Calvino 1. Il terrore della vita
Le Lezioni americane sono considerate il testamento di Italo Calvino. Scritte nel 1985 in previsione di un seminario a Harvard, non furono mai pronunciate e si bloccarono sulla soglia della sesta lezione, Consistency, incompiuta. Nonostante il brio, la brillantezza e la trasudante sapienza narrativa, esse sono il testamento di un uomo che ha paura. Di uno scrittore terrorizzato dalla vita e dalla carne e che credeva che la letteratura potesse essere un efficace cauterizzante, in grado di evirare il dolore, di addomesticare la bestialità dell’esistenza. Calvino è come un alchimista sulle mura di una città ora in disuso, le cui cattedrali sono tende rocciose, opifici di gatti, virtuose varianti marmoree frequentate dai topi. Ed egli, lo scrittore alchimista, pensa ancora che le sue parole possano dar vita ai morti, dar forma al deperito, redimere il disastro. Per questo la lettura delle Lezioni americane ha la felicità delle cose malinconiche: Calvino impalca una lista di educate banalità, di concetti colti e dimostrabili, che ciascuna persona di retto giudizio giudica ineccepibili. Come di una statua marmo non si può dire né bene né male, si dice che è bella. Ma non sanguina.
Ma dopo Calvino, la voragine è accaduta, non esiste neppure una città invisibile in cui depositare despotici sogni. “La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare con i suoi mezzi specifici”, scrive Calvino. Ma cosa sappia dare oltre a una lieta consolazione Calvino non lo dice. E ormai questa fiducia è svaporata. Lo era già in quel calviniano tempo, a dire la verità. In quello stesso 1985 Giovanni Raboni, figura di eguale eminenza per la storia editoriale italiana, decide di abbandonare la collaborazione intensiva con la più importante casa editrice del Paese perché “negli attuali programmi della Mondadori, la scarsissima presenza di un lavoro di ricerca e valorizzazione di nuovi autori, sia nel campo della poesia che in quello della narrativa, mi rendono praticamente impossibile fare l’unica cosa che so davvero fare: proporre, e aiutare a scegliere, libri non ovvii, libri nuovi, libri letterariamente credibili”.
Per questo, le nuove Lezioni non dovranno più dare forma alla letteratura, ma alla vita. La preminenza più che al testo letterario, ormai, dev’essere data all’esistenza umana.
*
Calvino 2. Sei proposte per l’uomo
Leggerezza=Rettitudine “Io ero andato da lui per imparare a vivere, non per imparare a scrivere”, così Varlam Salamov ricorda il suo bisogno di incontrare Boris Pasternak, scampato a quasi vent’anni di prigionia nei Gulag. Non esiste grande scrittura che non racconti un grande uomo – che, per lo meno, non lo preveda, non tenda ad esso. Delle ragioni etiche rettilinee guidano l’opera d’arte di un uomo: che non dona indicazioni morali, ma indignate verità, trame di scandalo, tracce incestuose. Mette a nudo il male, e questo sacrificio è possibile solo alla luce di una scelta, di una monastica e indifesa regola.
Rapidità=Assedio “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutto, e io più di tutti gli altri”, sussurra, morente, il diciottenne Markel, fratello del fatidico Zosima che Dostoevskij tratteggia, monolite etico, nei Fratelli Karamazov. In punto di morte o sulla soglia della follia, assediati da una crisi devastante, gli uomini di Dostoevskij scoprono delle verità universali. “Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui. Non esiste un peccato individuale”: così il monaco Tichon sconfigge la voluttà meschina di Stavrogin, il malvagio assoluto dei Demoni. In ogni suo libro Dostoevskij precisa la medesima intuizione: si vive compiutamente soltanto facendoci carico dei peccati altrui, consoffrendoli, redimendoli. Uno scrittore ci assedia con le sue ossessioni, come acqua che blocca i nostri gesti, invade le narici, infine gli occhi. Sommersi, impariamo a respirare diversamente: la letteratura ci impone di far evolvere i polmoni in branchie.
Esattezza=Ferocia “Da un certo punto in poi non c’è più ritorno: è questo il punto da raggiungere”, scrive Kafka in uno dei suoi aforismi. La letteratura non crea un nuovo mondo, esplora i lati oscuri di questo. Un lavoro di martirio e di scavo, esplorando il male, l’orrore, per disarmarlo. Dopo aver compiuto Moby Dick, Herman Melville scrive a Nathaniel Hawthorne, il suo amico e confessore, “ho scritto un libro perverso, e mi sento immacolato come un agnello”. In una lettera precedente, tramortito dallo sconforto, Melville biascica, “quel che più mi sento spinto a scrivere è bandito – non rende un soldo”, ed è convinto che “alla fine mi consumerò e perirò”. L’arte ha ragioni che evadono dalla ragionevolezza umana: e pretende la vita dell’artista. In questa ferocia è il sacrificio: lo scrittore santifica, rende sacra la sua opera, spende la propria vita per la salvezza del lettore – l’unico che potrà assolverlo.
Visibilità=Pudore In un romanzo ciò che è celato è importante quanto ciò che è svelato. La scrittura designa le ombre: la vera forma dello scritto la offre il vuoto, ciò che l’autore ha volutamente nascosto. Per questo una scrittura si realizza soltanto se esiste un lettore. “Dico e ridico e non dico niente” è la formula che sigilla l’immane diario di Veronica Giuliani: la sua esperienza di dire Dio culminava nel nulla. La sfida di ogni scrittore è sempre quella di trovare parole per esprimere l’indicibile, ciò che nessun aggettivo può circoscrivere e circuire. Secondo una tradizione midrashica (ripresa da Borges, un autore amato da Calvino), prima di fondare il creato, Dio lo ha scritto, nel Testo ultrasacro per gli ebrei. E in effetti, sostituendosi a Dio, sopraffacendolo per qualità e validità estetica, lo scrittore vuole riscrivere la Bibbia. Il pudore cela l’orgoglio più smisurato possibile.
Molteplicità=Assoluto “Non sono certo un giorno di avere il coraggio di suicidarmi. So soltanto che la natura non mi è mai apparsa così bella. Riderai di questa contraddizione tra amore per la bellezza della natura e desiderio di morte. Ma la natura mi appare così splendida proprio perché sono gli estremi sguardi che le rivolgo”, scrive in Memorandum per un vecchio amico lo scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa. Uccidendosi due giorni dopo aver redatto queste parole, così suggellandone la veridicità estetica. Lo scrittore attraversa il molto, il molteplice, per approdare all’uno, all’univoco. A descrivere le cose come se le vedesse per l’ultima volta – e dunque la prima. Rarefatte, pure, provenienti dall’Eden. Tanto belle da non aver necessità di resurrezione.
Consistency=Costanza C’è una sesta lezione appena abbozzata da Calvino. Intitolata “Consistency”, probabilmente aveva come oggetto la “consistenza”, o meglio, l’“armonia” che deve legare l’opera artistica. Preferisco la parola costanza. Che è, poi, insistenza, ossessione, fede. In cosa ha fede lo scrittore? Nell’uomo e nella sua colpa. Nel suo desiderio di conversione e nel suo perseverare nel male. Calvino si è laureato sull’opera di Joseph Conrad. Il quale, annunciando i suoi racconti più belli, nel libro Youth and other stories, storpia volutamente così una frase dei fratelli Grimm: “qualcosa di umano è più caro per me di tutte le ricchezze del mondo”.
*
Calvino 3. La settima lezione: Autenticità
Il mondo di Calvino non esiste più. Ormai l’unico metro capace di valutare la grandezza di un’opera letteraria è il mercato, il numero di copie vendute: con il rischio – evidente nella top ten dei libri preferiti dai lettori-compratori – che Concita De Gregorio sia ritenuta superiore a Dostoevskij e Camilleri meglio di Proust. Non basta più un buon libro per fare uno scrittore: sono necessarie scelte esclusive ed estreme. E forse una attitudine alla lotta e al martirio, in un tempo che silenzia nell’indifferenza le grandi opere: meglio allora i totalitarismi, che avevano terrore dei poeti, costringendoli nei campi di sterminio o alla fucilazione. La settima lezione, che Calvino non avrebbe mai potuto scrivere, è allora Autenticità. Quando un’opera è autentica? Quando il proprio autore la ha sofferta. Fino al punto di morte. Fino al punto massimo di disperazione. Questa situazione è stata descritta da George Orwell in uno dei romanzi più celebri del secolo scorso, 1984: Winston Smith sente l’esigenza di scrivere un diario, perché la scrittura è sempre un gesto di libertà e di ribellione al potere, di qualsiasi foggia esso sia. “Si chiese ancora per chi stava scrivendo il diario. Per il futuro, per il passato… per un’epoca che avrebbe potuto essere del tutto immaginaria. Era un solitario fantasma che proclamava una verità che nessuno avrebbe mai udita. Ma per tutto il tempo impiegato a proclamarla, in un qualche misterioso modo la continuità non sarebbe stata interrotta”. Non importa neppure che qualcuno legga le parole di Winston, necessario è testimoniare una differenza. A mo’ di esempio alcuni capolavori del secolo scorso sono sorti quando i loro autori pensavano che nessuno le avrebbe mai potute leggere: La morte di Virgilio di Hermann Broch (lo testimonia l’autore, in una lettera del 1946: “lo ‘scrivere’ doveva unicamente servire come mezzo di chiarificazione; era dunque un atto del tutto privato, che nulla più aveva da spartire con la convinzione di star scrivendo un’opera d’arte o con il pensiero della sua pubblicazione, a parte poi il fatto che per motivi estrinseci – Hitler – non vedevo più possibilità di pubblicare”, in una tragica, mistica consonanza con l’eroe in negativo di Orwell), Vita e destino di Vasilij Grossman, sequestrato dal Kgb ed edito in Svizzera, clandestinamente, sedici anni dopo la morte del proprio autore. “L’autenticità: questa sarà la forza della letteratura del futuro”, scrive Varlam Salamov in uno dei Racconti della Kolyma, che sarà costretto ad abiurare pubblicamente, manco fosse un Galilei in una nuova, pindarica e più violenta Inquisizione, nel 1972. Autentico vuol dire incarnato, incardinato, impellicciato sullo scrittore, fino a scorticarlo, finché egli, dopo aver scritto, si risolva, immemore, a non scrivere più. “Ingrid ha pianto brevemente e violentemente, e ci siamo abbracciati. Io ho ancora lei e lei ha ancora me. Ingrid c’è. È la stessa Ingrid, e la sua volontà è assolutamente intatta. Qualsiasi cosa succeda. Qualsiasi cosa ci attenda. Non ci sono parole”, sono le parole di Ingmar Bergman, intagliate sul corpo della moglie, Ingrid von Rosen, dopo il primo ciclo di chemioterapia per arginare un tumore che invece la vincerà. Nel diario di Bergman, di cui non prevedeva la pubblicazione, è narrata la storia di un corpo che è straziato dalla sofferenza di un corpo che gli è familiare, che ritiene unico. Un commovente tentativo di immortalità. Tra le poesie di Jurij Zivago, in appendice al libro che Boris Pasternak non avrebbe mai pensato che potesse essere pubblico e che gli costò l’esilio intellettuale dal mondo degli scrittori russi, la più bella s’intitola Congedo. “Io non so tracciare un segno/ di confine tra te e me”, scrive il poeta, “ed ecco che non m’importa/ che il mondo abbia un cuore di pietra”. “Perché, chi siamo e di dove,/ noi due già morti al mondo,/ quando son solo le chiacchiere/ quel che resta di questi anni?”. Così, con le parole, i corpi sopravvivono, più dei secoli e del nulla, rendono possibile l’amore. (d.b.)