Come si sa, la vita poetica di Iosif Brodskij fu sancita dal carcere. Poeta precoce e talentuoso, ‘benedetto’ da Anna Achmatova, sommava l’energia muscolare di Majakovskij alla perizia di Mandel’stam, poeta che amava molto. Alternava la furibonda gergalità all’eleganza. Capobanda dei giovani poeti di Leningrado, ostili all’impero del ‘realismo socialista’, Brodskij, a 23 anni, dopo svariati attacchi da parte della stampa sovietica, fu processato e messo in carcere con l’accusa di “parassitismo sociale”. Insomma, il poeta era ritenuto creatura inutile, inabile ai fini progressivi della Storia (lottiamo perché tale rimanga). Il poeta fu ‘rieducato’ prima in un ospedale psichiatrico, a Leningrado, poi in un villaggio, nella regione di Archangel’sk, al cospetto del Nord. “Grazie anche alle proteste di personalità e amici e alla risonanza che il caso ha avuto all’estero, Brodskij viene liberato dopo aver scontato solo un anno di confino” (Giovanni Buttafava). Era stato condannato a cinque anni di lavori forzati. Il carcere, “momento breve, ma drammaticamente intenso e difficile” (Buttafava), costituì un episodio etico ed estetico. Fuggito negli Stati Uniti, dal 1972, Brodskij parlerà con reticenza di quell’episodio. Una reticenza, tuttavia – il martire del tempo, piagato, piegato al compito della poesia – che amplifica il fascino corrusco del poeta. Così, per frammenti (si ricavano in: Iosif Brodskij, Conversazioni, Adelphi, 2015), il poeta racconta l’abisso del carcere – “Ti iniettano di tutto, ogni tipo di farmaco. Le iniezioni sono veramente… a volte sono veramente dolorose… Oppure ti svegliano in piena notte, ti avvolgono stretto in un lenzuolo e ti buttano in una vasca d’acqua gelida. Poi ti tirano fuori e lasciano che il lenzuolo ti si asciughi addosso; be’, le pieghe ti entrano nella carne, fa molto male” – e lo schianto morale: “Mi ricordo però che non sono mai riuscito a odiare i miei carcerieri perché di ognuno pensavo, ha una famiglia, è un poveraccio, un idiota, è fatto così, e questa è già di per sé una punizione”. L’antidoto al male, comunque, Brodskij lo riferisce agli studenti del Williams College, nel 1984: “La più sicura difesa contro il Male è un individualismo estremo, l’originalità di pensiero, la bizzarria, perfino – se volete – l’eccentricità”. Caratteri, questi – individualismo, originalità, fino alla bizzarria –, che si rivelano praticando la poesia, compito, in effetti, assurdo, ora più che mai, che pone fuori dalla storia, nel covo originario dell’uomo, della bestia, dell’albero, dove acqua e luce sono uno, ipnosi e ipotesi, verbo e vertigine. Iosif Brodskij muore nel 1996, a gennaio, è sepolto a Venezia, nell’isola di San Michele. Qualche mese dopo la sua morte, una antologia del PEN International sugli scrittori in carcere esce con la sua introduzione. Pare una sfera che si chiude: scarcerato dal corpo, il poeta ci carcera nel groviglio delle sue poesie. Ma lì, ad ogni verso è l’ingresso in un cielo ulteriore. (d.b.)
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Essenzialmente, la prigione è carenza di spazio compensata da eccesso di tempo; per un detenuto, entrambi sono palpabili. Va da sé che questo rapporto – un’eco della questione dell’uomo nell’universo – è ciò che ha reso la prigione la metafora integrale della metafisica cristiana e in sostanza la levatrice della letteratura. Per ciò che riguarda la letteratura, questo, in qualche modo, è ragionevole, dacché la letteratura in primo luogo traduce verità metafisiche in forma gergale.
Tale traduzione può accadere anche senza il carcere, è ovvio, e forse con maggiore accuratezza. Da Paolo in qua, tuttavia, la tradizione cristiana si è affidata con rimarchevole coerenza al carcere come veicolo della rivelazione. Ora culture e letterature basate su altre fedi o principi (se così si può dire) stanno facendo del loro meglio per imitare il grande maestro – o, nel caso dei cinesi, il giovane – processando i propri Villon e Dostoevskij.
Nel XX secolo la prigionia è stata inflitta agli scrittori pressoché ovunque. È difficile parlare di una lingua, di un paese (la Norvegia, forse?) in cui gli scrittori siano stati risparmiati da questa moda. Certo, alcune lingue e alcuni paesi se la sono cavata meglio; altri peggio. La Russia sembra avere battuto tutti, d’altronde, in quanto Unione Sovietica, è stato un impero assai popolato. Con la sua fine, il centro di gravità del problema si è spostato fuori dall’Europa, in Estremo Oriente, nel sud dell’Asia, in Africa, negli arcipelaghi del Pacifico meridionale. Non è una buona notizia: anche quelle sono zone molto popolate. Nel rifiutare ogni discrimine, la geografia sembra volersi mettere al passo con la Storia.
O forse è la Storia ad allinearsi alla geografia. In genere, uno scrittore si trova dietro le sbarre perché ha preso posizione in una qualche discussione politica: segno sicuro della Storia. (L’assenza di tale argomento, naturalmente, è la caratteristica principale della geografia)… Non è che la prigione ti faccia perdere le nozioni astratte. Al contrario, le riduce alle loro più succinte articolazioni. La prigione è la traduzione della tua metafisica, etica, percezione della storia nei minimi termini del moto quotidiano. Il luogo più efficace per questo è uno spazio nudo, la sintesi dell’intero universo umano in un rettangolo di cemento, illuminato di continuo da una lampadina da 60 watt. Sotto di essa ti aggiri in cerca della tua sanità mentale. Dopo un paio di mesi, il sistema solare è del tutto compromesso – a differenza, è da sperare, dei tuoi amici, dei più fedeli contatti – e se sei poeta, potresti ricavare alcuni testi decenti nella cinta. Carta e penna, va detto, è raro che siano a disposizione del prigioniero.
Per questo, è bene usare rima e metrica: per rendere i versi memorabili e soprattutto per sopravvivere a certi interrogatori che rendono la capacità occipitale inaffidabile. Nel complesso, i poeti se la cavano meglio rispetto agli scrittori in solitudine perché la loro dipendenza dagli strumenti professionali è minima: i movimenti ricorrenti avanti e indietro sotto la lampadina forzano a tornare di continuo sul testo. Inoltre, una poesia non ha trama, si sviluppa secondo la logica immanente dell’armonia linguistica.
Scrivere una poesia – meglio: comporla nella testa – è un esercizio che viene meglio in isolamento, è una sorta di terapia, insieme alle flessioni, alle abluzioni nel gelo. In una cella con altre persone, le cose sono un po’ diverse e di solito ne trae vantaggio lo scrittore. La prosa è arte radicata nei rapporti sociali e uno scrittore è più capace di un poeta nel trovare i punti comuni con i compagni. Essendo un narratore, è curioso per natura, e questo lo aiuta a tracciare un legame con i compagni di prigionia, indagando i loro casi, le casualità, trattandoli con una trama. Durante la prigionia, egli potrebbe pensare di raccogliere materiale utile per un lavoro futuro: i compagni saranno felici di donargli le testimonianze, spesso generosamente decorate, della loro vita.
Chi scrive di prigione predilige la prosa. E questo non perché gli scrittori siano incarcerati più spesso dei poeti (di solito è vero il contrario). Ciò accade perché la poesia trova il monotono idioma della certezza penale apertamente ostile alla natura brusca, brutale del verso. Non è che l’arte della poesia si rifiuti a onorare la realtà dell’oppressione con i fiori dell’eloquenza – piuttosto, l’essenza di un buon testo è sintesi e velocità. Così, di norma, anche quando un poeta decide di registrare la sua esperienza in carcere, usa la prosa. Una poesia sul carcere è più difficile da trovare di un romanzo su di esso. Forse la poesia è la meno mimetica delle arti…
Gli scritti sul carcere parlano di sofferenza e di resistenza. In quanto tali, sono di grande e pruriginoso interesse per il pubblico che crede, beato, che il carcere sia un’anomalia. È per far sopravvivere questa percezione nel mondo a venire che questi scritti dovrebbero essere letti. Perché non c’è niente di più allettante che soccombere e considerare l’incarcerazione di un uomo la norma. Perché non c’è niente di più facile che percepire – e ottenere – benefici spirituali dal carcere. L’uomo ha l’abitudine di rilevare uno scopo e un significato più elevati da una realtà manifestamente priva di senso. Ha la tendenza a ritenere l’autorità uno strumento, benché feroce, della Provvidenza. Un generico senso di colpa e il condono della punizione cospirano in questa idea. Una vecchia storia, vecchia quanto la storia dell’oppressione e della sottomissione…
In tutti i casi, la scrittura sul carcere mostra che l’inferno è costruito e gestito dall’uomo. Questo ci permette di sopportarlo, perché gli uomini, per quanto crudeli, sono negligenti, corruttibili, pigri e così via. Nessun sistema creato dall’uomo è perfetto e il sistema concentrazionario non fa eccezione. È soggetto a erosioni, ha crepe. In altre parole, non ha senso temprare le tue convinzioni da questo lato della prigione, perché potresti trovarti lì dentro. In generale, le prigioni sopravvivono. Anche se la speranza è davvero l’ultima cosa di cui hai bisogno, entrandovi; una zolla di zucchero sarebbe meglio.
Iosif Brodskij
*Il testo di Iosif Brodskij, “The Writer in Prison”, qui tradotto parzialmente, è pubblico in introduzione al volume del 1996, “’This Prison Where I Live: The PEN Anthology of Imprisoned Writers”. In Italia il testo è, in altra versione, nel volume: “Scrittori dal carcere”, Feltrinelli, 1998.