Il giardino sfoggia tutti i colori di giugno – azzurro, verde chiaro e rosa. Ho perso la mia stilografica. E ho ben altre preoccupazioni, come la minaccia del campo di concentramento, lo statuto degli ebrei, ecc.
Dai taccuini di Irène Némirovsky, 25 giugno 1941
Nel capitolo 10 de La vita di Irène Némirovsky, edito da Adelphi nel 2009, leggiamo che il primo accenno al villaggio agricolo Issy-l’Évêque, in Borgogna, dove la scrittrice va a rifugiarsi nell’imminenza dell’invasione nazista, compare nei taccuini il 25 aprile 1938. «Ritorno a Issy-l’Évêque. Quattro giorni di felicità. Cosa volere di più? Ringrazio Dio di questo e spero». Ma tre anni dopo, in piena guerra e col regime collaborazionista che serra la morsa, le preoccupazioni diventano enormi: se la internassero in un campo come ebrea, chi si prenderebbe cura della figlia Denise? E a chi spiegare cosa Babet non può mangiare per via degli attacchi di enterite? È per questo che la Némirovsky scrive a Julie Dumot, a Marmande, depositando una somma di denaro presso il notaio del paese e indicandola come potenziale tutrice delle figlie:
“…Quando i soldi saranno finiti, vendete prima le pellicce che troverete nelle nostre valigie e che certamente riconoscerete… Ci sono anche diverse stoffe, tutte sgraffignate in quai de Passy. Se possibile, conservate lo zibellino, c’è anche dell’argenteria. Vendetela dopo le pellicce e prima dei gioielli. Infine, in caso di estrema necessità, troverete da Loctin il manoscritto di un romanzo che forse non avrò il tempo di finire e che si intitola Tempête en juin”.
Tempesta in giugno: proprio quest’anno l’editore Adelphi ha dato alle stampe la “seconda versione” di quel romanzo, già pubblicato nel 2005 come prima parte del capolavoro intitolato Suite francese (da cui il film diretto da Saul Dibb nel 2014, con Michelle Williams e Kristin Scott Thomas). Nella copertina campeggia un dipinto di Félix Vallotton del 1910, Il vento, dove le chiome di alberi e arbusti si piegano sferzate dall’aria che corre violenta, come l’attacco tedesco sferrato alla Francia nel maggio 1940, che spinse verso le aree di provincia torme di sfollati in fuga da Parigi. La versione è quella dattiloscritta dal marito Michel Epstein e da lei corretta a mano, con l’aggiunta di quattro capitoli e altri rimaneggiamenti: documenti che erano conservati dalla figlia e riscoperti dopo anni, quando la Némirovsky era ormai tornata alla fama con trentotto traduzioni nel mondo e milioni di copie vendute.
Tempesta in giugno costituisce il primo “movimento” di quello che era stato pensato come un “Poema sinfonico” in cinque parti, di cui si sono realizzate solo le prime due, contenute in Suite Francese. Le parti seguenti avrebbero dovuto intitolarsi Captivité, Batailles, La Paix, di cui esistono solo abbozzi: il progetto era grandioso, ma la vita della Némirovsky, com’è noto, venne troncata dalla deportazione nazista. A causa delle leggi antisemite varate dal governo collaborazionista francese, il marito non poté più lavorare in banca e a Irène fu proibito pubblicare articoli e scritti di qualsiasi tipo. È proprio a Issy-l’Évêque, dove avevano messo al sicuro le figlie, che lei sviluppa il progetto. Il 12 giugno 1942, poco prima del suo arresto, la Némirovsky sente di non aver più tempo, ma continua a redigere i suoi appunti per la stesura dei romanzi. Queste le sue annotazioni:
“Il libro in sé deve dare l’impressione di essere semplicemente un episodio… com’è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque… ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico… collegamenti delle parti fra loro. Tempête, Dolce, dolcezza e tragedia. Captivité? Qualcosa di smorzato, di soffocato, il più possibile cattivo. Dopo non so. L’importante – i rapporti fra le diverse parti dell’opera. Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall’altra dell’armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile”.
E in lei lo stile c’è, personalissimo e moderno, fatto per scene, con una tecnica di montaggio cinematografico che tiene incollate sia le storie che s’incrociano sia il lettore, il quale non sente nessuna voglia di fermarsi. Una narrazione in apparente “presa diretta” di ciò che accade, come se l’autrice ne fosse stata protagonista, mentre in realtà è la sapiente ricostruzione di fatti già avvenuti: una catastrofe improvvisa, che taglia l’esistenza delle persone smascherandone la natura, con le mediocrità, le ipocrisie, gli opportunismi, ma anche il realismo solidale e la nobiltà d’animo che emergono nei migliori. Un’opera corale novecentesca che lascia il segno, con gli psicodrammi scaturiti dalla minaccia feroce della guerra e dall’incertezza sul futuro, dal desiderio di rivalsa contro il nemico comune e dalla corsa verso qualsiasi forma di salvezza.
Irène viene arrestata come ebrea dalla guardia nazionale francese il 13 luglio e trasferita a Toulon-sur-Arroux, dove rimane imprigionata per due notti: “Amore mio, al momento sono seduta alla gendarmeria dove ho mangiato ribes in attesa che vengano a prendermi. Soprattutto, stai tranquillo, sono certa che sarà questione di poco (…) Copri di baci le mie bambine adorate, e che la mia Denise faccia sempre la brava… Ti stringo forte sul cuore insieme con Babet, che il buon Dio vi protegga. Quanto a me, mi sento calma e forte. Se poteste mandarmi qualcosa, credo che il secondo paio di occhiali sia rimasto nell’altra valigia (nel portafoglio). Anche libri, per favore, e se possibile anche un po’ di burro salato”, riesce a scrivere al marito. Il 15 luglio viene portata al campo di raccolta di Pithiviers (“Mi raccomando, non prendertela. Le cose si sistemeranno, amore mio. Un bacio a te e alle bambine con tutta l’anima, con tutto il mio affetto”) e il giorno seguente spedita a Auschwitz, dove muore di tifo un mese dopo. Michel Epstein si consuma nell’angoscia e fa di tutto per farla liberare, ma è costretto a farsi arrestare a sua volta nell’ottobre del ’42, sperando di poterla ritrovare: deportato ad Auschwitz assieme alla sorella, finisce direttamente nelle camere a gas.
In Tempesta in giugno i parigini, con l’incombere delle truppe naziste sulla capitale, si danno alla fuga con figli, vecchi, malati, con materassi e suppellettili caricati su automezzi di ogni tipo. Abbiamo una specie di affresco che offre uno spaccato sociale fatto di persone, paure, disavventure, meschinità, egoismi e solidarietà di diverse classi: la famiglia Péricand, altoborghese e imparentata con altre famiglie di notabili; lo scrittore Gabriel Corte, accademico di Francia, spocchioso e vilmente ipocrita; Charlie Langelet, benestante sessantenne scapolo ossessionato dalla sua collezione di porcellane preziose, che ama sopra ogni cosa; Maurice e Jeanne Michaud, una coppia piccolo-borghese che lavora presso la Banca del signor Corbin, che nella fuga in auto per trasferire tutti i documenti bancari a Tours è costretto a lasciarli a piedi, perché ricattato dall’amante ballerina che ha occupato i loro posti con armi e bagagli. Negli appunti si legge: “Insistere sulle figure dei Michaud. Quelli che pagano sempre per tutti e i soli che siano veramente nobili. Strano che la massa, massa detestabile, sia perlopiù formata da queste brave persone”. Di contro, notiamo noi, nella categoria di quelli che non pagano mai per gli altri rientra lo scrittore “titolato” Gabriel Corte, un commediante e profittatore che troviamo a pagina 50: qui sono interessanti le fisime tipiche dell’ambiente letterario, che sembrano tali e quali a quelle di oggi.
“Era famoso. I colleghi lo invidiavano perché guadagnava molto. Lui stesso raccontava con acredine, con quella risata sprezzante che irritava gli uomini e piaceva alle donne, che alla sua prima candidatura all’Académie française uno degli elettori, sollecitato a votare per lui, aveva risposto con una certa indignazione: «Ha tre linee telefoniche. È indecente. Non avrà il mio voto». Aveva modi languidi e crudeli come quelli di un gatto, mani morbide, espressive, e un volto da Cesare un po’ imbolsito. Solo Florence, l’amante ufficiale, l’unica autorizzata a dividere il suo letto per tutta la notte (le altre non dormivano mai con lui), avrebbe potuto dire quanto, all’alba, la maschera cominciasse a somigliare a quella di una vecchia civetta, con le borse livide sotto gli occhi e le sopracciglia femminili, appuntite, troppo sottili. (…) Il Gabriel Corte di oggi si ricordava a malapena del misero scrittore morto di fame che aveva combattuto a Charleroi e a Verdun. Da un punto di vista strettamente letterario, non aveva niente da obiettare alla guerra. Anzi, la trovava esaltante: accendeva l’immaginazione di un mucchio di poveri diavoli, prima di spegnerla per sempre. Non sopportava, però, l’insolenza della guerra rispetto a lui, Gabriel Corte, quella maniera di rimbombargli nelle orecchie come la tromba che annuncia il giorno del giudizio. Lo distoglieva dal suo compito, gli procurava un disgusto di sé, gli faceva pensare di non essere né immortale né poi così eccezionale: un mucchietto d’ossa e di carne come tutti, così fragile, così vulnerabile, così facile da distruggere. Lo infastidiva, lo affaticava, lo costringeva a condividere le speranze e i timori del popolo”.
Ovviamente, oltre a essere insofferente nei confronti del popolaccio (come fa l’elitarismo di sinistra di oggi), Gabriel Corte è anche il perfetto sessista mascherato, come certi scrittorucoli nostrani che si compiacciono di gestire l’altro sesso con la condiscendenza del femminiere vecchio stampo: “E del resto, quello che preferiva in Florence erano i suoi occhi dall’azzurro deciso, quegli zaffiri la cui vista bastava a dissetarlo come acqua di fonte, diceva. Florence aveva un mento morbido, leggermente appesantito, una voce da contralto ancora bella «e qualcosa di bovino nello sguardo», come confidava Gabriel Corte agli amici. «È una cosa che mi piace. Una donna deve assomigliare a una giovenca»”. Poi, vediamo che il passo da sessista mascherato a ipocrita manipolatore è molto breve: a pagina 91 abbiamo un Corte sprezzante che recita da primattore, nascondendo la fifa da vigliacco che l’ha colto durante la fuga.
“Erano arrivati intorno alle dieci di sera in un albergo che disponeva soltanto di due piccole stanze afose nel sottotetto. Gabriel le attraversò entrambe a grandi passi furibondi, aprì violentemente le finestre, si sporse un istante da uno di quei davanzali illuminati dalle stelle, si raddrizzò e disse conciso: «Qui non ci resto». «Non abbiamo nient’altro, signore, sono desolato. Pensi che con questa folla di profughi facciamo dormire la gente sui tavoli da biliardo» disse il direttore, livido e sfinito. «È proprio per venirle incontro…». «Qui non ci resto» ripeté Gabriel scandendo le parole con voce metallica, quella che adottava per troncare le discussioni con i suoi editori quando, già sulla porta, buttava là: «A queste condizioni, non mi è possibile prendere sul serio la sua proposta di contratto: Gallimard ieri mi ha offerto il doppio. La nostra amicizia di lunga data non basta a farmi dimenticare che mi chiamo Gabriel Corte»”.
Dopo aver sbottato: «Ma lo sa chi sono io?» – la classica uscita da pallone gonfiato che diversi nostri scrittori adotterebbero volentieri, se non si coprissero di ridicolo –, lo sprezzante Corte è costretto ad andarsene, fingendo di farlo per principio.
“A nessuno, neppure a Florence che lo aspettava nella hall, avrebbe confessato la vera ragione per cui aveva rifiutato quella camera. Avvicinandosi alla finestra aveva visto, a dieci passi dall’albergo, nella notte trasparente di giugno, un serbatoio di benzina e, un po’ più in là, qualcosa come dei carri armati e delle autoblindo parcheggiati in una piazza. «Ci bombarderanno!» si era detto. Lo aveva scosso uno strano tremito, così profondo e violento da fargli pensare: «Mi sono ammalato, ho la febbre».
Paura? No, non poteva avere paura. Paura, lui? Gabriel Corte? Suvvia! E sorrise con disprezzo e commiserazione, come rispondendo a un interlocutore invisibile. «Non ho fatto la guerra, io? Del resto, sono forse attaccato alla vita? Mi ha offerto a volontà quello che volevo. Mi sento appagato». Certo che non aveva paura, ma quando si era sporto ancora una volta dalla finestra e aveva visto quel delicato cielo blu scuro da cui il fuoco e la morte potevano cadergli addosso da un momento all’altro aveva provato di nuovo quella sensazione orrenda, dapprima quel tremito nelle ossa e poi quella estenuazione, quella nausea, quel contrarsi delle viscere che precede lo svenimento. Paura o no, che importava? Ma ora fuggiva da lì, seguito da Florence e dalla cameriera. «Dormiremo in macchina,» disse «una notte passa in fretta!»”.
Avete capito, il Corte? Non è attaccato alla vita, figuriamoci, ma gli è bastato vedere un carro armato per farsela sotto, con il “contrarsi delle viscere che precede lo svenimento”. La classica figura dello scrittore arrivato che si fa ipocrita, falso e profittatore, il ridicolo narcisista che parla con sé stesso, come certi commedianti che anche a noi capita d’incontrare. Naturalmente, per lui passare dall’arroganza sprezzante alla blandizie sottomessa è un attimo: basta togliergli il foie gras e altri cibi lasciandolo a stomaco vuoto per una manciata di ore, e subito diventa un agnellino smarrito, come accade a pagina 122:
«Dica un po’, mi riconosce, vero? Sono Corte, Gabriel Corte. Sto morendo di fame, mio caro. Sì, sì, lo so, non c’è niente, ma per me… cercando bene… Non le è rimasto un po’ di quel Giesler del ’24? Ah! Si ricorda, adesso?».
«Sono desolato, signore, ma non posso farla entrare nel ristorante,» sussurrò l’uomo «sarei assediato! Ma vada con calma fino all’angolo della strada e mi aspetti. La raggiungerò lì. Desidero solo accontentarla, signor Corte, è che siamo così sprovvisti di tutto, così disgraziati! Ma insomma, cercando bene…».
«Appunto, cercando bene…».
«In ogni caso non lo dirà a nessuno, vero? Non può immaginare quello che è successo oggi. Cose da pazzi, mia moglie non si è ancora riavuta. Divorano tutto e se ne vanno senza pagare!».
«Conto su di lei, amico mio» disse Gabriel mettendogli in mano del denaro. Dieci minuti dopo lui e Florence si allontanavano portando con aria misteriosa un cestino avvolto in un tovagliolo. «Non so assolutamente cosa ci sia dentro» mormorò Gabriel con il tono distaccato e sognante che assumeva per parlare alle donne, quelle concupite e non ancora possedute. «No, non lo so proprio… Ma mi par di sentire un profumo di foie gras…».
In quel preciso istante un’ombra guizzò fra Gabriel e Florence, li separò con un pugno e arraffò il cesto che entrambi reggevano. Florence, in preda al panico, si portò le mani al collo gridando: «La mia collana! I miei zaffiri!». Ma la collana era sempre al suo posto, come pure il cofanetto dei gioielli che portava con sé. Il ladro aveva preso solo le provviste. Florence si ritrovò sana e salva vicino a Gabriel che si tamponava la mascella e il naso dolorante”.
Non vi diciamo il piacere che abbiamo provato nel vedere quel pallone gonfiato restare a bocca asciutta, un piacere che la stessa autrice deve aver gustato fino all’ultima goccia. Ma gli scrittori alla Gabriel Corte, come quelli titolati, accreditati, cooptati, pluri-stregati eccetera, quelli per intenderci che godono di protezioni e sanno mungere ovunque mettano piede, riescono quasi sempre a restare a galla. Per questo genere di scrittori, trovare conoscenze influenti è imprescindibile: “Riflessi condizionati di antica data si prendevano ancora gioco di Gabriel Corte: se qualcuno gli faceva del male, la sua prima reazione era quella di lamentarsi, e solo la seconda quella di difendersi. Così, trascinandosi dietro Florence, cercò in ogni dove un sindaco, i gendarmi, un deputato, un prefetto, un qualsiasi rappresentante delle autorità che potesse fargli riavere la sua cena. Ma non trovò nessuno”. Ma quando riesce a raggiungere il Grand Hôtel, Gabriel Corte comincia finalmente a recuperare sé stesso e la consueta deferenza del personale che lo accoglie:
«Ma deve sforzarsi, signore! Deve mettercela tutta! Ah, mi dispiace vederla così, signor Corte… Lei ha dei doveri verso l’umanità». Corte fece con la testa un piccolo cenno disperato, come a dire che lo sapeva, che non contestava i diritti dell’umanità nei suoi confronti, ma che, nel caso specifico, non si poteva pretendere più coraggio da lui che dall’ultimo dei cittadini. «Amico mio,» disse voltandosi per nascondere le lacrime «non è solo la Francia che muore, è lo Spirito». «Mai, finché ci sarà lei, signor Corte» rispose calorosamente il direttore che, dopo la disfatta, aveva pronunciato quella frase un certo numero di volte: Corte era, nell’ordine delle celebrità, la quattordicesima arrivata da Parigi dopo i luttuosi avvenimenti, e il quinto scrittore venuto a rifugiarsi al Grand Hôtel”.
Come si vede, Irène Némirovsky sa essere puntuta con delicatezza e rigore, con lo stile magnifico che molti hanno imitato. Lo scrittore Gabriel Corte risulta il paradigma del sedicente artista che ce l’ha fatta, che ha scalato tutti i gradini fino all’empireo, camminando anche sui cadaveri, usando le furbizie del profittatore, l’egotismo del narcisista, l’impudenza dell’impunito, l’insensibilità del traditore. Per figure come questa – che in certi ambienti ci sono e ci saranno, non ce ne libereremo mai – è essenziale l’aggancio a situazioni e persone di potere, a tutti i livelli: a pagina 243 di Tempesta in giugno ne abbiamo una dimostrazione plastica.
“Corte restò immobile, con la lama del rasoio coperta di sapone a mezz’aria. Jules Blanc scappato in Portogallo! La notizia lo colpì dolorosamente. Come tutti coloro che si danno da fare per trarre dalla vita il massimo di comodità e di piaceri, Gabriel Corte si era assicurato la devozione di un uomo politico. In cambio di cene squisite, di brillanti ricevimenti, di piccoli favori accordati da Florence e di qualche articolo ben piazzato, otteneva da Jules Blanc (titolare di un portafoglio in quasi tutte le combinazioni ministeriali) un’infinità di privilegi, benefici e agevolazioni che facilitavano la sua esistenza. Grazie a Jules Blanc, per esempio, gli era stata commissionata la serie degli «Amanti Celebri» che l’inverno precedente aveva curato per la radio di Stato. Sempre per la radio, Jules Blanc lo aveva incaricato di tenere allocuzioni patriottiche, economiche o morali a seconda delle circostanze. Ed era stato ancora Jules Blanc a insistere presso il direttore di un grande quotidiano affinché il romanzo di Corte venisse pagato centotrentamila franchi invece degli ottantamila precedentemente pattuiti. E per finire gli aveva promesso il nastrino della Legion d’onore. Jules Blanc, insomma, era un umile ma necessario ingranaggio nella meccanica della sua carriera, perché neppure il genio può librarsi nell’alto dei cieli, anche lui deve manovrare sulla terra. Venuto a conoscenza della fuga dell’amico (doveva essersi molto compromesso se aveva preso quella decisione disperata, lui che amava ripetere che in politica la sconfitta prepara la vittoria!), Corte si sentì solo e abbandonato sull’orlo di un baratro”.
Quanto c’è di affine alle situazioni classiche di connivenza e lobbismo che vediamo nel nostro campo culturale? Tanto. Le epoche si somigliano, e un secolo di distanza non ha cambiato le cose. L’opportunismo, la connivenza, l’ipocrisia, la vigliaccheria, la mancanza di princìpi, la supponenza, il favoritismo, la fatuità, i deliri di onnipotenza, i voltafaccia, l’invidia, la scorrettezza, l’insensibilità sono l’alimento principale di queste dinamiche. Come sappiamo, chi ottiene le migliori posizioni di rilievo le tiene a oltranza, facendo terra bruciata intorno a chiunque possa minare anche solo in piccola parte le situazioni privilegiate di cui gode. Il denaro resta il motore, insieme all’inevitabile gratificazione narcisistica e all’identificazione totale col ruolo, che spesso tolgono la possibilità di tornare umani. Come sempre, resta alla letteratura – quella vera – il compito di farci sopravvivere anche a questo.