Come tutti, ho amato Il richiamo della foresta – l’ho letto nella versione Einaudi, nella traduzione di Gianni Celati. Non cercavo altro che precipitare nel bosco: ambivo a mutarmi in volpe, la mia crudeltà dilagava nella discrezione; mio padre mi aveva regalato un libro magnifico sul lupo artico. Una zia rovinò il peculiare idillio con Jack London dandomi a leggere, per obbligo, Zanna bianca. Ma io, allora, ero agli omerici e la frugalità di London mi parve sgrammaticata. In realtà, è proprio quella crudezza, quella forza tellurica a consegnarci London ancora autentico, carnale, un secolo dopo (muore nel 1916). Le sue opere sono continuamente ritradotte, i suoi libri hanno aperto ‘generi’ e fornito emblemi, un clima profetico e ‘sociale’; il cinema ne ha fatto razzia – devo dire che il Martin Eden secondo Pietro Marcello mi ha convinto. London è tornato tra noi con prepotenza, dopo l’evento cinematografico, in seguito a due episodi: uno editoriale, l’altro esistenziale. Il primo è il libro di Romana Petri, scrittrice assai attrezzata e apprezzata (ha ottenuto un Mondello, un SuperMondello e un Grinzane Cavour, tra i vari premi; ha fondato la casa editrice Cavallo di Ferro, ha tradotto, tra gli altri, il Premio Nobel Le Clézio e Adolfo Bioy Casares), Figlio del lupo (Mondadori, 2020) dedicato alla vita ‘da romanzo’ di London. Il libro non è un mero repertorio biografico, ha una struttura narrativa cinematografica, che interpreta con vivida tensione la vita e l’istinto di JL (“Gli scrittori americani, fino a quel momento, non avevano avuto il coraggio di arrivare all’anima delle cose. Con lo sguardo sul soffitto pensò che voleva una letteratura con poco profumo, ma molto odore di vita”). L’altro evento è il contagio. Come si sa, quel profeta di London azzecca il virus cannando di pochissimo il dettaglio della data: La peste scarlatta, romanzo breve pubblico nel 1912, intuisce la fine del mondo per contagio mortale nel 2013 (“Ci giunse voce che una strana malattia era scoppiata a New York… La notizia non fece scalpore. La cosa era circoscritta. C’erano stati solo pochi morti… Meno di ventiquattr’ore dopo si segnalava il primo caso a Chicago. E quello stesso giorno venne reso noto che Londra combatteva in segreto la peste da due settimane”). Per chi vuole, il libro è edito da Adelphi; la postfazione di Ottavio Fatica mette in fila i romanzi più interessanti della “tradizione post-apocalittica”, da Mary Shelley a Morselli e Cormac McCarthy (con esegesi estrema: “La peste segna la fine sempre incombente del gruppo, al suo interno la violenza si fa generalizzata, e ogni singolo si aggrappa con le unghie e con i denti alla propria presunta differenza – fino all’indifferenziazione… fino all’ecatombe”). Eppure, ho capito davvero London conoscendo un carcerato. Enzo Fontana. In gabbia in seguito ai deliri delittuosi della lotta armata, scrittore – Tra la perduta gente, Mondadori 1996; Il fuoco nuovo, Marietti 2006 – in una anomala, necessaria antologia, Mia linfa mio fuoco, edita da Guaraldi, Fontana parla del Vagabondo delle stelle di London in termini d’eccezionalità. “La lettura di questo libro che racconta delle molte vite di un prigioniero mi fece un gran bene, pur senza credere nella reincarnazione delle anime”, scrive Fontana. “Mi fece subito sognare, mentre ero prigioniero in una specie di incubo: una cella di isolamento a San Vittore, ‘ai topi’, come si diceva, sottoterra”. Con quel libro – “Negli anni delle rivolte penitenziarie fu quasi un volume proibito, perché Il vagabondo delle stelle è un uomo che nessuna prigione può trattenere” –, Fontana inaugura la sua ‘nuova vita’ nel gorgo della letteratura. Mi sembrò che tra stelle e foresta il richiamo fosse lo stesso e che in ogni uomo, in fondo, abiti la stessa bestia che anela, vaga, vaglia, va. Dialogare con Romana Petri fu inevitabile conseguenza. (d.b.)
Qual è l’episodio esemplare che a suo avviso racconta Jack London?
Forse non ce n’è proprio uno solo. London è una lunga serie di episodi esemplari. Io ne direi almeno due: è l’unico scrittore al mondo che ha capito di esserlo quando era ancora semianalfabeta. Aveva smesso di andare a scuola a dieci anni e tra i diciotto e i diciannove si rende conto che sarebbe stato non uno scrittore, ma addirittura uno dei più grandi d’America. Il secondo è la separazione dalla prima moglie Bessie. Non poteva muoversi peggio di come ha fatto. L’uomo dei grandi orizzonti, del coraggio estremo, il leggendario e avventuroso London, quello dal cazzotto facile, cadde miseramente quando decise di lasciare la moglie. Fece un pasticcio enorme, ebbe paura. Insomma, quella fu l’unica occasione della sua vita in cui fu un uomo come gli altri.
Che cosa la ha sorpresa scavando nella vita di London, quale evento le è caduto addosso, inatteso?
Leggo e studio London da talmente tanti anni che conoscevo già perfettamente tutta la sua vita. Posso però dire che sempre mi colpiscono le struggenti lettere che scrisse nella sua vita ad Anna Strunsky. La fascinosa russa, la socialista e intellettuale della quale si innamorò a prima vista e che fu sempre, come tutti gli amori mancati, la sua ossessione fino all’ultimo dei suoi giorni. Lettere meravigliose, non di manifesto amore, ma lettere che scavavano nel suo tormento sentimentale. Prendimi così, come un ospite randagio, un uccello di passaggio che con le sue ali salate plana per un istante sulla tua vita. Nella vita di quella donna si sentì sempre e solo transitorio.
La vita di London, “figlio del lupo” – che era poi l’epiteto di Gengis Khan – è costellato da donne, non tutte “lupo”. Quale di queste figure è stata determinante per lo scrittore, per l’avventuriero?
Sicuramente sua madre Flora, la spiritista. Donna anche lei misteriosa, che raccontava tante versioni del suo passato. Una madre brusca ma innamorata del figlio. Che è stata capace di sostenerlo nel suo sogno di diventare uno scrittore anche se facevano la fame. Fu lei a dirgli di non lavorare e dedicarsi solo alla scrittura. Ma lei parlava con i defunti. Gliel’avevano detto loro che Jack sarebbe diventato un grande scrittore. E lei non ne aveva mai dubitato. Nemmeno per un solo istante.
London è anche profeta. Nei suoi libri ha anticipato i cambiamenti della società, nella “Peste scarlatta” pare dire il tempo dominato dal virus. Da dove viene questa ‘veggenza’ a suo avviso?
Sì, il “morbo rosso”, ambientato addirittura nel 2073. Lui era un veggente del passato come del futuro. Pensiamo anche a Prima di Adamo e al Tallone di Ferro. Era apocalittico e visionario. Questa idea dell’annientamento del mondo gli veniva anche dal profondo sentire che il mondo fosse ingiusto. Diceva che l’uomo delle caverne era più libero dell’uomo moderno ridotto a nulla nelle fabbriche. Che il primitivo aveva il tempo del riposo negato a chi veniva sfruttato. Aveva il dono di allungare un braccio e prendere un brandello della primitività perduta per poi clonarla e regalarla ai suoi lettori.
London rappresenta una idea di scrittura, di scrittore, in modo abbastanza radicale. Qual è la sua? Perché si scrive, insomma?
Io scrivo in modo abbastanza fluviale. Molto. Fa parte della mia vita quotidiana. La scrittura non è certo un mestiere sano perché prende molte ore del giorno. Del resto, anche quando faccio altro, se sto scrivendo qualcosa la mia testa resta lì anche mentre cammino per la strada o faccio la pesa, o cucino, o stendo i panni. È una vita un po’ binaria, un po’ borderline. Si vive piuttosto scissi. Vivi la vita reale mentre nella testa ti stai raccontando una storia. Mi succede spesso di dovermi fermare per prendere un appunto, fermare un’idea. Mi succede anche a cena con gli amici, mentre vedo un film. Lo scrittore dedica la sua vita a questo vizio di dominare le parole.
Mi dica: a) il libro di London che più ha inciso nella sua vita; b) quello che più ha influenzato la sua scrittura; c) quello che consiglierebbe a un adolescente, per svezzarlo al mondo.
Allora, direi Lupo dei mari perché i due protagonisti rappresentano ognuno un lato di London: quello evoluto e quello feroce. Ogni volta che ne leggo qualche brano sento fortissima la pericolosa fusione di questi due uomini. Mi ha influenzata molto Il vagabondo delle stelle perché al talento di London ci aggiungo sempre la bella voce di mio padre Mario Petri (famoso cantante lirico) che me lo raccontava e interpretava. L’idea delle “piccole morti”, quell’andare in astrale per abbandonare i dolori del corpo e liberare altrove l’anima. A un adolescente devo consigliare per forza Il richiamo della foresta, perché con quel libro London ci insegna l’arte dell’adattamento ai cambiamenti della vita, ci fa capire come siano più naturali in un animale. Buck era un antesignano videogioco. Non dimentichiamo che era un meticcio di San Bernardo, ma nel momento in cui fa il salto per entrare definitivamente nella foresta, anche il suo aspetto cambia per trasformarsi in quello di un lupo. È il libro dell’ancestralità.
*In copertina: Jack e Charmian London alle Hawaii