26 Febbraio 2022

L’amore per la guerra. Un saggio di James Hillman

Nel 2004 James Hillman pubblica un libro di inquietante necessità: A Terrible Love of War. Non è lo studio più noto di Hillman, è uno degli studi più scomodi: lo psicoanalista raccolta il nostro arcaico, arcano, indicibile amore per la guerra. A determinare questa passione, propria dai primordi, vegliano le icone di Ares e di Afrodite: dalla loro unione, contraddittoria, secondo il mito, nascono Fobos, il dio che presiede alla paura, e Armonia. Proprio lì, nel crisma del paradosso, tra equilibrio e orrore, si insinua Hillman. Il libro è stato tradotto nel 2005 da Adelphi: “Frantumando la retorica degli adagi progressisti – basati su una lettura caricaturale della «pace perpetua» teorizzata da Kant –, Hillman risale così, in perfetta consonanza con la sua visione della psicologia, al carattere mitologico e arcaico di tale ambivalenza, riassunto nell’inseparabilità di Ares e Afrodite”. Il delirio della guerra fatta per ‘imporre la pace’, per ‘esportare la democrazia’ racconta di una insanabile perversione, propria di una civiltà che non vuole rompere lo specchio delle mute apparenze.  In Figure del mito (2014) Hillman torna a ragionare intorno alla figura, pervasiva ma taciuta, di Marte. Qui si propone una antologia di alcuni passi notevoli.

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Chi ha visto il film Patton, generale d’acciaio, ricorderà la scena in cui il generale americano, comandante della Terza Armata nel 1944-1945, mentre attraversa la Francia diretto in Germania ispeziona un campo dopo la battaglia. Terra sconvolta, carri armati incendiati, cadaveri. Il generale prende tra le braccia un ufficiale morente, lo bacia e, posando lo sguardo su quella devastazione, esclama: “Come amo tutto questo. Dio mi perdoni, lo amo più della mia vita”. Quella scena mette a fuoco il mio tema: l’amore della guerra, l’amore nella guerra e per la guerra che è più forte della vita, un amore che evoca un dio, che è alimentato da un dio, che si manifesta sul campo di battaglia, un lembo di terra devastata reso sacro da quella devastazione.

Sono convinto che non potremo mai parlare con costrutto di pace e di disarmo se non penetriamo in questo amore della guerra. Se non entreremo nello stato in cui l’anima è marziale, non potremo comprendere la forza di attrazione della guerra. E in questo speciale stato dell’anima bisogna entrare in modo rituale: dobbiamo essere “arruolati”, e la guerra deve essere “dichiarata” (così come si è dichiarati pazzi, uniti in matrimonio o insolventi). Dunque proveremo ora ad “andare alla guerra”; e questo in base a un principio fondamentale del metodo psicologico secondo cui qualunque fenomeno, per essere compreso, va immaginato empaticamente. Per conoscere la guerra dobbiamo penetrare nell’amore della guerra. Nessun fenomeno psichico può essere scardinato dalla sua fissità se prima non spingiamo l’immaginazione fino al suo cuore.

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La determinazione ultima del destino storico, ci viene insegnato, dipende dalle battaglie, il cui esito dipende a sua volta dal genio invisibile di un capo o eroe, attraverso il quale si manifesta uno spirito trascendente. La battaglia e la sua incarnazione personificata diventano, nella storia secolarizzata, rappresentazioni salvifiche. Le statue dei nostri parchi, i nomi delle vie più maestose e le festività civili del nostro calendario commemorano l’aspetto salvifico della battaglia.

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No, le guerre non sono soltanto opera dell’uomo; testimoniano anche di qualcosa di intrinsecamente umano che trascende l’umano, in quanto evocano potenze che sfuggono alla piena comprensione umana. Non soltanto gli dèi combattono tra loro e contro altri dèi stranieri, essi santificano le guerre umane, e vi partecipano e vi intervengono, come quando nel mezzo della battaglia i soldati odono voci divine o hanno visioni divine. È a causa di questa irruzione del trascendente che le guerre sono così difficili da dominare e da comprendere. Quello che avviene in battaglia è sempre in qualche misura misterioso, e pertanto imprevedibile, non è mai del tutto nelle nostre mani. Le guerre “scoppiano”. Un tempo i generali cercavano segni nel cielo, nel volo degli uccelli; oggi, fantastichiamo l’origine di una guerra in un incidente al computer. La dea Fortuna: nonostante i piani di battaglia più meticolosi e le ripetute esercitazioni, l’esperienza della battaglia è una ridda di sorprese. Ci occorre dunque una spiegazione della guerra che metta in conto il suo momento trascendente, una spiegazione che si ancori nelle archái, i princìpi primi dei greci: arché, non solo come in “arcaico”, termine delle spiegazioni storiche, ma come in “archetipico”, che evoca lo sfondo trans-storico, quel momento di epifania divina che è nella guerra?

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E al di là di tutto c’è il forte legame affettivo per il plotone, l’equipaggio, il proprio compagno. L’amore nella guerra. Tommaso d’Aquino osserva che i compagni d’arme mostrano una forma specifica di amicizia. L’amore in battaglia è complesso, delicato, altruistico e ardente. Non può essere ridotto alle formulette della moderna psicologia: rafforzamento della virilità con codici d’onore maschilisti, pressione del gruppo dei pari che inibisce la codardia, scoperta e liberazione, nello stress del combattimento, di tendenze omosessuali represse. Oltretutto, questo amore è così forte e trascende talmente gli scopi stessi della guerra, che è più facile che, per non venire meno ai compagni, un soldato spari al suo ufficiale che non al nemico di fronte.

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Maggiore potenza di fuoco significa pace più sicura. Noi mettiamo in atto la cecità del dio cieco (Mars Caecus, lo chiamavano i romani, e anche insanusfuribundusomnipotens), vedi i soldati di Grant e di Lee nella battaglia del Wilderness, vedi il bombardamento di Dresda: la strage come sistema per porre fine alla guerra. Il controllo della vendita di armi da fuoco è un altro esempio significativo che suscita profonde perplessità nella società civile. Il diritto di portare armi è costituzionale e la nostra nazione e la sua storia territoriale sono dipese, nel bene e nel male, dalla dimestichezza con le armi da parte di milizie formate dai cittadini. Ma questo risale ai tempi in cui cavalieri solitari attraversavano le praterie con il fucile e la Bibbia (ed eventualmente la loro donna e il loro cane). Il fucile era protetto da un dio; quando stava appoggiato in un angolo della casa, la punta in alto, come la lancia dei romani che era Marte stesso, si rinnovavano il ricordo del dio e il reverente timore che egli suscitava e anche in parte la sua ritualità.

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L’oratoria marziale nei diari, nelle poesie e nei ricordi di guerra parla di attaccamento a luoghi, compagni, oggetti specifici di questa terra. Il trascendente è nel particolare concreto. Scrive Hemingway che dopo la Grande Guerra “parole astratte come gloria, onore, coraggio sembravano sconce accanto ai nomi concreti dei villaggi e dei fiumi, ai numeri delle strade e dei reggimenti, alle date”. Chi conosce più la data del test nucleare di Alamogordo (o sa dove sia) o la data della bomba di Hiroshima, quella dell’esplosione della prima bomba all’idrogeno, o il nome delle persone, delle località e delle unità coinvolte? Sfumati nella nebbia dell’astrazione. Scrive Glenn Gray: “Ciascuna unità di combattimento deve avere un obiettivo delimitato e specifico. Gli obiettivi fisici (un tratto di terra da difendere, un nido di mitragliatrice da distruggere, un caposaldo da attaccare) tendono più facilmente a suscitare un senso di cameratismo”.

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Immaginiamo guerre del tutto prive di anima, di spirito, di dèi, così come immaginiamo la vita biologica e psicologica, i rapporti sociali e la politica, l’organizzazione della natura: senza anima né spirito né dèi. Le guerre rendono palese questo declino della ritualità e il prevalere del positivismo a partire da Napoleone e dalla guerra di secessione americana (1861-1865). La Grande Guerra del 1914-1918 fu stolidamente pervicace, pervasiva, prosaica, le “cupe officine sataniche” ora dislocate nelle Fiandre, sessantamila caduti britannici in un unico giorno sulla Somme, la stessa battaglia ripetuta ancora e ancora, sempre uguale, come un’argomentazione logica positivista. Ripetizione dell’insensatezza. Le guerre diventano insensate quando non c’è un mito dietro.

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Rivolgiamo dunque una invocazione a Marte. Già un’altra volta almeno, in questo secolo, egli ci ha indicato la strada. Negli anni del suo regno – dal 1914 al 1918 – Marte distrusse la mente ottocentesca facendo nascere la coscienza moderna. Chissà che rivolgendoci a lui oggi non accada qualcosa di simile. Ma con Marte non basta la riflessione, ci vuole altro. L’ariete non si ferma a ragionare e il ferro non si specchia nella sua lustra superficie. Marte esige penetrazione fino all’essenza, il suo slancio aumenta nel folto del pericolo, e il pericolo oggi risiede nel groviglio irriflesso delle nostre menti anestetizzate. Occorre battere, martellare, torcere il ferro delle spade per farne aratri. Nonostante tutto, io credo che la decostruzione sia già in atto, con modalità talmente banali che non ce ne accorgiamo.

Il trasferimento della guerra dal campo di battaglia fisico allo schermo televisivo e alla fantascienza, la traduzione della guerra letterale in guerra mediatica – guerra mediata – e il linguaggio di fantasia dei war game; teatri di guerra e guerre teatrali, azioni di massa, scenari possibili, regia e strategia, prove generali, gli “attori” del conflitto: che tutto questo segnali un nuovo modo di ritualizzare la guerra nell’immaginazione? Se questo è vero, allora la guerra televisiva del Vietnam non è stata perduta. Quei caduti non morirono soltanto per la loro causa (se ci credevano) o per il loro paese (se gliene importava). Furono piuttosto attori sacrificali di un rituale che potrebbe decostruire completamente la guerra, trasformandola in una operazione immaginale. Forse, quella immaginata da Carl Sandburg – “Un giorno faranno una guerra e nessuno ci andrà” – è una fase che è già iniziata. Non occorre andarci, perché il servizio in onore di Marte è officiato ogni sera a casa nostra, alla TV. In una società mediatica, non è forse logico attendersi che la base dei profitti di guerra del capitalismo passi dal complesso militare-industriale al complesso militare-comunicativo/informativo, attuando con ciò la piena simbolizzazione della guerra?

James Hillman

*Una antologia più ampia, a cura di Silvia De Leude per “Engramma”, si legge qui.

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