02 Febbraio 2022

Fabre: l’amico degli insetti che si scagliò contro Darwin

Indugiare sui Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre, di cui Adelphi manda ora in libreria il secondo volume (il primo uscì nel 2020), significa sfidare lo snobismo degli intellettuali, che quasi mai stanno coi piedi per terra e credono sempre di volare alto, anche se talora incorrono nella fine di Icaro e sovente trebbiano paglia vuota. Ma lo faccio assai volentieri, perché come ho imparato dalle conversazioni col mio vecchio amico Anacleto Verrecchia, scomparso nel 2012 e pace all’anima sua, talvolta si apprende molto di più sulla vita dagli animali e dagli insetti, che non attraverso le allumacature filosofiche spacciate per saggezza, per non parlare poi delle concioni accademiche.

Se poi eleggiamo a nostra guida un fuoriclasse come Fabre, allora siamo in una botte di ferro.

Egli era un soggetto singolare, come invero quasi tutti gli entomologi. Nato nel 1823 e morto nel 1915, ha quasi sempre vissuto nella campagna francese e nelle sue case allevava ogni genere di insetti, anche se la sua attività si svolgeva preferibilmente nel loro habitat naturale.

A guardarne le poche immagini in circolazione, si ha l’impressione di trovarsi davanti a una via di mezzo tra uno hassidim e un ciabattino medievale. Oppure a una specie di Hans Sachs, il protagonista realmente esistito dei Maestri cantori di Norimberga di Richard Wagner, dell’entomologia. Univa l’alta conoscenza della vita con una semplicità e una concretezza rare. Niente a che vedere quindi con i ceri pasquali o le lasagne fredde di certi nostri maître à penser. Era anche un matematico e un poeta.

In Italia quasi nessuno lo conosce, sebbene negli anni Settanta sia stato pubblicato, parzialmente, da Einaudi che lo fece accompagnare da un commento del celebre etologo Giorgio Celli. Invece in Francia, il cui sciovinismo a volte è benefico, gode di una vasta fama e di una notevole bibliografia. Anche il Giappone lo ha omaggiato con diversi saggi e persino con un anime.

Questi Ricordi sono il frutto delle sue pluridecennali ricerche e come si può intuire dall’allure del titolo, non si tratta di un barboso trattato per addetti ai lavori: Fabre ha infatti il raro dono di farsi capire da tutti senza però volgarizzare o svilire le sue scoperte per il gusto di arrivare a tutti o per ingrassare la scarsella. Viveva d’altra parte in un’epoca in cui la divulgazione scientifica era perlopiù fatta da scienziati serissimi che, oltre al loro mestiere, sapevano scrivere in maniera colta ed elegante e al contempo comprensibile e non dovevano né volevano prostituirsi pur di far piacere ai buzzurri o ai gazzettieri. Eppure l’ingratitudine e l’acrimonia sono sempre in agguato e Fabre è stato azzannato da qualche portinaio a causa del suo stile cristallino e brillante. Sentiamo cosa egli scrive, nel primo volume dell’opera, per difendersi dagli attacchi dei suoi “colleghi” o di qualche catone da strapazzo: «Altri hanno criticato il mio linguaggio, che non avrebbe la solennità o, meglio, l’aridità di quello accademico. Temono che una pagina, se si legge senza sforzo, non possa essere espressione della verità. A sentir loro, per essere profondi bisogna essere oscuri»; e invoca a questo punto persino l’aiuto degli amati insetti: «Venite qui, tutti voi che siete dotati di pungiglioni e corazzati di elitre; prendete le mie difese e testimoniate in mio favore […]». Come si vede, aveva anche il senso dell’ironia, attitudine piuttosto sconosciuta ai professori e in generale agli eruditi.

Era inoltre dotato di un notevole spirito umanistico, come si capisce, tra l’altro, dalle citazioni di filosofi classici.

Uno dei punti su cui Fabre batte di più è la «Teoria dell’istinto», come suona il IV capitolo del primo volume. E sta qui uno dei suoi contributi più eminenti alla scienza. Analizzando le capacità predatorie di un imenottero e raffrontandole con quelle dell’essere umano, Fabre giunge a sostenere che mentre nel primo quell’istinto è innato, nell’uomo la capacità di uccidere non lo è affatto ed è pertanto falso sostenere l’ereditarietà cellulare di certe pulsioni. Ascoltiamolo, così potremo anche constatare il suo talento di scrittore.

«Com’è venuto in mente al macellaio dei nostri paesi, o al desnucador della pampa, di conficcare uno stiletto alla base del midollo per ottenere la morte istantanea di un colosso che altrimenti non si lascerebbe sgozzare senza opporre una minacciosa resistenza? Al di fuori della gente del mestiere e degli scienziati, nessuno conosce, o immagina, l’effetto folgorante di una simile ferita… Sono stati la tradizione e l’esempio a insegnare la loro arte al desnucador o al macellaio […]. Un evento fortuito ha fornito l’idea originaria, l’osservazione l’ha confermata, la riflessione l’ha sviluppata, la tradizione l’ha conservata e l’esempio propagata […]. L’ereditarietà non trasmette l’arte di uccidere mediante recisione del midollo spinale; non si nasce macellatori di manzi secondo il metodo del desnucador». E si domanda subito, parlando dell’ammofila (una specie di imenottero), che dimostra avere innato non tanto l’istinto cacciatore ma tutto il bagaglio necessario per metterlo in pratica: «Dove sono, nel suo caso, i maestri nell’arte dello stiletto? Non ci sono. Quando l’imenottero squarcia il bozzolo ed esce da sottoterra, da molto tempo ormai i suoi predecessori non esistono più, e anche lui sparirà senza aver visto i suoi successori… Dunque assolutamente nulla viene trasmesso mediante l’educazione basata sull’esempio. L’ammofila nasce già desnucador come noi nasciamo già pronti a succhiare il seno materno». E più oltre: «Cerchiamo di risalire, se possibile, alle origini dell’istinto dell’ammofila. Oggi, più che mai, ci tormenta un bisogno, quello di spiegare ciò che potrebbe essere inesplicabile. Alcuni, con superba audacia, forniscono una soluzione drastica a questo enorme problema, e il loro numero sembra aumentare di giorno in giorno. Procurate loro un pugno di cellule, un po’ di protoplasma e uno schema interpretativo e troveranno spiegazione a ogni cosa. Il mondo organico, il mondo intellettuale e morale, tutto deriva dalla cellula originaria, che si sviluppa con le proprie energie. Niente di più. Nato da un’azione fortuita che si è rivelata utile per l’animale, l’istinto è dunque un’abitudine acquisita. Su questa base si argomenta a favore della selezione, dell’atavismo, della lotta per la vita (struggle for life). A questi paroloni, io preferisco alcuni piccoli fatti». Alla fine conclude: «A quanto pare, a questo mondo, l’evoluzione della cellula non è tutto».

Pur egli essendo molto amico, e amico stimatissimo, di Charles Darwin, come si vede non ne condivide affatto le idee e anzi le sue ricerche lo portano a conclusioni sulla natura del tutto opposte. Fabre si scaglia con feroce ma sapiente ironia contro l’evoluzionismo, che egli ribattezza con un nome geniale: trasformismo. Purtroppo il breve spazio di un articolo non ci consente di entrare nel percorso che porta Fabre a formulare una netta opposizione al darwinismo, ma il lettore attento saprà cogliere ugualmente la raffinatezza dell’argomentazione, e quello ancor più attento sarà invogliato ad approfondire. Lasciamo però ancora la parola all’interessato: «Ci dite che l’uomo, agli inizi un bruto peloso che camminava su quattro zampe, si è alzato su quelle posteriori e ha perso i suoi peli; e ci dimostrate, tutti soddisfatti, com’è avvenuta l’eliminazione dell’irsuto pelame. Invece di mettere in piedi tutta una teoria su una manciata di peli acquisiti o perduti, forse sarebbe più opportuno stabilire come il bruto originario sia riuscito a impadronirsi dell’attrezzo e del fuoco. Le attitudini sono più importanti dei peli, e voi le trascurate perché proprio lì sta la differenza insormontabile. Guardate come il gran maestro del trasformismo esita e balbetta quando vuol fare entrare a tutti i costi l’istinto nello stampo delle sue formule. L’istinto non è comodo da maneggiare come il colore del pelo, la lunghezza della coda, l’orecchio pendulo o dritto. Ah sì! Il maestro sa bene che quello è il suo punto debole. L’istinto gli sfugge e fa crollare la sua teoria».

Non si creda, però, che contestando l’evoluzionismo Fabre cada nell’errore dogmatico opposto; anzi! Ecco come si esprime in conclusione di uno dei passaggi più espliciti contro il «trasformismo»: «Il come e il perché delle cose ci sfuggono; ciò che noi gratifichiamo della pretenziosa qualifica di legge è solo un modo di vedere della nostra mente, modo di vedere alquanto strabico di cui ci accontentiamo perché serve la nostra causa. Le nostre cosiddette leggi non contengono che un infimo recesso della realtà; spesso sono persino gonfiate solo da vane fantasie». Gli scienziati odierni, boriosi all’inverosimile, tacciano e imparino.

Ma eliminato il «trasformismo» e naturalmente escludendo il cosiddetto creazionismo, secondo Fabre cosa resterebbe? La risposta si trova alla fine del secondo volume. Eccola: «Riconosciute vane le interpretazioni trasformistiche dell’istinto… arriveremo a quell’edificante pensiero di Anassagora, laconico riassunto delle mie ricerche: Νοῦς πάντα διεκοσμήσε» («Una mente ha organizzato tutte le cose», ndc).

Da questa conclusione di potrebbe arguire che Fabre sia uno dei tanti scienziati credenti. Ma possiamo davvero pensare che un cervello come il suo potesse condividere le fantasticherie giudaico-cristiane, non meno ardite di quelle di certi scienziati? Suggerisco di no, altrimenti, anziché Anassagora, avrebbe citato qualche santo o Padre della Chiesa, o direttamente la Bibbia. Fabre, invece, potrebbe essere ascritto a una concezione filosofica dell’esistenza che, pur non abbattendosi in banalità come un dio personale, in base alle sue osservazioni ammette l’esistenza d’una sorta di mistero intelligente. Per scorgere un disegno o qualcosa di simile nell’universo mica bisogna aver bazzicato le sagrestie!

Qualcuno, ne sono certo, griderà allo scandalo davanti al pensiero di Fabre. Le teorie di Darwin ormai sono diventate maggioritarie e, peggio, sono assurte a dogma. Chi le contesta o si permette di sollevare dei dubbi sulla loro validità, viene subito tacciato di retrogrado o di medievale. Curioso modo di ragionare: quasi tutto il pensiero dell’Ottocento, a cominciare dal marxismo, è trattato come vecchiume; invece l’evoluzionismo, che non solo ha sulle spalle oltre un secolo e mezzo di vita ma è contestato da autorevoli ricercatori di oggi, risulta intoccabile come un articolo di fede. D’altra parte la scienza è la nuova inquisizione, con le sue vittime e i suoi bravi esecutori e servi: se qualcuno avesse qualche dubbio, gli ultimi due anni dovrebbero averglielo dimostrato. Insomma, usciti dalle sagrestie, siamo entrati in un laboratorio, ma il risultato non cambia.

Visto che in qualche modo siamo in argomento, voglio aggiungere un’ultima considerazione. Ascoltiamo cosa scrive Fabre in nel primo volume dei Ricordi, rivolgendosi ai suoi “colleghi” scienziati: «Voi sezionate l’animale, l’animale e io lo studio vivo; voi ne fate un oggetto che ispira orrore e pietà, mentre io lo faccio amare; voi lavorate in laboratori dove si tortura e si squarta, io conduco le mie indagini sotto l’azzurro del cielo e al canto delle cicale; voi sottoponete la cella e il protoplasma ai reagenti, io studio l’istinto nelle sue espressioni più alte; voi scrutate la morte, io osservo la vita. Ma vorrei dire di più: come i cinghiali hanno intorbidato la limpida acqua delle fonti; la storia naturale, questo meraviglioso studio della prima età, a forza di perfezionamenti cellulare è diventata cosa odiosa e respingente».

Davanti a queste parole, non possiamo che toglierci il cappello. Ma dobbiamo anche dirla tutta: Fabre infatti non è del tutto alieno da una concezione possessiva della natura. È ben vero che egli non torturò mai alcun essere vivente, ma buona parte delle sue ricerche erano condotte intervenendo sulla vita degli insetti, a volte in maniera piuttosto pesante. Nemmeno questo grande scienziato dunque sfugge del tutto alla volontà di dominio della cultura occidentale, che trova le sue radici in quella Bibbia da cui sorgerà il capitalismo. Preti, filosofi e scienziati, con rarissime eccezioni, sono vittime e complici di questa cultura; e la guerra reciproca che si muovono è dovuta sia a questo spirito, sia alle contraddizioni endogene del modo di produzione capitalistico, da cui quello spirito nasce.

Ma forse è necessario passare attraverso questa notte oscura per tentare di scorgere la luce. E solo dopo uno sconvolgimento epocale, alias rivoluzione, potrà finalmente uscire dalla preistoria ed entrare nella storia.

Luca Bistolfi

Gruppo MAGOG