Gadda contro tutti. Virtuosismo linguistico vs. “lingua dell’uso piccolo-borghese”
Libri
Alessio Magaddino
Ci sono luoghi ignifughi all’uomo, impeccabili nella loro solitudine. L’isola di Wrangel è dal 2004 patrimonio naturale Unesco: “vanta la più grande popolazione mondiale di trichechi del Pacifico, la più alta densità di tane di orsi polari ancestrali”, vi nidificano “100 specie di uccelli migratori, molte delle quali in via di estinzione”. Il fatto di non avere subito la glaciazione durante il Quaternario, si legge nella scheda che ne giustifica il pregio, “ha concesso livelli eccezionalmente alti di biodiversità”. L’isola di Wrangel è nell’estremo nord russo, sopra il Circolo Polare Artico: a 150 chilometri dalla terraferma, guarda, per così dire, l’Alaska. Pressoché inaccessibile, l’isola di Wrangler è stata chiamata così per un gesto di gratitudine: il maestro baleniere Thomas W. Long, statunitense, attraccò lì nel 1867, durante una formidabile battuta di caccia; il barone Ferdinand von Wrangel, esploratore della marina imperiale russa, governatore dei possedimenti coloniali russi in Alaska era il suo eroe. “È un tributo alla memoria di un uomo che ha conosciuto meglio di altri l’oceano polare”, aveva dichiarato il baleniere Long: morì, in un giorno imprecisato, nel mare di Laptev, nella Siberia Orientale.
È curioso: identificata da un americano, intitolata a un russo, l’isola di Wrangel fu al centro, per decenni, di contenziosi geografici e maneggi geopolitici. Assoluta nel suo isolamento, ruvida, ostile alla proliferazione umana, l’isola si sviluppa in 150 chilometri di lunghezza e 80 di larghezza, la roccia più alta – ribattezzata “Pietra Sovietica” dai russi, gli americani l’avevano intitolata all’esploratore Robert M. Berry – supera di poco i mille metri. Le fotografie pubblicate nel sito specifico dell’Unesco dicono di un luogo mirabile per brutalità: dagli acquitrini si diramano nebbie ipnotiche, l’opera dei prati ha valore onirico: l’estate più calda di sempre ha toccato i 18 gradi, d’inverno sono normali i -25.
Sia chiaro, l’eccellenza naturalistica interessa i poeti, i sognatori, i vagabondi. L’isola di Wrangel fa parte della Čukotka, estrema regione russa, “ricchissima di materie prime, oro e rame in particolare”, da dove è cominciata l’epopea di Roman Abramovič, che ha governato quella regione fino al 2008 (sulla guerra geopolitica nel grande Nord bisogna leggere Artico, il libro edito da Neri Pozza, firmato da Marzio G. Mian, che di recente ha realizzato un reportage proprio in Čukotka). Dagli anni Sessanta l’Unione Sovietica impianta stazioni radar e basi aeree per azioni di difesa e contrattacco: la prossimità con l’Alaska rende quello sperone glaciale un luogo decisivo. Le volpi artiche, emblema dell’evanescenza e dell’eversione, osservano con schifiltosa indifferenza: questo luogo fuori dal tempo, arcano e fiero, non desidera essere una didattica didascalia della Storia, l’appendice di disastrose bagarre umane, troppo umane.
John Muir, il grande naturalista scozzese trapiantato in America, arrivò sulla Wrangel nel 1881, al seguito di una spedizione statunitense partita, in apparenza, per portare soccorso ai marinai della “Jeannette”, capitanati da George W. DeLong. La compagine di DeLong, ipnotizzata dalla scoperta di nuove rotte commerciali intorno al Polo – esattamente come oggi – fu respinta e stritolata dai ghiacci. John Muir, che aveva attraversato l’Alaska in canoa, descrisse quel lembo di mondo in un libro di frugale bellezza, The Cruise of the Corwin, definendolo the Land of the White Bear, la terra dell’orso bianco. “Poi la nebbia ricominciò a posarsi su quel paesaggio selvaggio; il barometro si abbassa mentre la brezza, rigida, comincia a smuovere il ghiaccio. Non abbiamo osato avventurarci oltre…”. Il diario di Muir – che le edizioni Magog hanno tradotto per la prima volta in Italia come Wrangel. Avventure siberiane, 2023 –, di fatto, è il regesto di un’avventura impressionante, trapuntato di meticolose osservazioni, di excursus sulle tradizioni eschimesi:
“A volte adornano le loro cinture con artigli di orso e depongono i teschi delle bestie sulle tombe degli uomini che li hanno uccisi. Ne ho visti diciotto intorno allo scheletro di un cacciatore eschimese: formavano un recinto ovale, a tutela della tomba. La forza dell’orso polare è proporzionata alla massa dei suoi arti: i muscoli, gonfi, in nodi intrecciati, non possono non suscitare meraviglia”.
La relazione di Muir convinse gli americani, che avevano acquistato l’Alaska dalla Russia poco più di dieci anni prima, ad accampare pretese su quello sperone; nel 1916 l’impero zarista, dopo aver bandito una spedizione nell’oceano artico, ne ribadì la proprietà.
La vera grande impresa sul suolo della Wrangel, tuttavia, accadde un secolo fa. Come appendice della Canadian Arctic Expedition, l’esploratore canadese Vilhjalmur Stefansson finanziò una vera e propria conquista dell’isola di Wrangel. Furono inviati tre marinai americani, un esploratore canadese, Allan Crawford, e una donna inuit, Ada Blackjack, con mansioni di sarta e di cuoca. C’era anche un gatto. Il gruppo arrivò sulla Wrangel nel settembre del 1921: i coloni avrebbero garantito l’isola al Canada e all’Impero britannico. In realtà, l’isola respinse i suoi abitanti: terminate le scorte, il gruppo non riuscì a procurarsi del cibo; la caccia non forniva viveri a sufficienza. Nel 1922 furono organizzate operazioni di soccorso dal Canada e dagli Usa, infine inutili; l’anno dopo gli avventurieri sfidano l’oceano per sbarcare in Siberia: il grande Nord, letteralmente, li divora. Ada, che in ebraico significa “adornare” ma che per Vladimir Nabokov è figura dell’ardore, restò sull’isola ad accudire uno dei marinai, straziato dallo scorbuto, che morirà, dopo poco. Il gatto, che paradosso, si chiamava Victoria: fu l’unica compagnia di Ada. Dicono sapesse parlare alle volpi: maritata a sedici anni, divorziata, era, per la società del suo tempo, una donna senza patria, senza valore. L’isola di Wrangel, letale, le obbedì: la trovarono, dopo otto mesi, sopravvissuta a condizioni estreme, nel tardo agosto del 1923. I giornali urlarono alla “Robinson Crusoe donna”. Refrattaria alle dinamiche della fama, Ada usò i soldi del governo per curare il figlio, malato di tubercolosi, a Seattle: gli altri due le erano morti, anni prima. Ritornò in Alaska, infine: amava quel bianco, rude, e morì a 85 anni, ignara di chi scriveva romanzi intorno alla sua epopea.
Nel 1924, intanto, i sovietici avevano espulso dalla Wrangel una banda di tredici Inuit inviati dagli americani a colonizzare l’isola, punta estrema di un vasto piano – infruttuoso – di sollevare l’Artico contro i bolscevichi.
Chissà, forse alcune zone del mondo dovrebbero restare prive di pretendenti, in granitica autonomia. I Čukči chiamano la Wrangel l’“Isola Invisibile”: secondo il mito, il padre fondatore del clan si sarebbe allontanato, in cammino, su un tappeto di ghiaccio che univa la Čukotka alla Wrangel. Lì si sarebbe voltato in orso. Diversamente da altre parti del pianeta, sull’isola di Wrangel il mammut è resistito più a lungo, quel luogo pare il suo Eden. L’uomo vi ha messo piede quasi 4mila anni fa: chissà da quale incanto era sedotto, senza cautela, per scotennare chissà quale dio, e poi incarnarlo in un canto, in un poema, in una imprecazione.
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Il Villaggio dei Morti
Piroscafo Corwin,
East Cape, Siberia, 1 luglio 1881
Procedendo verso sud a vapore e a vela, abbiamo raggiunto East Cape alle sette del mattino, ieri. Il vento soffiava così forte da rendere bianco il mare e da riempire l’aria di schiuma. Abbiamo trovato un buon ancoraggio dietro alla parte più alta di East Cape, di fronte a un grande insediamento di Ciukci. East Cape è un promontorio di granito molto possente alto quasi 610 metri: ero impaziente di sbarcare e scalarlo quanto più in alto possibile, per essere certo dell’andamento di creste e scanalature, e per cercare incisioni, superfici in rilievo, ecc. Ma l’ululante vento del nord ha soffiato tutto il giorno, placandosi solo alle undici di ieri notte.
Questa mattina io e il signor Nelson siamo scesi a terra per compiere una perlustrazione. Il villaggio è composto da una cinquantina di capanne costruite su piccole morene rocciose: è così piantato nella superficie della collina che a distanza non è più visibile di un gruppo di tane di marmotte. La porzione inferiore dei muri delle capanne è fatta di massi morenici, mentre quella superiore e il tetto curvo a forma di alveare sono in legname e costole di balena, attaccati e coperti da pelli di tricheco o terriccio.
Durante l’inverno si accede alle capanne da un tunnel sotterraneo, in modo da evitare quanto possibile l’aria gelida. Il pavimento è costituito da semplice terreno mischiato a un qualcosa di nero e peloso. Occasionalmente vengono accesi dei fuochi al centro del pavimento per cucinare quel poco che i nativi non mangiano crudo. Appoggiati sugli scaffali o appesi in maniera confusa al soffitto, si trovano arpioni dalla punta d’avorio, frecce, reti per le foche, borse d’olio, pezzi di carne di foca o tricheco, strisce di grasso e pelle di balena. Ogni capanna possiede dall’una alle tre o quattro camere lussuose, con muri, soffitti e pavimenti cosparsi di pelle di renna. Il polog è illuminato e riscaldato da un trogolo pieno d’olio. Dopo aver cacciato tutto il giorno sul ghiaccio, viaggiando in lungo e in largo in tempeste rigide, il cacciatore Ciukci infagottato e affamato entra nella sua tana, si sazia con olio e carne di foca o balena, per poi spogliarsi nudo e stendersi nell’agio più glorioso del suo nido chiuso di pellicce, il suo polog, per fumare e dormire.
Ero ansioso di raggiungere la cima della penisola per studiarne le caratteristiche glaciali e la struttura delle rocce. Mi sono mosso attraverso il villaggio verso il valico tra la montagna del nord e quella del sud. Sono stato seguito da una folla di ragazzini curiosi che, con indole radiosa, mi assistevano quando mi fermavo a raccogliere fiori appena sbocciati.
Il signor Nelson mi ha presto abbandonato per inseguire una particolare specie di uccelli: attraversando il promontorio roccioso per raggiungermi di nuovo, si è imbattuto in un altro tipo di selvaggina. Si trattava di nativi morti, sparsi tra le rocce di uno dei cimiteri del villaggio. I corpi dei defunti, con gli oggetti che hanno punteggiato la loro esistenza terrena, sono semplicemente stesi sulla superficie del terreno, così da rendere il cimitero un ottimo punto per lo sciacallaggio: un sacco di arpioni d’avorio, frecce, piatti d’ogni tipo e martelli di roccia a formare un bottino terrificante. Lasciando il signor Nelson alla sua gloria, mi sono spinto verso la cima del displuvio per percorrerlo verso ovest, verso la punta più alta della penisola, da dove ho goduto della vista che ho cercato così a lungo.
Ho avvistato un gufo artico, enorme e coperto di neve, accucciato nella sua tana; e poi zigoli delle nevi e fanelli. Quando i nativi hanno visto il signor Nelson tornare senza di me lo hanno accusato di avermi ucciso.
Sulla via lungo la costa, ho attraversato un altro dei cimiteri del villaggio, situato su una pendenza ruvida e scoscesa fatta di granito deteriorato dalle intemperie, diversi metri sopra il villaggio, ma più a ovest rispetto a questo. Scheletri interi, ossa e crani giacevano qua e là, incastrati in posizioni casuali tra le rocce, deteriorandosi e frantumandosi così come gli arpioni dalla punta d’avorio, le frecce, ecc., sparsi tra loro. Anche la montagna su cui giacevano si stava sgretolando: polvere su polvere. Sopra alcuni corpi, pietre impilate l’una sull’altra, e poi, ancora sopra, i loro averi.
Il selvaggio vento del nord, soffiando lungo le pendenze e le cime innevate della penisola, creava una magnifica coperta di cristalli bianchi ghiacciati sopra il lato dei massi scoperti e, talvolta, anche sulla neve. I cristalli, seppur solidi e ghiacciati, ricordano delle piume bianche conficcate in maniera uniforme e aggraziata l’una sull’altra. Le superfici ruvide delle rocce ne erano piene, parevano uccelli ricoperti di penne.
Le montagne esposte alla tempesta sono rivestite di questa bellezza, oltre ogni misura. Allo stesso modo, anche gli uomini vengono arricchiti dalle tempeste e dal dolore, che sembra distruggerli e porta rovina, nel mondo fisico come in quello morale.
John Muir