“Io non sono M.M.”: Marilyn Monroe, poeta
Poesia
Elisa Gonzalez
È il 1994 e John Carpenter esce dall’artigianato di un pur originale e ingegnoso horror di intrattenimento firmando una pellicola ambiziosa e stratificata, colma di invenzioni e sottotesti, trasudante amore anche per il più classico cinema horror e di science fiction, ma senza eccessivo citazionismo. Un pubblico sofisticato e snob può anche continuare a ignorare piccole perle come questa, ma sacrifica sulla scacchiera della propria vanità qualcosa di più di un semplice pedone.
L’avvio de Il Seme della Follia (“In the Mouth of Madness” il titolo originale) si presenta come un lunghissimo flashback che cuce in modo circolare l’inizio alla fine, e, ambientato in modo iconico e simbolico in un manicomio che insinua l’idea di una condizione di schizofrenia dilagante, esonda nel finale simile a un angoscioso nonsenso, ma non prima di affidare al racconto del protagonista John Trent (ora internato) la gran parte della pellicola.
Assistiamo, così, a un secondo e inedito inizio: Sutter Cane, prolifico scrittore di romanzi horror, massimo blasone commerciale e gallina dalle uova d’oro per la sua casa editrice (“Vende più di Stephen King…” dice Linda, la segretaria dell’editore Jackson Harglow, a Trent: siamo alla fine degli anni Novanta, ovvero nel massimo picco di popolarità dell’autore reale, di cui quello filmico è un doppelgänger metatestuale), è scomparso e tutto sembra adombrare l’ennesima trovata pubblicitaria; ma la circostanza è sia un infingimento spicciamente volto a reclamizzare il suo ultimo libro, sia reale: in un curioso plesso in cui un fatto inferibile come logico è anche il suo contrario fino al venir meno di una spiegazione perspicua o fino alla rottura di un nesso chiaro di causa-effetto. E il film, sebbene abbia al centro del plot un agente investigativo di assicurazioni (garanzia di una robusta razionalità e persona incaricata di risolvere la sciarada della scomparsa di Cane), si presenta come un incubo da stato allucinatorio. Il protagonista, come detto, è avvezzo agli inganni, sa leggerne le trame occulte, ed ha per consuetudine operativa proprio il metodo abduttivo, che è principe nelle scienze come nelle investigazioni di personaggi letterari a tutti noti. Ma il suo ingegno e la sua solidità verranno messi alla prova fino alla follia, anzi, fino a una follia entro la follia.
Carpenter era entrato subito in media res con i titoli di testa, la cui musica incalzante e il cui montaggio si presentano al servizio della raffigurazione freneticamente cinetica e plurima, della produzione fisica dei libri di Cane, affidata ai cilindri dei macchinari rotativi con una profondità di immagine e una messa a fuoco che danno rilievo alla serialità della stampa e al suo ritmo battente.
Cane è un caso letterario che crea psicosi collettiva… Semplice suggestione oppure la capacità di plasmare mondi reali (in quanto percepiti tali) che hanno però scaturigine nella finzione: non-luoghi che si incarnano nella disposizione d’animo di chi vuole essere calato in storie morbose e da brivido? Pare che lo scrittore condivida col suo pubblico una sorta di patto sadomasochistico di fascinazione e capacità di sorprendere e disorientare, sconcertare fino al plagio delle menti. Parafrasando John Trent rivolto a Linda: “E la gente paga per sentirsi così?… Abbiamo inquinato i mari, reso irrespirabile l’aria, non c’è da stupirsi neanche di questo…”. La riflessione di Carpenter sembra voler ficcare l’idea che là dove v’è capacità di persuasione vicina al subliminale, v’è anche una massa amorfa di molte identità che altro non chiede che di divenire cefalica, sia pure in termini distruttivi, almeno quanto stimolata da emozioni sempre forti e nuove.
John Trent è figlio di espedienti assai pregressi al talento di Carpenter e sperimenta la stessa estraneità, a tutta la vicenda, del narratore di “Cime tempestose”, solo che qui egli non è forestiero in un borgo inospitale, ma straniero nel territorio sdrucciolo ed eminentemente mentale dell’assurdo. Col risultato, per il regista, di poter narrare una storia quasi inconcepibile attraverso la robustezza di una narrazione pressoché classica e che coinvolga dal principio. In aggiunta, gli orrori, nel film, non sembrano mai sussistere in quanto presenze fisiche aventi statuto oggettivo di realtà, se non attraverso la visuale di chi li testimonia cercando di setacciarli a mezzo di una ragione non compromessa con la superstizione, cioè tale da conferire motivi credibili a eventi che hanno del metafisico e del raccapricciante. Salvo suggerire sporadicamente l’esistenza di minacce occulte attraverso l’avvicendarsi di piani distinti di centratura focale o movimenti di telecamera che raccolgono ciò che alla visuale dei protagonisti sfugge come per difetto cognitivo rispetto a ciò che poi è offerto al pubblico.
La sequenza, incunabolo di altro terrore incalzante e “esibito”, in cui il poliziotto pesta violentemente un senzatetto, si fruisce visivamente solo dopo che Trent ha indugiato per un attimo sullo strappo all’interno di un manifesto pubblicitario del libro di Cane, la telecamera scorre a destra assecondando il movimento “ispettivo” di Trent e la vista di questi assume profondità su di un vicolo in cui avviene il fatto, cosicché la pubblicità sembri essere proscenio diretto alla violenza: quasi a suggerire che quella letteratura si fa corpo fisico e portale di un proliferare metastatico di realtà allucinate e belluine. La stessa scena si ripresenta identica a sé nei mezzi con cui è filmata, ma riproposta da altra angolazione evenemenziale (stavolta Trent non è solo osservatore ma partecipa e attraversa la profondità prospettica dell’orrido), all’interno dell’incubo del protagonista che invera un sogno nel sogno, facendolo destare ben due volte: una a vuoto, ricadendo nel medesimo terrore, l’altra, definitiva, salvo dall’incubo ma inconsapevole di essere già in bilico sulle fauci di una follia che diverrà pervasiva e “normale”. Il suo mondo fatto di certezze e fatti desunti, sempre volto a smascherare ogni ingannevole machiavello, sta per crollare a opera di una persuasione contro la quale non può duellare con le regole di una pur puntuta razionalità. Perché là dove prevalgono menti scisse, la dissociazione e la psicosi, con i loro orridi parti, divengono la regola… Di più: si fanno corpo.
Come già accennato, nessuno, agli occhi del protagonista, è più sciocco di chi paga per farsi terrorizzare. Ma qui interviene la carica perturbante di una finzione che attira e respinge nel medesimo tempo e il ruolo che ha l’orrido nel campo del sublime, come suggeriva Burke:
“Nessuna passione, come la paura, priva con tanta efficacia la mente di tutto il suo potere di agire e ragionare… Tutto ciò che è terribile alla vista è pure sublime, sia che la causa della paura sia dovuta alla grandezza delle dimensioni oppure no; poiché è impossibile considerare insignificante o disprezzabile una cosa che può essere pericolosa… In verità il terrore è in ogni caso, più o meno manifestamente, la principale causa del sublime…”
Ma cosa avverrebbe se l’inconcepibile in forma di terrore, disordine e violenza, divenisse realtà? Se tutto ciò che v’è di ordinario e domestico, anzi addomesticato dall’abitudine (come la filosofia scettica di Hume suggerisce sussistere solo per contiguità nel tempo e nello spazio) venisse sconvolto fin nelle fondamenta? La riflessione è ferace di esiti che non sono scialbature di ragionamenti più complessi. Assistiamo a una società in cui il maggior numero organizzato detta leggi e costumi nella zona liminare tra una sana follia e una sanità folle che giustificano l’impensabile in funzione di profitto e controllo, dominio delle coscienze (relegando i folli in condizioni di sequestro fisico e minorità sociale), la quale diviene di colpo essa stessa portatrice di follia pura elevata a potenza e in cui la minoranza resta quella razionale incarnata in fine pellicola dall’assicuratore che assiste (solo superstite in un mondo ormai popolato da creature lovecraftiane) in veste filmica (metafilmica) a tutta la vicenda narrata e da lui vissuta fino al momento presente.
Il film è disseminato di richiami alla fantasia sfrenata e delirante di Lovecraft a cui vuole rendere omaggio ma in modo distintivo. V’è indubbiamente qualcosa di orgiastico e debordante nel viluppo di nefandezze e orrori che popolano la letteratura di Lovecraft, e in Carpenter come in Lovecraft, il sentimento più potente è palesemente la paura e la più potente delle paure quella verso l’ignoto (per parafrasare Lovecraft stesso). Senonché l’ignoto si fa, nel film, manifesto e visibile fino ad assorbire a sé ogni piega della realtà.
Sutter Cane è un profeta del male e un demiurgo di mondi che aprono sipari di ferite vive nella realtà normalmente consegnata alla consuetudine di una follia ordinaria, routinaria, frutto avvelenato di una società in cui è facile plagiare le menti e altrettanto facile generare orrori (seriali) per poi normalizzarli o rimuoverli non senza profonde nevrosi collettive. Egli è portatore di una apocalisse di caos e devastazione, il suo stesso corpo si squarcia come carta per rendere comunicanti e infine interscambiabili il mondo di una fantasia corrotta e un mondo corrotto che difetta di fantasia e la cerca nella veste di una fuga, un vacanziero biglietto di andata e ritorno verso l’innominabile, ma che si fa qui di sola andata. Sutter Cane scrive la realtà perché essa rimette a lui di essere scritta e incoraggiata, è permeabile al suo desiderio di distruzione che si edifica sulla pietra angolare di una violenza più domestica e consuetudinaria, ma pur sempre debordante.
L’astuzia di consegnare a un luogo fisico (Hobb’s End) l’abbrivio di un contagio pandemico della violenza e del terrore, sta tutta nell’espediente di renderlo fuori dallo spazio e dal tempo ordinari, e impossibile da lasciare se non ritornando ad esso come per una curvatura nel tempo conosciuto. Le scene si ripetono, si ripete il tentativo di fuga, si ripetono le inquadrature che lo descrivono, fino alla rarefazione di ogni senso. È forse questa l’invenzione più angosciosa della pellicola. Ingegnosa anche l’idea del collage di pezzi delle copertine dei libri di Cane, che combinati assieme in un unico disegno descrivono l’esatto perimetro di uno piccolo Stato fuori dalle più recenti mappature ma esistente… Primo indizio e unico enigma risolto secondo logica da Trent, e che costituisce anche l’andito al viaggio che lo porta assieme a Linda proprio a Hobb’s End: là dove non potrà più alcuna logica.
Il viaggio di Trent corre, infatti, sul doppio binario di un viaggio della mente e di un viaggio fisico, ma i due saranno presto sovrapponibili, ed egli finirà per essere l’untore malefico di Cane, colui a cui viene consegnato il testamento autoriale che è la spora di una Apocalisse di fatto.
In questa singolare pellicola, tutto (anche il quadro dell’albergo in cui alloggiano Trent e Linda nel cuore di Hobb’s End) pare esulare da ciò che sembra, o meglio: grappoli di dettagli tangibili e ordinari si specchiano su superfici deformanti o si voltano nel loro contrario. Esattamente come l’amabile vecchietta albergatrice, così innocua all’apparenza, ma in realtà sadica aguzzina.
La realtà e l’universo visibile divengono una specie di maschera, dietro la quale si nasconde altro da ciò che è naturale e oggettivo, apparente, e ogni concetto astratto perde spessore a favore di una esperienza sensibile inmisurabile e irriducibile ad esso. Questo è l’orizzonte della superstizione. Nel film si oggettivizza in realtà fuori controllo e non sussumibile a ragioni logiche: non esiste spiegazione per il male e la sua portata dilaga, così pare, senza appello a motivazioni politiche o morali se non la fragile costituzione delle menti, sempre permeabili ad esso, e il suo ferale connubio con pulsioni distruttive già incistate nel tessuto di una società violenta che non le può più sublimare: ogni ragionevolezza è perduta e il patto hobbesiano è rotto… È il ritorno al caos più primitivo.
È così che il linguaggio di Carpenter esorbita la lettera del descrivibile come concreto, azzardando un simbolismo estremo (non sempre riuscito), soprattutto nelle epitomi del terrore creato e diffuso da Cane (nuova “religione dell’abietto” propalata dall’interno di una cattedrale in cui ricorrono icone ormai dissacrate del “Salvatore” e dell’arcangelo Michele, assieme all’alfa e all’omega dell’Inizio e della Fine, le quali si compenetrano con simboli profani e orripilanti fino a divenire scevre da ogni statuto di speranza e salvezza), epitomi affidate a sequenze di creature viscide e striscianti, come quelle di Lovecraft, di strazio e morte in successione rapidissima di montaggio, fino a a creare un crescendo dinamico che abbacina e ferisce sguardo e ragione di chi le testimonia: Linda, quando “vede” per mezzo di Cane, comincia a sanguinare dagli occhi. Il regista suggerisce che v’è una frattura non elasticamente riassorbibile in ciò che si sperimenta di angoscioso, shockante e terrifico, e che la follia non è tanto il rifugio di chi lo ha perfino oltrepassato, quanto proprio quella del protagonista, solo sopravvissuto, che ride come un ossesso davanti alla pellicola che noi stessi abbiamo visto fino a quel punto e lui ha vissuto/rivive senza soluzione di continuità tra assurdo e fattuale, tra finzione e realtà.
Carpenter ha anche il merito di annientare la logica (deterministica) di causa e effetto, azioni e conseguenze, della normale diegetica filmica, compiendo, e facendo compiere allo spettatore, un viaggio attraverso il nonsenso che ridonda di immagini potenti e suggestioni sotterranee, qualcosa che abbandona vecchi codici e si pone al limite della rappresentabilità con artifici e fresche invenzioni che la destrutturano offrendo quello che di più vicino a un delirio si sia mai visto nei suoi film.
Massimo Triolo