22 Aprile 2020

“Ho solo avuto la fortuna di essere stato preso per un prodigio. Tutto qui”. In memoria di Jim Carroll

Tra culto e prodigio si snoda l’esistenza di Jim Carroll. Così, su “Guardian”, Simon Warner ne sintetizza la vita: “Nato nel Lower East Side di New York, ottenne una borsa di studio, per meriti sportivi, che gli concesse di frequentare la Trinity, una scuola d’élite a Manhattan. La sua abilità nel basket, esercitato con grande raffinatezza, pareva destinarlo alla celebrità sportiva: invece, preferì l’incanto della droga e della scrittura, che si legge in The Basketball Diaries. Ispirato da Frank O’Hara, elogiato da Kerouac e da Ginsberg, Carroll pubblica il primo libro, Organic Trains, nel 1967, a 16 anni, stampandoselo da sé. Nel 1970 stampa 4 Ups and 1 Down; la sua fama fu accresciuta dalla pubblicazione di alcuni testi sulla Paris Review”. Fu preso per una specie di Orfeo, la cerniera tra l’epoca della Factory e quella del sottosuolo. Restò sempre simile a se stesso, ostile alle mode e alle comparsate televisive, deciso a sorprendersi per eccesso di eccessi, a sputtanarsi, tra mortificazione tossica ed elevazione spirituale. Si dichiarava cattolico, lui, figlio di irlandesi: avrebbe potuto essere il protagonista di uno dei primi film di Martin Scorsese, passeggiare per le pellicole disperate e gravi di redenti di Abel Ferrara. Piuttosto, dal suo libro più noto e notevole, l’autobiografico The Basketball Diaries (1978; in Italia lo edita minimum fax come Jim entra nel campo di basket) fu tratto, nel 1995, un film con Leonardo Di Caprio, Mark Wahlberg e Juliette Lewis. Il talento di Carroll – che riconosceva in Rilke, William Blake e John Ashbery tra i suoi santini – è puramente poetico. Nel 1978 fonda The Jim Carroll Band, sotto la spinta di Patti Smith: il primo album s’intitola Catholic Boy, le collaborazioni sono notevolissime – Lou Reed, Ray Manzarek, i Pearl Jam –, lui resta una figura spettrale, affascinante per inafferrabilità. In sostanza, in Italia c’è nulla, mancano le cose migliori, le poesie. Un sito americano raccoglie diversi materiali: da lì abbiamo attinto per ‘registrare’ una intervista. C’è una lingua visionaria, che trasforma le finestre in volpi e una mattina americana in sciacallo – c’è l’orfano e la solitudine – l’estremo che collima con l’assoluto. Tanto basta a respirare.

***

Sto cercando di allineare gli indizi
dei sogni lasciati a metà,
sul letto di morte di ogni fratello,
dove lacrime di sorella macchiarono lenzuola innocenti come il latte.
Guardo la mia generazione
sogno esplosioni d’idrogeno
dove il residuo delle mie notti
viene mutato in stelle.
Il processo è circolare, brillante e certo,
il collasso dei soli morenti culla nuova vita.

(da The Book of Nods, 1986)

*

Ho camminato su queste strade così spesso
per forgiare le ombre dei grattacieli che crollano
e riposare nel vento scolpito del centro.

L’aria condizionata sanguina gocciolando come rosari
dalle facciate in vetro dell’occhio cosmopolita

le fantasie dei segretari sono sciacquate per strada
o calpestate dai tacchi nelle stazioni della metro

ingegneri con gli elmi arancioni giustificano la perfezione
di edifici che non esistono ancora. Le mie mani

si sciolgono tra noia e lussuria. È tempo
che cali la sera su Time’s Square. Nubi scialbe
si sbottonano rivelando una brutta cicatrice
sotto i cavi blu.

(da NYC Variations)

***

Cosa ti ha spinto a scrivere?

Cose nobili – e ignobili. Suppongo ci sia qualcosa di romantico nello scrivere. Sapevo di avere talento. Ma non amavo la poesia. Nel quartiere dove sono cresciuto, all’epoca di The Basketball Diaries, la poesia era roba da ballerine, da femminucce. Poi ho ottenuto una borsa di studio, ho capito che alcuni poeti contemporanei avevano lo stesso potere del rock. Non avevo idea di limiti, pensavo che chiunque potesse scrivere, così l’ho fatto. Ho avuto la fortuna di essere stato preso come una specie di prodigio. Tutto qui. Avrei scritto comunque. Poi ci sono le cose meno nobili. Un modo per apparire, per essere appariscenti, per avere ragazze. Piuttosto, ho iniziato a scrivere per uscire fuori da tutto. Ho filtrato la mia vita, le ho dato chiarezza. Non so come avrei fatto senza – credo che senza la scrittura sarei morto, perduto negli inferni metropolitani, come molti miei amici.

Ti ispira New York?

A questo punto della vita, niente tranne la mia immaginazione mi ispira. Non mi permetto di attendere che siano le cose a ispirarmi. A volte, come una scarica, arriva una poesia: una voce detta qualcosa, da lontano, da un passato schizofrenico. A volte, è un evento travolgente – la morte, l’innamoramento – a ispirare. Purtroppo, sono adatto all’elegia.

Sei diventato un simbolo dell’uso “creativo” delle droghe.

Idiozie. Tutta pubblicità seguita alla pubblicazione di The Basketball Diaries. Tutti, dopo quel libro, pensavano di conoscermi, che non potessi essere cambiato. Pensavano che fossi ancora lì, in quello stato di estatica stasi su cui si chiude il libro. Quando suonavo in giro, mi lanciavano sul palco siringhe e rosari. Di solito, erano rosari luminosi, poco costosi: ne ho una collezione fantastica.

Come ti sembra il film tratto da “The Basketball Diaries”?

Le poche persone che mi conoscono pensano che ci sia una certa somiglianza tra me e Leonardo Di Caprio. I suoi lineamenti sono corretti. Ho visto il film, la prima volta, con Lou Reed. Mi conosce da quando ho 16 anni: credeva che Di Caprio avesse passato un anno con me per imparare la parte. Di Caprio è fantastico, ma non so se il film si approssimi a quel libro, così buio, bulimico… Con The Basketball Diaries non mi ero posto alcun progetto. Non è un libro sulla droga. Anzi, se hai un grammo di cervello, quando lo leggi pensi che sia meglio evitare le droghe pesanti.

Ti piacciono i poeti, oggi?

Non mi piacciono gli slam. Sono certo che la migliore poesia non sia quella che funziona per una qualche folla urlante. I poeti che amo sono ritirati, raffinati, soli. Mi piace Nicholas Christopher, il suo talento è terrificante.

Patti Smith ha detto che le hai insegnato a scrivere poesie…

Quando ho conosciuto Patti, veniva da una scuola d’arte, disegnava moltissimo; disdegnava la poesia ma era fanatica del rock. Abbiamo iniziato insieme. Forse è proprio questo, questo far coincidere le energie degli esordi, che ci ha uniti. Da una parte, io scrivevo, dall’altra lei stava iniziando a cambiare la scena musicale. Nessuno sapeva suonare uno strumento, ma questo non ostacolava Patti. Lei era in tournée con Easter; ci siamo visti a San Diego, e mi ha detto di salire sul palco. Non volevo, non avevo nulla di buono con me. Ha insistito. È stata la prima volta che mi sono esibito su un palco. Non so se dovrei ringraziare o uccidere Patti per questo…

C’è una fotografia che ti ritrae con Keith Richards, canti “People Who Died” in un club di New York, nel 1980. Raccontami.

Ho firmato con l’etichetta degli Stones, l’idea era che Keith producesse il mio disco, Catholic Boy. Dopo un periodo di reclusione in California, sono arrivato a New York. C’erano i Rolling Stones, Keith mi ha chiamato per analizzare insieme la canzone. La conosceva. Era eccezionale. Keith arrangiava e Mick cantava – mi hanno aiutato a capire cosa funzionasse. Ogni tanto lo vedo. Jagger è sempre molto dolce con me, Keith è un amico.

Dicono che tu sia l’ultimo esponente dei beat. Che fine ha fatto la controcultura?

La controcultura è finita. Ci sono molti gruppi interessanti, ma l’ispirazione è diversa. Quanto a me, adoro i Velvet Undeground, hanno avuto una influenza enorme sulla mia scrittura. Mi piacevano le poesie di Ginsberg e i libri di William Burrughs, credo che John Ashbery sia uno dei grandi poeti, oggi, ma legge malissimo…

…e Jack Kerouac?

L’ho incontrato solo due volte. Apprezzava The Basketball Diaries. Ma era un alcolista, era un uomo triste. L’ho incontrato, non l’ho conosciuto davvero. Con Ginsberg, invece, siamo stati buoni amici.

Sei religioso?

Amo il rito, sono cattolico. Amo il lato femminile del cattolicesimo, il culto della Vergine. Non mi piace la politica della chiesa: mi pare patetica. Sto scrivendo un romanzo che parla di due sacerdoti. Ho letto i Vangeli gnostici e i commentari: è come un’evocazione, una missione. L’archeologia biblica è il mio hobby.

Cosa pensi, oggi, di “The Basketball Diaries”?

Penso che sia un libro davvero vecchio. Immagino che sia onesto, scritto da uno che aveva quell’età. Ha parti molto belle, altre ingenue. Ma non puoi accomodarti su cose simili, altrimenti affondi. Ho un nuovo mondo in cui entrare. Se non lo faccio, questa è la cosa più prossima al peccato che possa pensare.

Jim Carroll: come si fa a scrivere come te?

Non lo so. Onestà. Sii onesto con te stesso. E leggi molto. Non avere paura di rubare – ma per rubare, devi esserne in grado.

Gruppo MAGOG