dei Collected Poems, stampata un secolo fa, toccò la cifra record di 80mila copie vendute), che dava voce ai sentimenti e ai sentori del popolo; non gli dispiaceva fare il fool. Era l’opposto di William B. Yeats, che dal mito traeva materia teosofica; a Masefield piaceva il racconto, la narrazione avvincente, il mistero svelato: agli intrighi metafisici di William Blake preferiva il dire frugale e tonale di Geoffrey Chaucher. Per questo, Yeats, che pure non poté non omaggiarlo nell’“Oxford Book of Modern Verse”, lo trattava, per lo più, come un cantautore. Cattiverie da Sibilla avvelenata: in realtà, il genio musicale di John Masefield, la rapacità nello scorgere il dettaglio infimo, quel vento che di continuo attraversa le sue liriche stanze (e fa sbattere le finestre) è stato imitato e inimitabile: W.H. Auden e Philip Larkin hanno sempre riconosciuto un debito nei suoi riguardi. Alcune poesie – come Sea-Fever, tradotta sotto – sono tra le più note, orecchiabili e recitate del secolo. Da poco, Carcanet Press ha pubblicato una edizione dei Selected Poems di Masefield con questa giustificazione:
“Tra i poeti più popolari del secolo scorso, John Masefield è un superbo tessitore di canti e di ballate di mare, di poemi esotici e ancorati alla vita dell’Inghilterra rurale, di grandi cicli che raccontano l’epica di Troia e la leggenda arturiana… Ancora oggi, attira il lettore grazie all’incomparabile musica del suo linguaggio”.
A un italiano, la poesia di Masefield fa, a tratti, l’effetto dei versi di Marino Moretti, dove la pioggia è la pioggia e la nebbia, se è grigia, è soltanto grigia. Semplicità senza rintocchi retorici, semmai piena di suggestioni e di piccole sovversioni semantiche: il frammento di un foglio che brucia, in fondo alla stanza scura, e sembra un lupo.
In realtà, Masefield è poeta più complesso di ciò che sembra: alla ballata intrisa di sale e gabbiani alterna sonetti dalla tensione esistenzialista, a spirale; nel 1911 scrive un poema, The Everlasting Mercy, che con un linguaggio a tratti rude racconta la conversione al cristianesimo del donnaiolo ubriaco Saul Kane; trent’anni dopo dedica un fascio di versi al Buddha, Gautama the Enlightened.
John Masefield ha fatto il poeta di professione, cioè, ha scritto troppo, guidato da un’ispirazione spesso imbizzarrita. Ciò è dovuto, con probabilità, alla sua vita, estranea al curriculum del poeta anglosassone standard. Nato a Ledbury nel 1878, orfano dall’età di sei anni, costretto in collegio, a sedici anni Masefield s’imbarca su un mercantile, voltando le spalle al passato, con il desiderio di vivere di mare. Fu sugli oceani – dirà più tardi – che scoprì la vocazione alla scrittura, ascoltando i racconti dei compari di bordo. Nel 1894 il ragazzo s’imbarca per il Cile: la natura selvaggia lo sconvolge, trafiggendolo di meraviglia; scopre, però, che un’esistenza in nave non fa per lui. L’anno dopo parte per New York, si dà alla deriva dei lavori saltuari; il Natale di quell’anno lo vede come barista. L’anno dopo si impiega in una fabbrica per tappeti. Nei rari ritagli di tempo, Masefield legge, con la foga del disperato, per lo più Stevenson e Kipling, Keats, Shelley, Dickens. Il decennio della giovinezza dissipata ha forgiato il cuore del ragazzo, esigendo da lui l’obolo della malinconia. Rientrato in Inghilterra, Masefield incontra la futura moglie, Constance de la Cherois Crommelin, irlandese di ascendenze ugonotte, di dodici anni più grande, economicamente sostenuta. Si sposarono nel 1903, il matrimonio, felice, fu coronato da due figli. Per John Masefield la fortuna fu autentica: Constance gli permise di studiare e di scrivere. Nel 1902 Masefield esordisce con Salt-Water Ballads, raccolta che racchiude i suoi temi più cari: il mare, la vita errabonda, la natura a morsi, una lingua sobria, distillata dal volgo. Tutto il contrario delle veterotestamentarie torture di Joseph Conrad, che calibra intorno all’oceano una lingua-leviatano: una sorta di perpetua azzurrità lamina invece le poesie di Masefield.
Oratore di talento – pare che durante una lettura, era il 1918, i soldati americani si misero a ballare cantando i suoi versi –, John Masefield voltò la sua scrittura per la causa della Prima guerra scrivendo due libri non belli ma di successo, Gallipoli (1916) e The Battle of the Somme (1919; ma l’esercito inglese gli impedì di realizzare il poderoso reportage che aveva abbozzato). In Italia, l’opera poetica di Masefield è assente; egli è noto per lo più come delicato scrittore per ragazzi (dal 1990 Mondadori pubblica Lo scrigno delle meraviglie e Il popolo della mezzanotte); nel 1947 le edizioni Aldo Martello hanno tradotto ODTAA (1926), romanzo di avventure ambientato in un’isola fittizia dei mari del Sud.
Secondo Conor O’Callaghan, poeta meno capace di Masefield, autore, tra l’altro, di una biografia di Roy Keane, “solo un idiota potrebbe difendere la causa della grandezza di Masefield”, poeta “maturato nella modestia, un’autorità nell’uso del metro chauceriano, scivolato lentamente nel triangolo delle Bermuda del canone”. Il saggio, uscito su “Poetry” nel 2006, è sagace ma fuorviante: oggi la semplicità di Masefield – poeta che riesce meglio antologizzato – pare pura ricercatezza. O’Callaghan, comunque, riassume in un ottimo cammeo il paradosso del poeta vissuto sul crinale di mondi inconciliabili:
“Nacque nell’anno in cui le forze imperiali britanniche affrontavano gli Zulu; Tennyson sarebbe morto quattordici anni dopo. Una volta incontrò uno che aveva incontrato Napoleone. Aprì la porta a Lenin, quando fece visita al British Museum. Ramsey McDonald lo ritenne il naturale successore di Robert Bridges: la voce dei senza voce, il primo poeta laureato del primo ministro laburista britannico. Perse il figlio durante la Seconda guerra mondiale. Morì nell’anno in cui i Beatles pubblicavano Sgt. Pepper’s e Norman Mailer veniva arrestato in seguito alle proteste contro la guerra in Vietnam, a Washington. La sua vita e la sua opera sono a cavallo di due mondi inconciliabili”.
Che fosse sempre fuori tempo, il conciliatore di mondi inconciliabili, non pare un difetto. Ciò conferisce alle poesie di Masefield la tonalità turbata e malinconica che possiede il suo viso (corpo-corpus): qualcosa è irrimediabilmente perduto, qualcosa va atteso, facendo scorta di lampare; i morti si sono trasformati in gabbiani, cacciano il pesce, acrostico di Cristo, e noi, in fondo, non siamo altro che il nostro errore, quella parure di nubi fitte.
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Febbre di mare
Devo scendere ancora ai mari, penetrare la solitudine del mare e nel cielo:
tutto ciò che chiedo è una schietta nave e una stella a cui ancorarla
il cerchio di un timone, il canto del vento e una vela bianca che pinneggia;
la nebbia grigia sul muso del mare e la grigia alba che sorge.
Devo scendere ancora ai mari, perché il richiamo della corrente
è selvaggio e non posso corrispondere a tale chiara chiamata;
tutto ciò che chiedo è un giorno di vento, fitto di bianche nubi
e la spuma che fermenta, gli schizzi, il grido dei gabbiani.
Devo scendere ancora ai mari perché preferisco una vita da vagabondo.
Seguo la via del gabbiano e quella della balena, dove il vento è un coltello affilato;
tutto ciò che chiedo è una storia divertente canticchiata dal mio compagno di viaggio
la quiete del sonno e docili sogni quando questo enorme scherzo sarà finito.
**
Carghi
Quinquereme di Ninive dalla lontana Ophir
remano verso casa, nella soleggiata Palestina,
con un carico d’avorio,
di scimmie e pavoni
di legno di sandalo e di cedro e vino bianco aromatico.
Il maestoso galeone spagnolo varca l’istmo
e si immerge nei Tropici, lungo rive scortate dalle palme
con un carico di diamanti
smeraldi, ametiste
topazi, cannella e monete d’oro.
Lurida nave costiera britannica con la ciminiera
incrostata di sale, attraversa la Manica nei folli
giorni di marzo con un carico di carbone,
rotaie, piombo, legna
da ardere, ferro e pentole di latta economiche.
**
Gli uomini sono umani perché cadono:
non gli resta che l’onnipossente passione.
Il despota, dopo un lungo assalto alle mura,
non vede che disastri, e torna a farsi uomo.
Il folle fedele che insegue la bandiera lacera
la donna che marcia al fianco dell’uomo bastonato:
Seguili: la loro verità saprà espiare la tua vanità
è per progetti orgogliosi che si guadagna in peccato.
Nel disastro, nella volontà in rovina
nei luridi brandelli di ciò che la mente ha concepito:
qualcosa, tra tali relitti, è ancora saldo
e illumina ciò che è irrimediabilmente perduto.
La grandezza dell’anima, il sussurro di una stella:
i gloriosi giorni vanno, ma sono ciò che siamo.
**
Lasciamo che le cose vadano come devono andare:
oscurità, estinzione, giustizia, invitta vita;
le mosche sono felici in estate, le mosche
saranno felici anche nelle prossime estati.
Il Tempo con i suoi antichi stemmi ha ideato la Sfinge
il Tempo verrà con gli uomini dalle ali sgargianti
a svernare e a versare: ma l’uomo non è un saggio
e con forza cieca cerca di sfruttare la propria misera ora.
E quando l’ora rintocca, arriva la morte o la mutazione,
buona o cattiva non possiamo dirlo, ma il pianeta
vagherà orbo lungo il suo raggio, ospitando
uomini che lo serviranno come abbiamo fatto noi.
Sorgerà il sole e i venti, impazienti, spargeranno
la polvere di coloro che un tempo erano uomini in amore.
**
Marina mutazione
“Albatros e gabbiani e tutti gli altri uccelli di mare
in verità non sono uccelli”, disse Billy il Danese.
“Neppure le sule, i cormorani, le pulcinelle”, disse,
“ma sono gli spiriti dei marinai tornati tra noi.
Quegli uccelli che si tuffano a pescare non sono che
le anime degli annegati, dei mutilati che qui non esistono più
e quel vecchio albatros schifiltoso che ci gira attorno
probabilmente è l’Ammiraglio Nelson o l’Ammiraglio Noè.
Allegra è la vita che ora vivono. Si puliscono, si immergono,
pescano, non devono stare di guardia, agitano le ali;
quando arriva una nave, vanno a guardarla
per vedere come se ne occupano i marinai di oggi.
Quando l’aria, mentre veglio, mi congela, ti confesso
(anche se forse non è un dire troppo cristiano) che vorrei
essere anche io un albatros altezzoso che si tuffa per pescare
mentre si accalcano, fieri, tutti gli altri uccelli di mare”.
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L’anatra selvatica
Crepuscolo. L’Occidente è rosso.
Oscurità. Glutine di luce sul legno.
Le truppe vanno a casa a riposarsi.
L’anatra selvatica viene a fare razzia.
Anime incomprese che gridano
violentemente sulle pozze;
che cosa ha mai visto l’anatra
per piangere così – tanto da strozzarsi nel pianto?
Un’anima che migra.
Famelica. Famelica. Vola.
Sul globo lunare
sul legno che arde.
Le medesime ali. Il corpo fratello
nella fatica – la corsa – il selvaggio pianto.
Singoli singulti di dolore
tra le canne della laguna d’acciaio
da una terra che l’uomo ignora.
John Masefield