Rainer Maria Rilke: il poeta che ha scritto la morte per celebrare la vita
Poesia
Maura Baldini
Il grande cane sciolto della letteratura americana. Uno scrittore che si è sempre tenuto in disparte, che non ha mai fatto comunella, allergico a gruppi, circoli, tendenze, etichette. E che per questo ha pagato. Per quanto stimatissimo da alcuni, tanto da essere definito “uno dei migliori scrittori americani di tutti tempi”, in realtà James Purdy (1914-2009) è rimasto sempre una sorta di fuorilegge, detestato dal mondo letterario ufficiale.
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Cresciuto nella profonda provincia americana, dopo avere girovagato un po’ per gli Stati Uniti facendo l’insegnante, è approdato a New York dove ha vissuto per cinquant’anni in un monocale tappezzato con foto di pugili e diventato leggendario.
Ha pubblicato alcuni romanzi che hanno lasciato il segno. Malcolm, il primo uscito nel 1959, Il nipote nel 1960, La versione di Geremia nel 1970. Ha scritto anche racconti, poesie e commedie. Era un ribelle a tutti gli effetti, di quelli veri e assoluti, che non hanno bisogno di alzare la voce. Chi lo ha conosciuto di persona lo ha descritto come un signore molto educato, gentilissimo, sempre vestito in modo elegante.
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Leggendo i libri di Purdy, capita di imbattersi in personaggi che mentre sono immersi in scene del tutto anonime all’improvviso dicono in tono sommesso frasi terrificanti, capaci di sconvolgere un’intera vita, per poi subito dopo tornare a fare e dire le banalità più scontate. Sono sguardi sull’abisso che danno le vertigini e portano pochi lettori. Per Purdy l’uomo non è mai interamente un prodotto culturale del suo tempo, ma innanzitutto e sempre un uomo, con un cuore fragile, sconcertato in mezzo alla vita.
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«Mi piace scendere in profondità. Tutto ciò che tocca gli esseri umani ci riguarda troppo da vicino per poter essere trascurato, in qualsiasi sua forma, anche quelle normalmente considerate atroci».
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Basti pensare a Il nipote, ambientato in una sonnolenta cittadina del Maryland, che racconta di un fratello e una sorella anziani che aspettano il ritorno di un nipote disperso nella guerra di Corea. Una trama all’apparenza innocua, ma che nasconde spaventosi segreti. Un classico dello stile di Purdy. Uno scrittore che se ne sta lì buono e tranquillo per pagine e pagine, poi all’improvviso brandisce la scure che tiene sempre a portata di mano e mena fendenti devastanti.
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Uno dei vertici della sua produzione è il racconto lungo Come in una tomba. Garnet, il protagonista, è tornato dalla guerra orrendamente sfigurato. Un mostro con la pelle carbonizzata dalle ferite che non può più arrossire né impallidire; non può neppure piangere perché i dotti lacrimali gli bruciano come spine. Più che un uomo ormai è solo un tronco incenerito. Un emarginato, un drop out, un morto che cammina.Gli unici legamiche danno un senso alla sua vita sono Georgina, una vicina di casa, giovane vedova e suo primo antico amore e i due assistenti che ingaggia. Uno ha il compito di massaggiargli i piedi per alleviare i terribili dolori che lo tormentano e di leggergli dei libri, l’altro quello di portare le sue lettere d’amore a Georgina. Fin dall’inizio Purdy scarnifica l’atroce solitudine di Garnet senza pietà. Nel corso del racconto i legami tra i personaggi si intensificano e si ribaltano per poi essere travolti da un immane uragano che si abbatte sulla zona. La storia è tutta attraversata dall’odio e dall’amore e alla fine è quest’ultimo che, per così dire, purifica Garnet e lo fa tornare alla normalità fisica mondato delle sue mutilazioni.
È stato definito da molti un racconto gotico. Certo, ma è anche molto di più. Una storia sul dolore e sulla solitudine nel quale il dolore e la solitudine del protagonista sono anche i nostri perché noi come lui tremiamo quando siamo soli e cerchiamo una risposta, forse impossibile, nell’amore dell’altro. Un racconto meraviglioso, ricco di squarci visionari e metafisici, che alla fine lascia il lettore spossato e con le idee confuse come solo i grandi capolavori della letteratura riescono a fare.
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Purdy ha sempre difeso la sua diversità di scrittore come un valore assoluto e con un pizzico di snobismo. Per capire quanto si sentisse un cane sciolto vale la pena riandare a quanto lui stesso disse in una vecchia intervista: «Non mi piacciono le idee, non ci credo. C’è una frase che mi piace molto (non so di chi sia, magari è mia) che dice: tu non sai cosa sai. E credo che questa sia la differenza tra quello che scrivo io e quello che scrivono gli scrittori di successo. Loro scrivono quello che sanno, e non sanno che è una menzogna. E io scrivo quello che non so, ed è tutto vero».
Silvano Calzini
*In copertina: James Purdy (la fotografia è tratta da qui)