La prima raccolta di Jim Carroll s’intitola Organic Trains. Esce nel 1967 per la tipografia Penny Press di New York in 500 copie, “la maggior parte delle quali perdute dallo stampatore”, ricorda l’autore, con tratti di aristocratico menefreghismo. La plaquette raccoglieva sedici poesie, dedicate alla giovane attrice Linda Cambi, con una frase epigrafica di Frank O’Hara, guru poetico di Jim, in copertina: “A te offro il mio scafo, la sbrindellata corda della mia volontà”. La raccolta – ora amuleto per collezionisti – portava le stimmate, piuttosto, di una disperata precocità: James ‘Jim’ Dennis Carroll era nato a New York City nell’agosto del ’49, era un ragazzotto magro, già esangue, indefinito dall’abuso, talentuosissimo, di anni diciotto. Roba da Rebel Without a Cause con casistica sportiva appresso.
Studente della Trinity School, poi della Columbia, Jim era un genio della pallacanestro, un asso. Organic Trains, placca combinata in clandestinità – di cui qui proponiamo alcuni testi –, tagliò fuori i maneggi lirici dell’epoca – neoagricoli, neofricchettoni, neoclassici –: quasi subito il ragazzo cominciò a pubblicare sulla “Paris Review”. Gli 11 Trains che compongono il corpo del libro sono autentici trip: Jim alterna i tiri da tre e le terzine all’eroina – sui paradisi artificiali di Baudelaire grava però l’isteria esistenziale del nostro tempo, la bellezza di una dannazione cercata al millimetro, lo sfoggio di sé come corpo crocefisso. Jim Carroll sognava Rainer Maria Rilke, gli angeli con le spade al braccio, tremendi, e i romanzi allucinati di Burroughs, sarebbe stato bene tra i vampiri di Abel Ferrara.
Il resto è ciò che si sa: il ragazzino dal viso da efebo, da re effemminato, idolatrato da Jack Kerouac che entra nell’orbita di Andy Warhol, la pubblicazione, nel ’78, del romanzo epico-lisergico The Basketball Diaries e poco dopo, con la complicità di Patti Smith, il primo disco della The Jim Carroll Band, Catholic Boy: è il 1980 e a produrre l’identità cantante di Jim è Keith Richards. Ci muoviamo nei meandri oscuri di Lou Reed, ovvio, nella poltiglia di verbi&canzoni di Leonard Cohen, ma in Jim Carroll c’è qualcosa di inderogabilmente bianco: muta necessità della purezza, l’eros del quietismo, l’immacolato tossico.
Rapidamente, Jim Carroll diventò un mito – troppo profetico per essere assunto tra i beat, troppo estroso per restare nell’ambito underground, troppo colto per giocare alla controcultura. I libri del poet and punk musician, l’impuro cattolico, furono sempre roba catacombale, da poeti estinti; nella puritana America di oggi le estreme purezze di Jim sono dorata eresia. Certo, Jim Carroll fu circoscritto a quel singolo, singolarissimo libro, gli acidi diari del basket, passati in Italia come Jim entra nel campo di basket (a cura di Tiziana Lo Porto, ri-editi da minimum fax nel 2019); e Jim restò eternato nel viso rimbaudiano di Leonardo di Caprio, che lo interpreta nel film del 1995, diretto da Scott Kalvert, The Basketball Diaries, appunto, con, tra gli altri, Mark Wahlberg e Juliette Lewis. Non proprio un film di Gus Van Sant.
Jim Carroll, cioè, cugino strafatto di Lautréamont, è soprattutto, in sostanza, poeta: Living at the Movies (1973), The Book of Nods (1986) e Void of Course (1998) sono i suoi vangeli abbacinanti. Quanto al resto: morì nel 2009, era l’undici settembre, troppo giovane eppure troppo vecchio, istrione di un’era istoriata di estremismi, per lo più chincaglieria. Il vagabondo del Dharma, il folle del dio metropolitano, la notte oscura dell’eros-eroina, aveva lasciato spazio al broker, al dandy d’alta finanza, al ricco sfondato in cerca di Marte. Jim Carroll, semplicemente, era il demiurgo del proprio io, segugio del Padre con la Via Lattea che gli sgorga tra le dita, e la lecca certo che, come sapevano i sapienti presocratici, la vera vita è nel sogno, i vivi sono morti ambulanti.
Naturalmente, delle poesie di Jim Carroll in Italia non v’è traccia.
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Il crogiolo dei sogni
Quando una gioia arriva svanisce all’istante: non per propria frenesia ma per il gergo della mente.
quali corpi si ergono alla primavera dell’assurdo? quali mammelle? chi sono questi uomini che mi puniscono perché cammino sulla cenere?
Filistei gettano sassi contro di noi fino a tremarne e periscono al cospetto dell’inizio. scuri teschi che contengono la loro razza.
la luce della città calcifica archi d’argento, l’orrore. la luce del sole è oscura sui binari scintille dietro i vetri. nessun viso.
ti ho visto, una volta, dalla finestra sconfitta da una danza di dita pettegole capelli biondi che fluiscono in oceani lunatici. ancora piccola e priva di moto. mentre salta
tra stanze inumidite di malva, il crogiolo degli stemmi della follia. due bibbie nel bunker. calore che volteggia tra gli alberi ossificati: rancido è il tuo compagno.
ci siamo incontrati sulla bocca dei cavalli in montagna. (non devi lasciarla). reclusi tra pini e lupi vento che forgia vite nella pietra
(esegue un coro che si annoda alla tua immagine. continuiamo a restare gli stessi nel mutamento. come quando l’agave matura e scopri che il tempo è iniquo
che la nostalgia sprofonda nel miele nei campi dell’obliquo. lei concede al cavallo di amarla. ti convincerà a fare lo stesso).
devo accompagnarti sempre nello stagno (o era un fiume, o un oceano) dove ci siamo tuffati, dalla soglia del recinto? abbiamo nuotato per scoprire che ha un ritmo muschioso il nostro corpo, come pinne di squalo che caute appaiono nelle maree insanguinate.
i tuoni gelano le giungle degli eterei pittori. lo sceriffo ci arresta mentre elemosiniamo allo straniero (e non torni in città)
ti sei rifiutata di disobbedire ai padri che presiedono il tuo concepimento. ero così certo quando sei apparsa abbiamo vagato così a lungo ho dimenticato
che sei soltanto il resto di una vita forse non ti toccherò più (non più il colore delle cosce non più il dolore nella cenere)
fa male ciò che non svanisce all’istante – la cosa che non ritorna al suo principio e non muore nel sangue: invariabile, infesta il crogiolo dietro gli scudi
i cavalli trascinano obbiettivi boriosi lungo i tunnel questi obbiettivi sono uno dei pensieri che sbattono in fondo al giorno. l’altro pensiero è amore emozione non razionale come i cavalli. mi muovo tra i carghi della metro cerco la carota gioiello per nutrire questo coniglio che con suprema abilità ho intrappolato in una gabbia la settimana scorsa. probabilmente il coniglio è la chiave di tutti i pensieri emotivi, benché questo sia il metodo peloso adottato dagli animali lungo la storia. se esamini l’elefante puoi capire cosa intendo. e gli elefanti hanno il pelo irto.
questo è il tempo dei volgari palloni metereologici liberi di rubarci la fragile luce del sole che è ci aspetta per domani. le bianche strisce della tigre fissano le gomme a coppie. gli alberi l’ira della vernice rubata chiarificata ora. Nolde luce che filtra tra gli arcadi porticati nell’ottantunesima strada non c’è dubbio implorano cioccolatini dalle madri. ma noi ci accasciamo evitando le enormi lance di seta della peculiare morte
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Secondo treno (per Frank O’Hara)
Oggi alla stazione di Long Beach ogni cosa è straordinariamente bianca e la sabbia filtra nelle mie scarpe da tennis questo è il modo in cui vanno le cose ultimamente così avvertono gli orologi che mi cadono addosso così tutto ciò che ho sentito furono 8 colori come i miei orologi da polso che si schiantano nella guancia del cielo. gli orologi simboleggiano la sicurezza e mi ricordano Frank O’Hara. Frank O’Hara mi ricorda molte cose meravigliose, la luce vaniglia, ad esempio, distillata dai suoi occhi gennaio.
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Decimo treno
no!
siamo entrambi stanchi delle fantasie dello zoo voglio che il mio leone
diventi reale e muova il cranio
lontano da me come fa il ghepardo
così sexy
lascia che si impongano i tuoi capelli anche se non sono altro che vento. l’aria è perseguitata dal caldo. un calore che resta negli ultimi vagoni della metro fino al mattino quando non si converte in menta
e terrore innocente.
gemono le isteriche intuizioni! colombe istituzionali voltano nei patti viari
dell’oro innocente
come un esercito di madri mobilitate dalla propria
gravidanza,
siamo più vicini alla morte che all’amore (più vicini alla notte: respiriamo deserti) eppure, vigilano con attenzione le stagioni ed è certo, passeremo tutti un’altra settimana di stimolazione anticipata? l’origine che ci conduce alla luce si muove nervosamente come il tuo sussurro su un lastricato di pini.