03 Febbraio 2024

“I poeti sono pazzi”. James Carkesse o del poeta nato in manicomio

Di James Carkesse, come è lecito in questo frumento di fraintesi, si sa pochissimo, occorre scoprire la lince dietro la coltre delle supposizioni, funestare il levriero aggettivo. Nato, pare, intorno al 1636, morto che doveva compiere cinquant’anni, ha scritto una delle raccolte poetiche più funamboliche del regno inglese. S’intitola Lucida Intervalla, viene stampata a Londra, Anno Dom. 1679. Il sottotitolo è un programma di poetica: Containing divers Miscellaneous Poems, Written at Finsbury and Bethlem by the Doctors Patient EXTRAORDINARY. La straordinarietà del paziente è urlata in maiuscolo.

I testi poetici, in effetti, sono stati scritti dall’internato di genio negli intervalli di lucidità durante il ricovero forzato negli ospedali psichiatrici di Finsbury e Bethlem (o Bedlam). Sono scritti di getto, senza un programma editoriale o progettando un’opera.

Lucidità: il lucore della follia. Che l’ispirazione persegua i suoi scopi per intervalli e velature, lungo la vallata dello sterile giorno, è cosa nota. Di solito, Lucida Intervalla è trattato alla stregua di un ‘caso clinico’, trattenuto tra le maglie dello ‘studio’: “è forse la prima raccolta di versi scritta e pubblicata da un detenuto in manicomio… riflette la natura intricata e ambigua dell’appartenenza del paziente al mondo dei pazzi… offre una panoramica delle implicazioni culturali della follia e della cura nell’Inghilterra del XVII secolo e approfondisce la problematica relazione che lega la follia alla creazione poetica” (così Lisanna Calvi in “Is’t Lunacy to call a spade, a spade?”: James Carkesse and the Forgotten Language of Madness, “Spell”, 2013).

Sui rapporti tra follia e poesia tutto si può dire – e il contrario: sono sempre i ‘sani’ a porre la lanterna sull’insania; ma è il linguaggio in quanto tale a essere la tenia, il morbo, la malattia. Piuttosto, Lucida Intervalla, di per sé, è un libro straordinario, dove l’ossessione – i temi reiterati: il poeta ‘lunatico’ nel mondo lunare del manicomio; la lotta del poeta contro i medici e in generale contro gli uomini che lo ritengono pazzo – sfocia, spesso, nel cristallo lirico, nell’audacia del gioco di parole, nella trasfigurazione magistrale. Il disadatto non si adatta al vocabolario: lo fa esplodere dall’interno. James Carkesse è brutale, opera per associazioni, tramortisce le Muse in Menadi, ma nel suo dire sono già implicati, al futuro, William Blake, Lewis Carroll, Edward Lear, Gerard Manley Hopkins e Mervyn Peake, poeti che praticano il nonsense per impratichirsi con l’insensatezza del mondo, che sfregiano la ragione con visioni d’oltremondo.

Quanto al profilo biografico e ‘psichico’ di Carkesse, stando ai nudi fatti, questo sappiamo. Dopo studi notevoli alla Westminster School e al Magdalen College, il nostro offre i servigi al Marchese di Dorchester, con virtù. Carkesse gode di ottime amicizie – le quali, per inciso, gli permettono di non marcire ignoto nel tour in manicomio –: intorno al 1660 è impiegato presso il Naval Office di Londra, alle dipendenze di William Brouncker, matematico e presidente della Royal Society, nonché amico dell’istrione Samuel Pepys. Proprio dai diari di Pepys – il repertorio di pettegolezzi e di sketch più vibrante dell’epoca – raccogliamo qualche dato su Carkesse. Pepys cita Carkesse più volte, tra il 1665 e il 1668: passa dal giudicarlo un very civil gentlemen a stigmatizzarlo come “un tipo astuto, sicuro di sé, scaltro”. Fa presto a non piacergli, soprattutto dopo l’‘affare’ in cui viene coinvolto Carkesse: occupato nell’amministrazione dell’ufficio navale londinese, viene licenziato, nel 1667, con l’accusa di aver sottratto dei soldi – speculava sulle rendite dei marinai in congedo –; fu reintegrato, grazie all’aiuto degli amici, l’anno dopo. Da allora, sono riferite le sue variopinte “stranezze”: più volte si presenta a lavoro vestito da sacerdote, pronto a ‘catechizzare’ i suoi colleghi. Gli accessi d’urla, le crisi di panico si susseguono finché dal 1676 è confinato nel manicomio privato di Finsbury, guidato dal dottor Thomas Allen, e poi a Bethlem. “Lo scrittore era un soggetto piuttosto adatto al manicomio”, lo incarcera così una nota enciclopedica dei primi del Novecento.

In realtà, è la clausura in manicomio, maieutica, a far germogliare il talento poetico di Carkesse, circoscritto per sempre a quella esperienza. Ritornato nella vita civile, cioè rientrato nell’oscurità – pare abbia trovato impiego presso la Chelmsford School, nell’Essex – Carkesse non scriverà più nulla. Eppure, nelle poesie non fa che dichiarare il suo lignaggio di “Poeta Pazzo”, di scrittore “selvaggio dall’ingegno galoppante”. Si professa sano e può imbastire la sua lotta contro gli imbestiati medici, mercenari della ragione, proprio in virtù della sua sapienza lirica. La poesia è testimone della superba mania, è la sola ‘cura’ che Carkesse somministra a se stesso – gli è da baluardo contro un mondo, in fondo, che gli appare grigio, capovolto, infido.

Pare che ogni luogo abbia il suo palco naturale: si recita a soggetto ora sul posto d’impiego, ora tra i pavoni dell’alta società, ora tra i pazzi. Il manicomio è l’in-folio, il recinto bianco, libresco, il quadro-quaderno su cui Carkesse può esercitare il suo talento verbale: tolto da quel contesto, il principio poetico svanisce. La poesia, così, più che essere il documento di un folle, ne conclama la guarigione: è parola che salva, autentico antidoto. Inalando un tozzo di follia ne resti immune, mondo dalla putrida mondanità.

La pubblicazione – ergo: dall’eccezionale poetico trarre una norma, perfino una ‘moda’, un ‘modo’ – obbliga Carkesse a silenziarsi. Il segreto è svelato, il ‘trucco’ evapora in soliloquio, la calcina dell’anima, del prestigio non resta che la gabbia vuota, il divin gabbato, coi nastri al collo.

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Lucida Intervalla, di James Carkesse

L’errore

Chi può dire cosa occasionò l’Errore?
Pensai a un letto in Paradiso, finii all’Inferno:
Oscurità e Catene dominano e il Portinaio
della corte di Pluto; senza ulteriori indugi
scassano Matteo il Corpo; tre Guardiani
tre Mercenari e Cerbero alle cancellate:
qui mi trattano come fossi Scemo e Scempio
finché non farò il mazzo al Mostro.

*

I poeti sono pazzi

Questo manicomio è la migliore delle Università:
vi prende i gradi il Poeta mica il Prete.
Figlio del gregge comune, egli entra
nella stanza dalle finestre aperte –
i Sermoni non valgono quanto un Salmo
e il Buffone mostra la guancia al prossimo:
una volta Tamar, la musicista, si è invaghita
del più mite, ma è l’altro, il Poeta estremo,
il selvaggio dall’ingegno galoppante, che piace
ai matti perché la sua Follia è smisurata:
ai Governatori questo Pazzo dichiara
che è pronto per il manicomio di Bedlam
a patto che rinneghi il Genio. Poeti e Attori
preparate i forconi perché arriva l’Idiota Fuori-di-Testa –
finché non gli cureranno la Poetica Rabbia
lasciate che invada le nostre Gallerie senza uscita.

*

Il poeta non è un lunatico

Ciò che Febo, il mortale, insegue ispira
il mio petto con alito di divino fuoco:
molla alla Luna i raggi dei tuoi potenti Fratelli;
la mia Musa obbedisce al Padre, mica alla Zia.
Apollo può risparmiare su ogni altra arte, soltanto
la poesia governa senza timore la tua Sfera.
Quanto ai Preti di Delfi e del colle Parnaso
il Dio li empie con Oracoli e Versetti; ma solo
Profeti e Poeti sono Matti (in un certo senso)
e i Sobri si fanno adulti, mentre essi dispensano
i loro doni: uno sfoga la Rabbia urlando al Vento
l’altro fa gocciare inchiostro sulla Carta.
Medico, guarisci te stesso, dicono; ma questo
va detto al Poeta: prenditi cura di te.

*

Dopo essere stato recluso come pazzo solo per aver tentato di ridurre a nulla i dissidenti della Chiesa

Quando lo Zelo di Dio ispira il petto
il mondo ti dice Cieco, spossessato d’Uomo;
e lusingando il proprio gelido desio
dicono Lunatico chi è reso al Celeste Fuoco:
benché i loro Occhi siano nella Fiamma
sono in disastro, disorientati dal Nome;
Sappiate che Cristo è nato prima
a Betlemme e poi nella nursery di questo
manicomio. A Dio e Padre e Figlio
e Spirito Santo, tre in uno,
per gli Uomini e gli Angeli, su tutti
splenda la Gloria dei Cieli e della Terra.

*

Scritto mentre mi viene il vomito

Certamente le Stelle non regnano, ora,
ma qualche crudele Cometa mi invia
un Pazzo ciarlatano nelle vesti del Vomito
al veleno; per fortuna Apollo è con me
e mi fortifica con l’Antidoto.
Non ha ancora dimenticato, da quando
Pitone è caduto dal suo braccio, che
molto Veleno è ancora da espellere.
Non tutti sono come Mitridate
immune all’orda del male:
per evitare l’inutile mania dei medici
preferisci Purga e Vomito: Elicona
se ne farà una ragione.

*

Umilmente presentato al Venerabile, al Tesoriere e agli altri Governatori del Manicomio di Bethlem

Apollo, Dio e Padre, tu e Io,
posseduti, entrambi, da Fisica e Poesia:
Fratello, cosa intendi per sberleffo? Credi
che questo Lunatico Figlio di Febo finga?
Colpevole secondo il Verdetto di una Giuria
cittadina: porto inciso dentro di me il fardello
con il nome di Furia Poetica; quindi:
devo scollinare dalla colpa perché
lui, che ogni pazzia permette, gemello
del Fato, dice che non si può smarcare
dalla giusta Ragione: condannate la Furia
allora ma discolpate il Poeta. Dottore
Io sono (non del tutto, lo rimarco, solo
in quanto Paziente) Carkesse, vostro umile
Servitore.

*

Sulle Signore che mi guardano in Cella

Quando il Dottore aveva gettato il Pazzo
nel Pozzo oscuro e costretto il Prigioniero
alla clausura, una Lady fece capo per caso:
splendida in bellezza, dilatò le grate per far
entrare la sua nuova luce; quanto ero felice:
privo del Sole, al confino, vidi la mia più
splendente stella arrossire.

*

Il Verdetto del Medico

Signore, lasci stare il Poeta e il Mentitore
soltanto da sobrio potrebbe sfidare la Luna:
ciò che sembra a tutta prima un misterioso
Paradosso, dimostrerò che è rotondo come
una sfera. Febo e Luna, fratello e sorella,
di certo s’intendono l’un l’altro:
io, nel loro Privato Concilio, in qualità
di Dottore, porterò il tuo caso senza
ulteriori spese: a meno che la Luna non
lo assista, lo so bene, Apollo non può
creare dal nulla un poeta. Quando
il Genio lo rinnega, egli è un Somaro pari a me:
Sole e Luna ti abbandoneranno entrambi, vedrai.

James Carkesse

Gruppo MAGOG