21 Febbraio 2021

“La quarantena è la condizione naturale dello scrittore”. Sylvia Iparraguirre, Borges e la dittatura argentina

Sylvia Iparraguirre, tra le grandi scrittrici latinoamericane di oggi – in Italia, è Einaudi ad aver pubblicato il romanzo più noto, “La terra del fuoco” – assume in sé diversi caratteri extraletterari, per così dire, che ne fanno l’emblema di un’epoca, il cristallino della scrittura contemporanea. Nata nel 1947, la Iparraguirre appartiene alla generazione di mezzo: discepola di Jorge Luis Borges, amica di Julio Cortázar, ha svezzato alla letteratura gli scrittori argentini di oggi. Moglie di Abelardo Castillo, autentico ‘movimentatore’ della cultura argentina – anarchico, umorale, generoso, inquieto, ha fondato riviste, animato da una furia da poligrafo – ha vissuto, tra l’altro, gli anni oscuri del regime militare. In un libro pubblicato di recente da De Piante, che raccoglie la polemica tra Julio Cortázar e Liliana Heker, “Esilio & Letteratura. L’arte ai tempi del regime”, Sylvia Iparraguirre racconta l’amicizia tra Cortázar e Castillo, testimoniata da un tesoro di lettere, alcune delle quali sono state edite per la prima volta in assoluto. “Nel pieno di quei venti anni, nel 1973, ci siamo conosciuti di persona. Abbiamo avuto il privilegio (Cortázar aveva sorriso al sentire quella parola) di accoglierlo nella nostra casa. Tre anni dopo l’Argentina sarebbe piombata nella più sanguinosa dittatura militare della sua storia contemporanea e la posizione dinanzi a una questione così dolorosa come quella dell’esilio (quelli che se ne andarono e noi che restammo) ci separò da lui. Non in un senso letterario, questo sarebbe stato impossibile, ma in questioni centrali”, scrive la Iparraguirre. Scrivere è sempre prendere atto, porsi in una postura, imporre una poetica, ardere, avere ardore. L’intervista che qui si ricalca nasce in ambito universitario: è il primo studio diffuso sull’opera di Sylvia Iparraguirre.

Ha sempre voluto fare la scrittrice?

No, da piccola volevo diventare un’egittologa ed esploratrice, volevo avere una libreria nel vagone di un treno. Durante l’adolescenza, iniziò ad approfondirsi la mia inclinazione per le storie, l’amore per la letteratura che mi accompagna ancora. In quel periodo della mia giovinezza la mia attività non era minimamente scrivere; il mio progetto era studiare Lettere Moderne alla UBA (Universidad de Buenos Aires). Avevo ben chiaro il motivo di questa scelta: ero alla ricerca di un ordine letterario, una mappa. Volevo che l’università mi aiutasse a dare ordine ai libri che avevo letto in modo sparso dai dodici ai diciotto anni, con totale devozione e dedizione. Sebbene scrivessi in modo sporadico e segreto un diario, l’idea di scrivere non mi passava per la testa.

Cosa pensa degli autori contemporanei, sia argentini che stranieri?

Provo a leggere i nuovi autori, ma non riesco a farlo quanto vorrei. In Argentina si scrive e si pubblica molto, credo troppo. Devo leggere ancora tanto e a volte la letteratura che viene pubblicata mi scoraggia. Non tutta, naturalmente. Mi piace esplorare questi nuovi mondi, scoprire cosa propongono, quali temi toccano; appartengono tutti alla mia stessa tradizione letteraria, ma con differenti letture, differenti interessi e diversi riferimenti. Se vedo una dedizione alla narrazione, allora continuo. Se vedo o percepisco una certa “posizione”, mi annoio e lo abbandono. In Argentina siamo molto snob e le estetiche arrivano, passano e se ne vanno. I pochi bravi, restano. Come è sempre stato.

È ancora legata a carta e penna oppure si è adeguata alle moderne tecnologie?

Ho innumerevoli taccuini. Mi affascina comprare quaderni, matite, biro, stilografiche. Quando viaggio, mi innamoro di taccuini di ogni genere, sono una tentazione. Scrivo i diari a mano. Scrivo molto a mano. A volte prendo un quaderno solo per scrivere un pensiero, un’idea che non voglio perdere perché ho una scarsa memoria a breve termine e quella annotazione si scatena e mi porta a scrivere un frammento o un intero capitolo di un romanzo a matita, come mi è successo diverse volte.

Mi racconti di Jorge Luis Borges, il suo insegnante all’Università: che tipo di professore era?

Era un professore che non credeva nell’istituzione universitaria né nei voti né nelle classificazioni né in nessuna cosa facesse parte del “mondo accademico”. Infatti c’era una divergenza con la titolare della cattedra poiché Borges in rarissimi casi bocciava uno studente ed era piuttosto generoso nella valutazione. L’unica cosa che Borges si prefissava o desiderava era trasmetterci qualcosa, anche un minimo, di quelle letterature germaniche medievali che amava, le primitive saghe islandesi, norvegesi e danesi, di quei remoti naviganti chiamati vichinghi. Quando sono stata a Oslo, al Museo delle navi vichinghe, ho pensato molto a Borges e a quelle lezioni, per me indimenticabili. Ricordo la sua lezione sul Beowulf e la spiegazione delle kenningar, frasi poetiche utilizzata in quei frammenti e che dimostravano il valore del poeta, la metafora della metafora.

Ho avuto la fortuna di incontrare Borges diverse volte dopo quelle lezioni in facoltà, di telefonargli perché qualche amico che voleva contattarlo per un’intervista non osava farlo. Era Borges stesso a rispondere al telefono. Parlavamo di Junín, la città a nord-est della provincia di Buenos Aires, dove sono nata, proprio a pochi metri da calle Borges. Ma si tratta, in quel caso, di suo nonno, Francisco Borges, al quale Borges dedica un poema. Questo colonnello aveva combattuto contro gli indios al confine e contro il capo delle tribù della regione della Pampa, Calfucurá. Morì giovane, nel 1874, nello scontro di La Verde, molto vicino a Junín, durante le guerre civili. La leggenda narra che montò a cavallo e se ne andò, solo, dritto verso le truppe avversarie che gli spararono. E che è stato ucciso per un fraintendimento da parte delle due fazioni argentine. Questo fatto affascinava Borges, come avrebbe affascinato chiunque se si fosse trattato del proprio nonno. Gli piaceva parlare di Junín. Borges viveva dentro la letteratura e chiunque si avvicinasse per fargli delle domande – e lo avvicinavano in molti data la sua disponibilità, che per me era vulnerabilità; a volte si trattava di giornalisti incapaci – in poco tempo rimaneva ipnotizzato, totalmente coinvolto in Swedenborg e la Divina Commedia, senza sapere come ci fosse finito lì. Sono sicura che Borges si divertisse. Il suo sarcasmo era letale. Sono stata nel suo appartamento in calle Maipú. Ricordo una splendida notte nel 1983, quando io e Abelardo Castillo rimanemmo fino all’una del mattino con Borges nella casa di una signora che organizzava incontri tra scrittori. Era particolarmente felice e socievole. Parlammo di tutto. Recitò strofe del Martín Fierro, con Abelardo parlò di libri (sono certa che, nonostante la differenza di età, Borges comprese di aver trovato un interlocutore), anche lui era un lettore altrettanto straordinario e dalla memoria fuori dal comune. Ricordo che non voleva andarsene, diceva: “ancora una domanda, un’altra ancora”. Scesi con lui a cercare un taxi; era solo, cieco e stava per compiere 84 anni ma non volle che lo accompagnassimo.

Sylvia Iparraguirre e Abelardo Castillo con Jorge Luis Borges

Cosa ha significato dirigere una rivista letteraria, durante una dittatura, con scrittori come Liliana Heker e Abelardo Castillo?

Per rispondere a questa domanda potrei scrivere un libro, ma qui devo essere inevitabilmente breve. Poco dopo il golpe del 1976, Abelardo prese la decisione, discussa e ponderata con me e Liliana, che era arrivato il momento di tornare a pubblicare una rivista (in precedenza c’era stato El Escarabajo de Oro), e ora toccava a El Ornitorrinco, un animaletto di specie rara, diverso da chiunque altro e costituito da più caratteristiche, alludendo alle persone che formavano la redazione e che avevano ideologie diverse: c’erano cattolici e affiliati al PC. Condividevamo un obiettivo comune, che sovrastava le diversità: resistere alla dittatura. La decisione di pubblicare una rivista che parlasse di ciò che stava succedendo in Argentina è stata rischiosa, ma condivisa da tutti. Come ho già detto, l’obiettivo de El Ornitorrinco era molto chiaro: opporsi alla dittatura militare. Per Abelardo, e allo stesso modo per me e Liliana, una rivista non era semplicemente una pubblicazione letteraria, ma anche un atto dimostrativo. Abelardo credeva che un uomo deve impegnarsi dove è più efficace e che per uno scrittore, o almeno per lui, questa efficacia era data dall’uso della parola. Un aspetto molto importante: questo uso della parola attraversava il corpo, cioè impegnarsi intellettualmente tramite la parola significava mettere il proprio corpo in pericolo. Questo lo imparai da lui quando ero molto giovane e finii per condividerlo. Lo stesso pensava Liliana Heker, amica di tutta una vita e codirettrice con Abelardo della precedente rivista, El Escarabajo de Oro, che venne pubblicata fino al 1974. Questo, dunque, è stato un progetto che ha impegnato tutti e tre in tempi violenti, imprevedibili. E non solo noi tre, ma anche tutti coloro che collaborarono con noi: Bernando Jobson, scrittore e traduttore, Cristina Piña, Daniel Freidembreg, Irene Gruss, poeti. La rivista veniva realizzata nel nostro appartamento (io e Abelardo ci sposammo nel 1976, tre giorni prima del golpe! Vivevamo insieme già da cinque anni), le riunioni, le decisioni, l’impaginazione, la stesura degli articoli, tutto veniva fatto lì. Inclusa la sezione umoristica che, nonostante tutto o proprio per i tempi che correvano, la rivista aveva deciso di mantenere. La progettavamo insieme: Abelardo davanti alla macchina da scrivere e gli altri, Liliana, Bernardo Jobson e io, sparavamo idee folli od osservazioni deliranti. In termini pratici, io e Liliana eravamo quelle che si recavano in tipografia, correggevano le bozze e addirittura le distribuivano a mano: ognuna di noi aveva edicole precise dove consegnare. El Ornitorrinco è stata l’unica rivista a pubblicare gli appelli delle Madri di Plaza de Mayo sui desaparecidos, ha pubblicato poeti comunisti, un editoriale firmato da Abelardo contro la guerra con il Cile… E, ovviamente, il tema della polemica con Julio Cortázar, una presa di posizione forte, decisiva, nei confronti dell’esilio che scatenò un gran scompiglio sia tra gli esiliati che tra i lettori argentini; ma Cortázar diede ragione alla rivista, alla fine, l’ultima volta che venne in Argentina. Durante questo periodo inquietante, ci sono state minacce, avvertimenti: nel 1976 Liliana ha dovuto lasciare la casa di sua madre e andarsene per qualche settimana da sua sorella perché i militari andarono a chiedere di lei. A casa nostra venne la polizia, due ufficiali: uno si fermò sul pianerottolo con la mitragliatrice e l’altro, sempre armato, entrò in casa e controllò la libreria, dalla quale Abelardo aveva deciso di non togliere alcun libro perché sapeva che non era necessario trovare un libro per farti portare via. In qualsiasi momento poteva succedere di tutto, e non solo a noi. Potevi uscire per andare a fare lezione e diventare un desaparecido, trasformandoti in quella figura orribile, tristemente celebre della dittatura militare argentina. Con l’avvento della democrazia, nel 1983, Abelardo divenne Presidente dell’Assemblea Permanente per i Diritti Umani. L’ultimo editoriale, già in democrazia, riguardante la legge del “punto finale” [la legge di estinzione dell’azione penale promulgata il 24 dicembre 1986], non lo firmò come direttore della rivista, bensì come membro dell’Assemblea Permanente per i Diritti Umani. Nel 1986 El Ornitorrinco smise di uscire; non aveva più senso pubblicare con la democrazia. Così pensammo. Il compito di rivista di resistenza culturale durante la dittatura era terminato.

Perché ha scelto di restare in Argentina durante gli anni della dittatura? Non era spaventata?

Una delle annotazioni del Diario di Abelardo durante quell’epoca è stata: “non lasciare che la paura entri nella nostra casa, che tocchi quello che facciamo”. La questione sul restare nel Paese si è fondata su un’idea precisa: la classe operaia si trovava qui, qui c’erano le Madri di Plaza de Mayo, qui si faceva Teatro Abierto, qui si poteva fare qualcosa per sostenere una resistenza culturale. Dalla Spagna ci scrivevano gli amici per dirci che eravamo pazzi, che ce ne andassimo anche noi in Spagna. Abelardo, un uomo di sinistra, formato nel marxismo e nell’esistenzialismo, ma con una irrinunciabile base anarchica, individualista, che lo accompagnò sempre, sapeva già bene quello che avrebbe fatto, fin dagli anni de El Escarabajo de Oro. Mi spiego meglio: se la classe lavoratrice restava nel paese, dato che per andarsene doveva avere conoscenze, ottenere il passaporto e il denaro disponibile, se le Madri di Plaza de Mayo tutti i giovedì andavano a protestare in Plaza de Mayo, percorrendola in senso circolare come segno di protesta, e facevano l’impossibile per scoprire dove fossero finiti i figli scomparsi, affrontando i militari; se qui si faceva Teatro Abierto, un gruppo di autori, attori e attrici, scenografi, musicisti, costumisti, progettisti illuminotecnici e tutti i tecnici, se tutti loro si trovavano in Argentina, lui non aveva nessuna motivazione per andarsene. O andarcene. E mi sembrò perfetto. Lui non parlava di questo, né dei rischi che ha corso né delle cose attraverso le quali è passato né di tante altre di cui taccio. Non gli piaceva parlare “di ciò che avevamo passato durante la dittatura”. Diceva: ci sono le riviste. E io seguo il suo esempio.

C’è qualcosa di cui si pente o che non rifarebbe nella sua vita?

Gesti, atteggiamenti che avrei potuto avere e non ho avuto, parole che avrei potuto dire e che non ho detto, luoghi in cui sarei dovuta andare e non sono andata, comprensioni che avrei dovuto avere e non ho avuto. Non trovo grandi cose, ma a volte mi sbaglio. Per me, che non sono religiosa, ma agnostica, l’unica etica è stata e sarà vivere recando meno danni possibili alle persone, alla natura e agli animali. Ho seguito questo precetto personale. E se ho fatto del male di cui potrei pentirmi è stato involontario. Ma non dobbiamo (non devo) ingannarci e sicuramente, dal punto di vista degli altri, ci sono sempre cose di cui ci si deve pentire.

Lei che ha già vissuto momenti di grave crisi, crede che l’emergenza del covid muterà un certo modo di fare letteratura?

L’umanità ha attraversato enormi crisi sanitarie, le pesti medievali, l’influenza spagnola. Daniel Defoe racconta della peste bubbonica a Londra in Diario dell’anno della peste, che ha ispirato La peste di Albert Camus. Il XX secolo, un secolo distruttore, guerrafondaio ha dato luogo al sottogenere del romanzo distopico così come lo conosciamo. Il primo è stato Noi di Evgenij Zamjatin, del 1921, a cui si è ispirato Orwell per il suo celebre 1984 del 1949. La paura degli eccessi della scienza, dell’autoritarismo politico, del controllo dell’individuo, della distruzione del pianeta per i danni che infliggiamo alla natura ha ispirato quelle storie. Quello che ci succede oggi ha, senza dubbio, un’aria distopica e dispotica e sicuramente ci saranno molti libri che nel futuro avranno come tema la pandemia e il coronavirus. Ci sono migliaia di storie quotidiane che siamo costretti a vivere. Ma il coronavirus non cambierà il modo di fare letteratura; la quarantena è lo stato naturale dello scrittore: isolato nella sua scrivania o dove può, a leggere e scrivere la sua poesia il suo romanzo, il suo racconto, il suo saggio. La tragedia di massa, mondiale che stiamo vivendo: questo è terribile. E in America Latina, ha messo in evidenza la precarietà di milioni di persone, la povertà che mette a nudo il mondo del capitalismo selvaggio in cui viviamo, la tragedia dei rifugiati. Tuttavia la letteratura continuerà il suo cammino, come ha sempre fatto.

*L’intervista è stata realizzata da Sara Bartolucci e coordinata dalla professoressa Mercedes Ariza; è parte di un più ampio lavoro universitario dedicato all’opera e alla biografia di Sylvia Iparraguirre

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