Cosa rimane di noi dopo la morte? Che ne sarà di tutto il nostro arrabattarsi, dei nostri affanni, dei nostri affetti? Sperduti in viaggi senza meta alcuna, c’imponiamo di non rivolgerci mai domande così scandalose, poiché il solo pensarle rende le esperienze vissute effimere, insapori, sconfortanti. Questo perché la morte è grande, spaventosa, crudele, e il terrore primo di ogni essere umano è che sia pure tanto insaziabile, da fagocitare in un sol boccone tutte le esperienze e le sensazioni provate, soprattutto quelle associate alla “felicità”. Ecco che la vita si trasforma in una lunga e perpetua distrazione, un susseguirsi di impegni e progetti volti a disinnescare ogni singolo pensiero negativo, a riempire bulimicamente le giornate in modo da non ascoltare quella piccola vocina che nei momenti di quiete e di silenzio prolungati, sussurra “Perché fai tutto questo?” Il tempo, però, è inesorabile usura del percepibile, e a noi è dato comunque di sopravvivere solo fin quando la nostra forza è in grado di contrastare il divenire. L’appuntamento ultimo arriva anche se non lo si è mai preso in considerazione, e molto raramente lo si può segnare in agenda. Che fare, dunque? Quale atteggiamento avere nei confronti del tragico evento?
Mi chiedo quanto possa giovare all’uomo un atteggiamento di censura, ma allo stesso tempo non so se l’approccio opposto possa essere davvero preferibile. Meditare sul senso dell’esistenza, addentrarsi con il proprio fioco lume in quell’oscurità densa e impenetrabile, che risultati potrà mai dare? Dove mai potrà portare una riflessione che non potrà che concludersi con un “non lo so”? E soprattutto, questo interrogarsi porterebbe davvero a un’accettazione più serena del destino?
Arrivati a questo punto, è interessante porre la nostra attenzione su un personaggio non reale, nato dalla penna di Jack London: Darrell Standing, protagonista del romanzo The Star Rover. Questi è un assassino rinchiuso nel carcere di San Quentin, a seguito a una condanna all’ergastolo. A causa di macchinazioni e complotti all’interno della prigione, Standing viene prima messo in isolamento, successivamente condannato all’impiccagione.
Nel romanzo, il protagonista racconta la vicenda in prima persona, come fosse un libro di memorie scritto nei giorni immediatamente precedenti alla sua condanna a morte. Un libro di memorie, certo, ma non così convenzionali come ci si aspetterebbe. Di sé, infatti, il narratore non racconta altro che lo stretto indispensabile, concentrandosi piuttosto su una serie di esperienze molto particolari da lui vissute all’interno della cella di isolamento, nei momenti in cui è costretto alla tortura della camicia di forza. In questi momenti, infatti, Standing entra in uno stato di morte apparente, con una tecnica insegnatagli da un compagno di sventura, Ed Morrel, che dimora nella cella di isolamento accanto alla sua. In questo stato psico-fisico, Standing riesce a distaccare l’anima dal corpo, viaggiare nel tempo e rivivere episodi ed esperienze delle sue vite passate.
Il narratore apre la sua storia con queste considerazioni:
«Ho sempre avuto, nel corso della mia intera esistenza, la netta sensazione di aver vissuto in altri tempi e in altri luoghi, di avere addirittura ospitato in me altre persone. Ma, credimi, lo stesso vale anche per te che leggerai queste righe: torna con la mente alla tua fanciullezza, e rivivrai come tua l’esperienza di cui parlo. Eri, allora, qualcosa di instabile, di non ancora cristallizzato, di malleabile, eri un’anima in mutamento, una coscienza e un’identità che si andavano formando, proprio così, e che nel formarsi apprendevano anche a dimenticare».
Per avvalorare questa sua tesi iniziale, Standing fa riferimento ad esperienze oniriche comuni, come sognare di cadere da ampie altezze, o di trovarsi in luoghi mai realmente visitati, o di intrattenersi con persone mai veramente conosciute. Ecco, per il nostro, questi sarebbero tutti residui di esperienze vissute in altre vite, in altri mondi, che la nostra mente ha dimenticato ma che hanno parimenti lasciato segni importanti nel nostro spirito:
«Ebbene, queste visioni infantili erano segni di altri mondi, di altre vite, di cose che nella tua vita reale, in questo mondo reale, non avevi mai visto. Da dove venivano, allora? Da altre vite, da altri mondi?»
Darrell Standing non riesce ad avere reali esperienze delle sue vite passate, solo dei confusi déjà-vu, almeno fin quando non riesce a padroneggiare la tecnica della morte apparente, nel corso delle crudeli e sempre più frequenti torture inflittegli dai suoi aguzzini. Solo durante l’inflizione delle pene più estreme e mortali, Darrell riesce a rivivere esperienze passate nella loro completezza.
Standing diventa un vero e proprio sciamano, in grado di ricongiungersi, tramite esperienze oniriche estreme, con tutti i corpi materiali che la sua anima ha abitato fino a quel momento. Sin da giovane aveva avuto intuizioni, vaghi ricordi, ma niente di sistematico e definito. Si può dire che dimostrasse una certa disposizione alla trasmigrazione dell’anima, ma niente più. È nel momento in cui il carcere, per lui, diventa più duro, nel momento in cui il suo corpo viene mortificato da torture e portato a un passo dalla morte, che riesce a disciplinare e raffinare la sua arte. Egli segue, inconsciamente, l’antico rito di iniziazione di questi antichi sacerdoti: come ci testimoniano gli studi di Eliade e Dumézil, l’aspirante sciamano, come ultima prova, doveva mortificare il suo corpo fino al sacrificio estremo, ovvero la morte, per poi tornare in vita rinnovato nello spirito, dando così prova di sapere e saper padroneggiare le antiche arti magiche.
Insomma, Standing, dall’alto del suo nuovo potere, comincia addirittura a sfidare e irridere i suoi carcerieri, spronandoli a infliggergli pene sempre più dure, sedute di camicia di forza sempre più lunghe, digiuni sempre più serrati. Questo, perché vuole continuare a vagabondare tra le sue vite passate, noncurante oramai della sua. L’impiccagione non lo spaventa affatto, anzi, derubrica più volte l’evento quasi come una scocciatura momentanea. Più volte, infatti, il protagonista ribadisce il seguente concetto, che riportiamo dalla conclusione del romanzo:
«E ora concludo. Non posso fare altro che ripeterlo: la morte non esiste, la vita è spirito, e lo spirito non può morire. Solo la carne muore e transita, sempre rinnovandosi per il fermento chimico che la informa, sempre duttile, sempre cristallizzata, per fondersi nel flusso e poi cristallizzarsi in forme nuove e diverse, a loro volta effimere, destinate a fondersi ancora nel flusso. Solo lo spirito, nella sua ascesa verso la luce, resiste e continua a crescere su se stesso in virtù di successive e infinite incarnazioni. Che cosa sarò quando tornerò a vivere? Chissà. Chissà…»
Quali forze, quali assi sono smossi da queste frasi? Vi è il tentativo di intersecare l’eterno all’effimero, l’infinito all’età. L’anima immortale compie un viaggio verso la Luce, incarnandosi in sempre diverse forme di vita transitorie, che arricchiscono il flusso con le loro esperienze e l’avvicinano al traguardo. Il protagonista, pur essendo un colto professore universitario, è arrivato a queste considerazioni non certo dallo studio o dalla dialettica, bensì ispirato da esperienze extra-sensoriali vagamente misticheggianti. È l’abbandono di se, l’annullamento del suo intelletto – e non la sua affermazione – a eliminare nell’animo di Standing ogni timore per la morte. Nello studio del fatto, nella dissertazione, nel confronto, si annida il dubbio, l’incertezza, che sono l’anticamera dell’abbandono.
Spieghiamoci meglio. Le parole di Standing sono certamente ricche di fascino e attrazione, ma analizzandole più attentamente non possono non fare emergere alcune significative criticità. Anzitutto, da dove provengono questi spiriti immortali? Perché dovrebbero incarnarsi in esseri umani, per tendere alla luce? Quali esperienze giovano allo spirito, e quali no? Infine, cos’è quella luce alla quale tendono? Queste sono tutte domande che possono sorgere spontaneamente nella testa di chi non ha vissuto certe esperienze. L’impossibilità di sciogliere in maniera soddisfacente questi nodi in un breve lasso di tempo, fa sì che i più rinuncino ad affrontare l’argomento, etichettandolo come “troppo complesso” e “troppo cupo”, forse i due più grossi peccati di cui possa macchiarsi un pensiero, al giorno d’oggi.
Ora, il punto non è se le conclusioni che London fa pronunciare al suo personaggio siano veritiere o meno, e quali fondamenta teologiche esse abbiano. Ciò che qui interessa, è l’approccio mostrato nei confronti della sua imminente morte: non ha timore, perché è convinto di sapere cosa avverrà poi; non è spaventato, perché persuaso che non tutto finirà con un nodo scorsoio, e che gli avvenimenti che hanno caratterizzato la sua vita avranno senso per il “poi”. A modo suo, ha acquisito fede, e, pur forse non capendolo fino in fondo, ha intravisto un “disegno”. Proprio perché intuito, visto, toccato, tutto acquisisce quell’autenticità che nessun tomo può dare, che nessuno studio può offrire. Insomma, l’ultimo romanzo di Jack London pare cercare di suggerirci un approccio diverso, né rinunciatario, né intellettuale, alla morte. Un approccio antico, non certo rivoluzionario, che per secoli ha accompagnato e guidato lo scandire della vita umana, dal suo inizio alla sua fine. Accoglierla nuovamente come fatto ineludibile, tornare a contemplarla, talvolta, direttamente, senza speculazione alcuna, quasi attendendo che sia lei stessa, spontaneamente, in un moto di pietà, a far intuire una piccola parte del suo segreto… questo potrà bastare a rendere la morte meno spaventosa?
Nicolò Bindi