09 Aprile 2024

Conversazioni con James Joyce, “un cospiratore letterario, il personaggio più rivoluzionario dell’epoca”

Una sera dell’aprile 1921, il giovane pittore e critico d’arte d’origine irlandese Arthur Power ebbe modo di incontrare James Joyce al Bal Bullier di Parigi, dove si festeggiava l’accordo raggiunto con Sylvia Beach per la prossima pubblicazione dell’Ulisse (l’opera uscirà a Parigi presso la libreria Shakespeare & Company il 2 febbraio 1922, giorno del quarantesimo compleanno di Joyce, sempre molto attento alle coincidenze, da lui ribattezzate “coincidanze”).

Nel decennio della loro amicizia, collocabile tra il 1921 ed il 1931, Power riuscì ad instaurare con Joyce un vero e proprio dialogo incentrato perlopiù su temi letterari, e a darne poi definitiva stesura cinquant’anni dopo, in un volume di quindici capitoli: Conversations with James Joyce, edito da Millington nel 1974, poi pubblicato in Italia da Editori Riuniti nel 1980, per la cura e traduzione di Franca Ruggieri.

Si tratta di una rara intervista al grande scrittore irlandese, notoriamente insofferente a giornali e riviste, colto nella dimensione di una vita quotidiana estremamente semplice, per non dire spartana. Eccezion fatta per i costosi ristoranti dove amava recarsi, Joyce viveva nell’isolamento del suo appartamento o, per meglio dire, della sua scrivania ingombra di libri, giornali e manoscritti, ognuno in un inchiostro di colore diverso – interamente rivolto all’opera, un perenne work in progress in cui era palesemente immerso, anche mentre parlava d’altro: un’opera aperta – dice Power che lo attraversava continuamente. La sua mente era febbrilmente impegnata su due problemi fondamentali che escludevano tutto il resto: il comportamento dell’uomo e il suo ambiente, con l’occhio costantemente rivolto verso Dublino.

“Chi avrebbe pensato che quell’uomo esile – si chiede Power – dal fisico delicato, con quel viso liscio da impiegato, la barbetta a punta, quegli occhiali spessi, che davano un aspetto vitreo ai suoi deboli occhi, fosse il personaggio più rivoluzionario in questa epoca di rivoluzioni artistiche? Mi resi conto davvero che aveva molto del ribelle feniano: la stoffa scura del vestito, l’ampio cappello, il comportamento schivo, l’espressione intensa, proprio come un cospiratore letterario che fosse deciso a distruggere le strutture culturali, rispettabili ed oppressive, nelle quali eravamo stati educati e che allora si stavano sgretolando”.

Su tutto, dalle pagine di Power, emerge un Joyce animato dalla ferrea volontà di mettere in discussione il mestiere dello scrittore, nello sforzo – senza sosta – di comporre la frattura tra arte e vita, come questa verrà a svilupparsi in tutta la sua opera.

Fin dalla prima conversazione, confrontandosi sull’opera di Synge, Power gli sottopone il problema: bisogna intendere la letteratura come fatto o come arte? Due risposte che Joyce riunisce, facendo un passo avanti:

“Dovrebbe essere la vita ed una delle cose che da giovane non riuscivo ad accettare era la differenza che riscontravo tra vita e letteratura”.

Non sono entrambe una forma di ebrezza? – incalza Power – non bisogna “essere sempre ubriachi, come si esprime Rimbaud, ubriachi di vita? Non è questo l’artista?”

“Questo è l’aspetto emotivo – dice Joyce – ma c’è anche l’approccio intellettuale, che disseziona la vita ed è quello che ora mi interessa di più, scendere giù fino a quel residuo di verità della vita, invece di gonfiarlo di romanticismo, che è atteggiamento fondamentalmente falso. In Ulisse ho cercato di far nascere la letteratura dalla mia esperienza e non dalla formazione di un’idea preconcetta, o da un’emozione temporanea. […] Il tema moderno è […] quello delle forze sotterranee, delle maree nascoste che governano ogni cosa e dirigono l’umanità in senso inverso rispetto alla corrente visibile: quelle sottigliezze velenose che avvolgono l’anima, quei vapori che esalano dal sesso”.

L’immaginazione e l’istinto sessuale – aggiunge più avanti – sono qualità eterne, mentre “la vita secondo regola” cerca di reprimerle, ma da questo conflitto nasce la sensibilità moderna.

L’invisibile che Joyce va delineando nelle Conversazioni si nutre di mistero, correnti segrete, forze oscure: silenzio ed esilio, desiderio e violenza. Ne abbiamo testimonianza diretta nel dialogo su Dostoevskij:

“è l’uomo che più di chiunque altro, ha creato la prosa moderna […] So che qualcuno pensa che fosse bizzarro e perfino folle, ma i motivi della sua opera, violenza e desiderio, sono il respiro stesso della letteratura. […] La vita è un problema complicato. È senza dubbio piacevole e lusinghiero vederla presentata in forma lineare, come presumono i classici, ma […] la letteratura classica rappresenta la luce diuturna della personalità umana, mentre la letteratura moderna si interessa al crepuscolo”.

Joyce è consapevole del fatto che il tipico personaggio dostoevskiano, dotato di infinita chiaroveggenza, è un super-uomo che non esiste nella realtà; ciononostante ricorda che è significativo per qualunque lettore vederlo rappresentato nella sua letteratura, perché ciò che viene detto – suggerito alla mente – solo allora può esistere. 

Ecco cosa significa scrivere per lui, il “nuovo realismo” joyciano: affondare le mani nei fatti, nella realtà; muoversi tra le ombre, le contraddizioni umane, al buio; affrontare il rischio delle complessità sotterranee; crollare nello sforzo, se necessario, ma scardinare l’idea “immobile” di ciò che la letteratura e la stessa vita dovrebbero essere. La sua prosa non si arena sulla distinzione tra fatto o arte – come se uno escludesse l’altra – ma diviene l’arte di descrivere i fatti della vita o, anche, la descrizione dell’arte di vivere. Joyce è poeta di quella complementarietà che c’è tra la letteratura – come fatto della vita – e la vita stessa. La capacità d’adattamento dell’uomo agli eventi è una forma d’arte, a suo modo, che il verbo dell’autore deve fotografare fedelmente, facendosi arte nel dirne, in uno spazio di contaminazione reciproca, che è scambio ispirativo. Dice Joyce:

“In Ulisse ho cercato di mantenermi aderente ai fatti. C’è naturalmente dell’umorismo, perché la posizione dell’uomo in questo mondo, benché sia fondamentalmente tragica, può anche essere comica. La disparità tra ciò che si vuol essere e ciò che si è, risulta senza dubbio ridicola”.

Il contrasto e la dissociazione tra gli accadimenti che si affastellano sull’uomo e la sua reazione ad essi è il materiale dello scrittore. Ulisse è dunque l’uomo dell’esperienza che affronta la discesa agli inferi con l’arma dell’umorismo: una sola giornata – il Bloomsday – diventa così una superficie che si allarga all’infinito nella fittissima trama di uno sconfinato monologo interiore. L’opera si svolge interamente tra le otto del 16 giugno 1904 (il giorno in cui Joyce incontrò Nora Barnacle, la sua futura compagna di vita) e le prime ore del giorno seguente, e tratta di persone ordinarie ritratte in un giorno di vita ordinario. Joyce regalò infatti una delle prime copie del libro al cameriere del suo ristorante preferito a Parigi: il suo osservatorio privilegiato era la gente comune ed era quello il pubblico cui intendeva rivolgersi. In questo senso – e al di là della complessità dei temi, echi letterari, tecniche narrative – Ulisse non è un uomo, è l’umanità. Un racconto di pura esistenza in cui ogni lettore può tracciare il suo (personale) percorso, vedervi la propria vita.

Nel “vedere la propria vita in quella di tutti gli altri” si completa il senso della letteratura. Essa non è solo sterile descrizione dell’arte di vivere, ma anche strumento per svolgere un compito di cui l’uomo – sepolto nell’individualità cui lo inchiodano i fatti dei giorni – non è capace: osservare la propria natura dall’esterno, farsi propaggine non autonoma, sentirsi investito di un’individualità che non si manifesta nella ricerca di una personale distinzione, ma nel divenire interprete di un’esistenza collettiva.

Come dice Enrico Terrinoni, Ulisse vuole parlarci della complessità dell’esistenza, di una vita che non può mai essere presa con leggerezza, né semplificata dalle normali convenzioni. D’altra parte, come si potrebbe dipingere in oltre mille pagine la “storiella di una giornata”, se non esplorandone il lato nascosto, stanando ciò che – non detto – ribolle letteralmente nell’invisibile vita di tutti? Joyce non solo ha saputo cogliere lo straordinario nell’ordinario, ma ha acceso un potente riflettore su quello che può rappresentare la trama di una vita intera che, giorno dopo giorno, si consuma e ci consuma, giacché non si approda alla vecchiaia solo con membra consumate e capelli canuti, ma anche con uno spirito carico di ricordi – che sono osservazioni e reazioni alla vita. Il difficile percorso ermeneutico dell’opera rimanda infatti alle difficili zone d’ombra dell’esistenza, come pare insinuare una voce in sottofondo al terzo episodio:

“Trovi le mie parole oscure. L’oscurità è nella nostra anima, non credi?”

Marilena Garis e Riccardo Peratoner

Gruppo MAGOG