05 Maggio 2023

“È ora di attaccare il mio cuore al camion e partire”. Jean-Marie Kerwich, il poeta gitano

La poesia è anche una questione topografica, cioè di altitudine del potere. In Italia, per dire, gli appartati non fanno canone: vivono la spettrale condizione dei randagi; a tratti, rabbiosi, sono presi a calci sul muso. Fatto salvo qualche sporadico rendez-vous, questi scelgono la condizione scalza, senza talare, da paria.

In sostanza, la poesia italiana si è fatta nelle città, dove si ergono i potentati tipografici. È questione di ciminiera prima che di blasone. Così, il provinciale Cesare Pavese – che viene dalla sperduta e ancora triste Santo Stefano Belbo – si fa grande a Torino; dove convergono altri apolidi o distanti, Italo Calvino, Elio Vittorini, che fece l’ascesa da Siracusa. Alle morgane di lago, in Luino, Vittorio Sereni, preferisce la carriera a Milano, e come dargli torto; a Milano convergono – per convenire a patti con la vita – molti altri poeti di provincia, Raffaello Baldini ed Elio Pagliarani, ad esempio. Nativo di Luzzara – 8mila abitanti attuali, nel reggiano – Cesare Zavattini scopre il giornalismo a Milano e il grande cinema a Roma. Ma che scoperta: è nei grandi centri ‘culturali’ – Torino, Milano, Firenze, Bologna, Roma – che il poeta può fare il poeta; altrove, è solo il matto del villaggio. Anche Leopardi, dalla cruda ‘marca’ – il poeta è sempre un provinciale, un fuori moda, un fuori tempo – trova ristoro intellettuale e riparo editoriale, diciamo così, a Bologna, a Firenze, a Napoli.

Per tradizione, al contrario, in Francia la figura dell’appartato non è un figurante, che a sbandierarlo siano i puri di cuore, i patetici, ma una personalità flagrante, il cuore del canone. La dinamica, cioè – diciamo: città/provincia; potere/latitanza; fama/sfamarsi; centro/periferia – è volta all’opposto. Non è il poeta a dover, forzosamente, darsi in pasto alla città, tradendo la propria marginalità conquistata a morsi, ma la città che ha bisogno, per giustificare il proprio stemma culturale, dell’inatteso, dell’inattuale, del puro brigante di provincia. Probabilmente, è l’affaire Rimbaud che continua a prolungare adepti: vicenda lirica stretta tra Charleville e Aden, pisciando – letteralmente, letterariamente – in testa ai kapò poetici di Parigi. C’è tutta una fila di poeti, intendo, pubblicati dalle case editrici più importanti, che al cafè, luogo di turbe liriche e di tribune romanzesche, preferisce i campi e i covoni; ai convegni pubblici il cinguettio dei pettirossi; alle cattedratiche latrine, al letamaio dei talk, l’esigenza della vita nascosta.

La lista è lunga, fiera, canonizzata dal vagabondaggio. Così, c’è la Saint-Florent-le-Vieil di Julien Gracq e L’Isle-sur-la-Sorgue di René Char; c’è la Carcassonne di Joë Bousquet e la Manosque di Jean Giono e la Douarnenez di Georges Perros, e in ogni caso la topografia poetica non si tramuta in ostentazione turistica, non c’è alcun servaggio all’utopia mercantile dei ‘borghi più belli di’, semmai un orgoglio guascone, la bella ribellione, un’esistenza da re con la corona di spighe, di spine. E poi, per dire, c’è Jean Grosjean che sceglie di stabilirsi ad Avant-lès-Marcilly, meno di cinquecento abitanti nel dipartimento dell’Aube, e Christian Bobin che ha fatto del suo essere a parte, l’estatico provinciale, una poetica.

Proprio a Grosjean e a Bobin dobbiamo, non a caso, la scoperta di Jean-Marie Kerwich (1952-2018), la cui vita – non reperibile nei demoniaci classificatori Wikipedia – è già vicenda romanzesca, lotta di angelici pupi. Eccola, per frasi sommarie:

“Nasce da una famiglia gitana del Piemonte. Nel 1963 la famiglia decide di partire in Canada, dove fonda un piccolo circo ambulante e vi resta per diciassette anni. Successivamente, Jean-Marie è costretto ad abbandonare la vita nomade e comincia a lavorare contro la sua volontà nei cabaret di basso borgo. Incomincia a scrivere poesie dal tono profetico che denunciano la disumanità del mondo moderno”.

L’ultima frase non dà ragione delle prose liriche di Kerwich, lacerazioni e illuminazioni, che fanno parte del canone degli appartati, degli inappetenti all’intellettualismo vigente, dei vagabondi stellari. Pubblicati, in parte, da Mercure de France, i libri di questo manovale onirico, circense alla vita, sono pubblicati da AnimaMundi, che ha da poco tradotto come Il vangelo dello zingaro il suo libro più noto, L’Évangile du gitan (2008). Nel titolo, scopro il nitore benedicente della vanga, la natura del gettarsi. Questo scampolo di scritto si intitola I poeti:

“Ho imparato a scrivere sul quaderno della sofferenza. Se Dio si sceglie i poeti, meglio non incrociare il suo sguardo, perché è una missione spietata. Ho scritto due libri che non sono dei libri: sono brandelli della mia carne, un pezzo di braccio, una mano. Il poeta è divorato dall’anima e dal cuore. La scrittura e la sua vita sono incatenate. Nessuna via di fuga: è un uomo che appartiene a Dio, è il suo martire. È un pioppo che segue il ritmo del vento. Porta scarpe da gitano, coi tacchi, si vede la sua mente inciampare lungo la strada. Ho conosciuto dei grandi poeti. Sono vagabondi delle parole, principi delle strade lerce. È gente che fa paura. I loro occhi ti spogliano l’anima: hanno una capacità animale nel vederti dentro da far paura a un giaguaro. Ma è la loro grazia che mi seduce, sono gli unici a seguire la pioggia che li conduce”.

È uno di quei libri, questo, che va letto in cammino, dove l’ingenuità è parte della cornea, della giuntura imposta; vai col cordone, intendo, senza vacche da latte al seguito. Su “L’Obs”, nel 2008, con queste parole Christian Bobin presentava al mondo letterario francese Il vangelo dello zingaro di Jean-Marie Kerwich:

“Jean-Marie Kerwich ha trascorso l’infanzia in Canada, tra nevi che hanno seppellito la carovana di famiglia. Il fuoco degli aceri accendeva il fuoco del suo cuore. Tornato in Francia, fu posseduto dal sogno di accontentarsi di nulla: un bicchiere di rosso, un morso di sole giallo, l’azzurro pane degli angeli del vento. I nostri sogni sono più crudeli delle nostre morti. Lontano da una vita senza imbarazzi, Jean-Marie Kerwich è stato chiamato dal cielo – o dalla sua inconsapevolezza – a scrivere Il vangelo dello zingaro. Scopriamo un testo pari a questo due o tre volte in un secolo. Nei secoli buoni, intendo. […] Jean-Marie Kerwich ha vissuto a lungo nel circo dei suoi genitori. Gli equilibrismi hanno aperto la sua anima a tutte le compassioni. La povertà gli ha consegnato il lignaggio dei rovi. Per guadagnarsi da vivere sputava fuoco, si è destreggiato nei circhi che terrorizzano le infanzie e nei cabaret dove si appisolano i demoni. È diventato questo folle per cui tutto esiste – la botte di sardine che brilla nell’erba, un anello d’aria nell’indice di Dio. Quest’uomo la cui gente è fiera di obbedire soltanto agli analfabeti, ha scritto il libro che manca alla Bibbia, tra le imprecazioni di Giobbe e le speranze di Davide. La sua scrittura ha la dolcezza che conoscono soltanto le fiere selvatiche, le lentezze improvvise, i silenzi pieni di neve”.

A un certo punto il poeta gitano scrive:

“Non scriverò più. Imparerò di nuovo a non saper scrivere. Questa vita da scrittore non fa parte della mia condizione di nomade. Non sono fatto per la letteratura. sono della stessa razza degli alberi, grido insieme al tuono quando si annuncia. Sono solo un vagabondo, uno straccivendolo di parole che raccoglie pensieri sfilacciati sul bordo della strada della mia anima… È ora di attaccare il mio cuore al camion e partire”.

Non sa che è questa la condizione di ogni poeta – anche se ha sotterrato il cuore, lo ha posto sotto torrioni di tegole o lo ha dato alle bestie lunari, che hanno la bocca sempre aperta.

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