Truman Capote on Air
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L’ultimo film. La scenografia è il giardino della sua grande casa, in Irlanda. Il cast è costituito da alberi torreggianti. Il regista si trascina sul vialetto di ghiaia, si appoggia al bastone, titano tra i giganti. Poi rientra in casa, svanisce. Ha pensato molto alla morte, John Boorman, ultimamente. Amici morti, film dimenticati; successi, rimpianti. Ha compiuto da poco 87 anni, passa il tempo facendo vaste camminate nella natura, guardando il passato. “Sono stato molto fortunato. Certo, c’è sempre quella fastidiosa percezione… avrei potuto fare di più… A volte è questa idea che mi tiene sveglio, la notte”.
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Il regista ha appena pubblicato un libro, Conclusions, per esorcizzare i propri fantasmi, per risolverli, forse. In parte è un libro di memorie, in parte un manuale di cinematografia. “Avrei dovuto intitolarlo Confusions”, dice, ridendo. Boorman abita a Glebe, una casa isolata tra le Wicklow Mountains. Sul tavolo: una pila di film e le pillole del giorno. Mi elenca rapidamente i suoi disturbi: perdita dell’udito, della vista… “La vecchiaia è una serie di rinunce. Non posso nuotare, non posso correre, non posso andare a cavallo o guidare una macchina. Faccio una passeggiata. Mi siedo su una panchina. Ritorno”.
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Boorman è sempre stato severo con se stesso. Il suo libro è pieno di ricordi della Hollywood anni Sessanta e Settanta, quando incrociavi quotidianamente Marlon Brando, Billy Wilder, Akira Kurosawa. Boorman si fa notare nel 1967 con Senza un attimo di tregua, diventa una star dopo aver girato il prepotente Un tranquillo weekend di paura (1972). Dice di non avere avuto ambizioni: in un attimo è passato dai divani londinesi della BBC a una redditizia carriera da regista all’estero. Gli anni di Hollywood furono felici. In generale, tuttavia, Boorman ha preferito l’indipendenza: meno soldi, più libertà. Il suo lavoro, sempre, ha qualcosa di corrosivo, una specie di misticismo pagano. Film come Zardoz (1974), Excalibur (1981), La foresta di smeraldo (1985), sono ancora estremi, conturbanti. Li guardi con un senso di inquietudine, preoccupato della tua incolumità.
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“Un tranquillo weekend di paura mi convince ancora, è fatto bene. Zardoz non so cosa sia. Eppure, credo di aver fatto sempre dei film audaci, nel bene o nel male”. Ci sono, poi, i successi mancati, come Rocky o Alien, rifiutati perché la sceneggiatura non lo ha soddisfatto. O i progetti abbandonati: “ho trascorso più tempo dietro ai film che non ho girato che a quelli che sono riuscito a girare”. All’inizio degli anni Settanta, ad esempio, avrebbe voluto realizzare un adattamento dal Signore degli Anelli. Pensava di riassumere il romanzo in un film di tre ore. “L’ho costruito come una grande storia distopica. Ho pensato tutto il film, l’ho disegnato, scena per scena, ho pensato a ogni possibile soluzione. Avrei scelto dei ragazzini di dieci anni per fare gli hobbit, truccandoli a dovere, è ovvio. Magari sarebbe venuto fuori un disastro. Magari no”.
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Nel 1997, mentre gira The General, il film che racconta la storia del mafioso irlandese Martin Cahill, viene fermato da un medico. “Disse che sarei morto se non mi avessero immediatamente messo un bypass. Ero andato a farmi visitare per un controllo. Gli dissi che non se ne parlava neanche, che girare un film è più importante della vita e della morte”. La diagnosi, fortunatamente, si rivelò errata: John Boorman vincerà la Palma d’oro a Cannes per The General.
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La Glebe è una antica canonica, costruita su un terreno che fu dei monaci. Il vicino di casa di Boorman è un contadino di 96 anni, che lavora ancora la terra. L’altro è Daniel Day-Lewis. “Si è ritirato dal cinema, si sentiva svuotato, depresso, ne ha avuto abbastanza, insomma”. Boorman abita qui dal 1969, questa casa è stata la base di ogni sua avventura. Una notte, Lee Marvin era ubriaco a un capo del tavolo; all’altro Sean Connery raccontava la sua infanzia derelitta in Scozia. Ora Boorman è solo: ha divorziato da due mogli, i figli abitano altrove. Attende con impazienza i visitatori, sospira quando vanno via. “Tanti amici sono morti, ho la sensazione di essere abbandonato. La mia generazione è quasi scomparsa. Devo solo accettare che le cose vanno così: una cosa dopo l’altra scompare. Sei solo. Infine, muori”. Crede di essere un eremita, e questo un po’ gli piace.
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Quando gli chiedo quali siano le cose a cui è più affezionato, mi mostra la fusione in bronzo delle mani della figlia maggiore, Telsche, morta di un cancro alle ovaie vent’anni fa. Poi Excalibur. Me la mostra, è in un angolo della stanza, forgiata apposta per il film. La lama è pesante e luminosa. Chi non si è emozionato guardando l’epopea di Re Artù al cinema? Brandisco la spada, e mi sento l’eroe della mia fasulla epopea privata. “Quando giri un film, ti convinci che la morte non esiste. Sei così concentrato che tutti i pensieri sulla morte svaniscono”. Ora ama gli alberi, Boorman. Cerca di capire come possano comunicare tra loro. “Forse c’è una connessione tra i film e gli alberi. Quando giri un film, ne cerchi la verità fondamentale. Hai la sceneggiatura, gli attori, ma… dove stai andando? Il film cambia e solo fino a un certo punto puoi domarlo. Devi seguire il flusso. Lo stesso accade per gli alberi. Li pianti. Molti muoiono. Alcuni sono consumati dagli animali. Altri sopravvivono, diventando dei giganti”. Il regista continua a guardare gli alberi. “Ho comprato questa casa 50 anni fa. Ho visto la vita di tanti alberi. Molti di loro li ho piantati io, vivranno più a lungo di me”.
Xan Brooks
*Si traduce qui parte dell’intervista di Xan Brooks pubblicata su “Guardian” come: “John Boorman: You think the holy grail is lost? No. I have it on my piano”
**In copertina: Nigel Terry, che fu Re Artù nel film “Excalibur” di John Boorman