19 Maggio 2020

Storia di Jane Bowles, la sfrenata moglie di Paul: una Audrey Hepburn cresciuta in Amazzonia

Si odiarono a tal punto da sposarsi – erano tanto dissimili che l’unione, in forma di anello, parve a entrambi inevitabile. Jane di cognome faceva Auer, era nata a New York da famiglia ebraica – doppio ceppo: ungherese per parte di madre, tedesca di padre – alquanto abbiente, aveva fobie esorbitanti – odiava i cani e gli squali, non sopportava ascensori, ascensioni montane, giungle, era certa che sarebbe morta in un incendio. Una caduta da cavallo, quasi bambina, le spezzò la gamba, donando sinuosità sinistra alla camminata: tutti ricordano il suo viso da bestia esotica, plateale fu la voracità. Paul Bowles, che all’epoca si dava, con generico successo, alla musica – allievo di Aaron Colpand, collaboratore di Orson Welles e Tennessee Williams – capitò nella vita di Jane nel 1937. Lei aveva vent’anni, era vergine, e quando lui le capitò addosso, Jane gli ringhiò di contrasto, se mi vuoi sposami.

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L’episodio pare surreale, la quinta lo è di più: viaggio in Messico – che nei Trenta del Novecento è gita obbligata, come il Grand Tour in Italia nell’Ottocento –, Jane si aggrega a una truppa di olandesi amici di Paul. Parlano in francese tra loro, credono che la vita sia un corpo da martoriare, vogliono la fama, si pensano superiori alla Storia, sono stanchi di essere soli. Nel 1938, meravigliando gli amici, si sposano. Jane fin da subito avverte Paul: sono lesbica. Lui coglie la rivelazione come il responso di una Sibilla, qualcosa di gratificante: d’altronde, anch’io non disdegno l’altro sesso, il mio, le rispose. Per un anno e mezzo pare però che si siano dati alla copula folle, tra loro; poi, terminata l’anamnesi analitica dei propri desideri erotici, ampliarono le relazioni, erano, per lo più, fratelli, speculari, irritabili. “Siamo tanto incompatibili che dovrebbero rinchiuderci in un museo”, diceva Jane. “Ci siamo sposati nel 1938, non avremmo potuto vivere insieme senza sposarci. Jane, poi, era vergine… ma tanto divertente che pensai che sarebbe stato fantastico stare con lei tutti i giorni”, scrisse Paul. “Jane amava tornare alle tre di mattina… abbiamo imparato a rispettare ciascuno la propria privacy: che non dormisse con altri uomini, devo dire, mi tranquillizzava”. Quando Peggy Guggenheim pretese Jane, Paul Bowles gliela regalò. Amava farsi raccontare da Jane la ridda delle sue avventure erotiche, contraddistinte da una aggettivazione al vetriolo. Paul Bowles era un esteta del disastro e della dissipazione, riteneva il vizio una virtù e gli abissi dell’animo umano li osservava con millimetrica sagacia dall’attico, non certo dal sottosuolo.

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Per intenderci: Jane è la Kit de Il tè nel deserto, interpretata, nel film di Bertolucci del 1990, da una vaga Debra Winger. Nelle fotografie – che mentono sempre – Jane muta spesso viso. In alcune immagini sembra una Audrey Hepburn cresciuta in Amazzonia; in altre ha la feroce indifferenza di una dea egizia; in altre ancora è abbrutita dall’oppio. In una fotografia del 1947, scattata da Irving Penn, Paul Bowles si sorregge a un tavolo circolare, sta cadendo, ha uno sguardo sperso, spaurito; Jane, al centro, è aggrappata al braccio destro del marito, di fianco a loro, distante, in posa dandy, il designer Oliver Smith, amante di entrambi. Jane & Paul sembrano sopravvivere alla sfrenata sessualità – più immaginata che praticata – solo stando insieme. In forma accanita, acida, violenta.

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“Paul aveva gli occhi azzurri, era magro, elegante, con lineamenti dolci e una testa finemente sagomata. Allen Ginsberg – intuendo l’insolito distacco e la riluttanza di Paul nel lasciarsi coinvolgere emotivamente – lo descrisse così: ‘biondo, basso, fragile, assai cortese, vivace, ma dal sorriso meccanico, come se fosse sempre da qualche altra parte, remoto’. Jane sembrava una ragazza, aveva i capelli rossi, riccioli, indisciplinati, labbra carnose, denti troppo grandi, carnivori. Usava un rossetto sgargiante, fumava sigari cubani… Paul era calmo, sicuro di sé, amava i luoghi esotici e viaggiare molto; Jane era tormentata dall’insicurezza, riluttante a muoversi, scriveva in modo lento, indisciplinato, e fu gelosa del successo di Paul. Jane era selvaggia e sessualmente promiscua, adorava l’umiliazione; Paul era sorvegliato e avveduto nelle sue scelte. Lei era isterica, infelice, gelosa; lui paziente, tollerante, di buon umore. Prima di incontrare Paul, Jane era stata solo con donne; si sposò con lui ritenendolo un nemico”, racconta Jeffrey Meyers in un lungo articolo, The Oddest Couple: Paul and Jane Bowles pubblicato sulla “Michigan Quarterly Review”.

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Jane scrisse un unico romanzo, pubblicato da Knopf nel 1943, Two Serious Ladies (in Italia è edito da Bollati Boringhieri e da La Tartaruga). Il romanzo fu celebrato con turbine di osanna dagli amici dei Bowles, Truman Capote (che, a onor del vero, fu un suo sempiterno fan: “È una delle stiliste pure più originali della nostra letteratura”), Tennessee Williams (“Finalmente abbiamo scoperto il più importante scrittore in prosa delle moderne lettere americane”), John Ashbery (“Uno degli scrittori più raffinati che mi sia accaduto di leggere”). Scrisse poco altro: un testo teatrale, In the Summer House, che andò in scena a Broadway nel 1953, e una serie di racconti. I suoi Collected Writings sono radunati al 288 della Library of America – quelli del marito sono stivati in due tomi, il numero 134 e il 135. Il suo stile, leggero come l’acqua e duro come un chiodo, diventò una moda: essere ‘come Jane Bowles’ significava interpretare un misterioso mostro tra Holly Golightly (quella di Colazione da Tiffany) e Medusa. Piuttosto, editando i suoi testi – i critici sono ancora lì a domandarsi quanto di Paul c’è negli scritti di Jane: per togliervi il dubbio basta fare un giro all’Harry Ransom Center, University of Texas, Austin, dove sono raccolti i suoi documenti – Paul Bowles tornò a praticare in prosa. Attraversando l’intrattabile moglie, si può dire, scoprì la propria natura estetica: dal 1945 comincia a pubblicare racconti – La delicata preda è la raccolta del 1950 – mentre nel 1949 pubblica il primo romanzo, Il tè nel deserto.

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I Bowles si erano trasferiti a Tangeri nel 1947. Tangeri era una specie di casino a cielo aperto, dove la lussuria era libera ma sottilmente sanguinaria. “Il piacere che i marocchini traggono non è, come credono gli infedeli, sessuale: è l’opportunità di infliggere al cristiano bianco un insulto definitivo”, scrive Bowles, che va in palla per Ahmed Yacoubi, un sedicenne. A cui ne seguiranno altri. Jane si accompagna, invece, a Cherifa, cantante, mascolina, che la schiavizza. “Cherifa va sempre in giro con un coltello, al fine di castrare qualsiasi maschio le capiti a tiro. Non ho mai incontrato prima una donna che odiasse gli uomini a tal punto”. Severa, occhiali scuri, celata da un velo nero, Cherifa pareva un monolite, terribile, e diede a Jane ciò che Jane desiderava: il dolore.

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Tangeri storpiava tutto in un’allucinazione. I begli anni a Brooklyn Heights erano memoria languida. Nell’inverno del 1940-41 vissero insieme, in assurda comune, promiscua, i Bowles, Benjamin Britten e compagno, Peter Pears, Golo Mann – figlio di Thomas –, il romanziere Richard Wright e Carson McCullers. A tenere a bada la truppa, Wystan H. Auden, che abitava lì con l’amante, Chester Kallman. “Era sempre pieno di gente: Auden pagava i domestici, si occupava del cibo, mandava avanti questa stramba cooperativa”, ricorda Paul. “Auden non tollerava i litigi durante il pasto; esercitò su Jane un fascino particolare, lei si offrì di farle da segretaria. Tutti i giorni si svegliava alle sei e insieme lavoravano per circa tre ore”.

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Nel 1957, a 40 anni, Jane fu straziata da un ictus. Incapace di creare, abulica, transitò per diversi ospedali e ricoveri, prima di morire, in una clinica di Malaga, nel 1973. Affascinato da Borges, forse Paul pensava che con Jane morisse il suo vero io. Continuò a scrivere, ad amare con moderazione, a vivere a Tangeri. Più vecchio di Jane di sette anni, campò fino al 1999; tentò di perdersi in un arcano perduto, che lo rigettava, nella luce africana, solida come la pietra ma infine impermeabile. Recentemente, la scrittrice argentina Samanta Schweblin ha detto di rileggere di continuo Too Far From Home di Bowles, “come un mantra, lo sfoglio per concentrarmi, quando ho bisogno di prendere delle decisioni importanti”, segno che quella scrittura ancora affonda. In punto di morte, Jane non si lasciò scappare l’ultimo colpo di teatro. Si convertì al cattolicesimo. Forse aveva esaurito tutti gli dèi, forse era un modo per dileggiare i propri genitori, la gente e la genia – e l’utopia di Tangeri. Fu sepolta, per suo volere, in un cimitero cattolico; ma Paul, che riteneva incredibile quel credo, si rifiutò di adornare la tomba con una croce. Così la tradì – o le fu fedele. (d.b.)  

*In copertina: Jane Bowles, al centro, tra Paul Bowles (alla sua sinistra) e Oliver Smith in una fotografia di Irving Penn, New York, 1947

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