29 Gennaio 2021

“Cerco disperatamente l’armonia”. Andrea Di Consoli dialoga con Umberto Piersanti

Incontriamo Umberto Piersanti (Urbino 1941) all’indomani della pubblicazione della sua nuova raccolta poetica intitolata Campi d’ostinato amore (La Nave di Teseo, 176 pagg., 19 euro).

Piersanti, anche in quest’ultimo libro tema centrale è la memoria. Vorrei chiederle in che modo lei oggi usa la memoria nella sua poesia, tenuto conto del fatto che nell’arco di una vita può molto cambiare, l’idea o l’ideologia che si ha della memoria. 

Per me scrivere è sempre stato qualcosa legato alla memoria. Non sono personalmente legato a una poesia attenta al futuro. La poesia è quasi sempre terra di memorie. Una volta il poeta polacco Zagajewski, parlando a Pordenone, rispose così a chi gli domandava perché scrivesse sempre dell’infanzia e mai del futuro: “Non io, ma tutti i poeti parlano dell’infanzia”. Tutti i poeti parlano dell’infanzia. La memoria è fondamentale. Pensi a quante volte Leopardi inizia con la memoria, il ricordo, la rimembranza. In un primo tempo, nei primi libri – in tutti quelli, per intenderci, che precedono il passaggio a Einaudi, che sono cinque – io ho parlato della memoria anzitutto legata all’adolescenza, ai primi amori, agli incontri. Andando avanti nel tempo l’infanzia ha preso un posto sempre più importante, anche perché, come dice il personaggio di un mio romanzo, una volta passati, sogni e ricordi sono la stessa cosa. La memoria permette la trasfigurazione. Infatti quando si parla di me che ricordo la civiltà contadina bisognerebbe dire che io non la ricordo in termini realistici come tanti scrittori della tradizione meridionale, ma la ricordo attraverso la trasformazione memoriale. Tutto il mio mondo di memorie è trasfigurato, perché il tempo trasforma tutto. Diceva Leopardi: la felicità non esiste,  puoi pensarla unicamente nel passato o nel futuro. Eppure sbaglierebbe chi facesse riferimento nella mia poesia a una dimensione idilliaca o bucolica, perché la memoria di quel mondo è la memoria di un mondo irrimediabilmente perso. Io non sono Olmi o Pasolini che contrappongono l’autenticità del passato all’inautenticità del presente. Io posso solo esprimere questo: il ricordo di qualcosa che c’è stato e che mai più sarà. Tutti sappiamo che gli anni della nostra nascita e gli anni subito dopo sono quelli che ci portano a essere quello che si è. Sono stato identificato con un mondo che è scomparso, e sento la necessità di rievocarlo senza forzature ideologiche, senza facili ecologismi, senza dire che fosse migliore.  

Il sentimento invece com’è cambiato? Intendo dire: la sua idea di centralità del sentimento per la nascita, la costruzione della poesia. È sempre centrale il sentimento per un poeta maturo, consapevole?

I sentimenti sono importantissimi, perché altrimenti saremmo nella disquisizione filosofica. I sentimenti sono importanti nella misura in cui non diventano sentimentalistici. Inoltre, i sentimenti debbono essere raccontati con parole esatte. Io credo di averli espressi tante volte: quando ho parlato di Jacopo, figlio delicato; quando ho raccontato i volti di coloro che sono passati e che mi sono entrati nel sangue; oppure quando ho tentato di rintracciare il volto di mio padre. Anche se ho paura di incappare nel sentimentalismo, non trovo che nella mia poesia ci sia un contrasto tra il sentimento, l’emozione e lo stile. Il contrasto diventa evidente quando uno di questi elementi prende il sopravvento. Penso alla Neoavanguardia, alla ricerca stilistica che prende il sopravvento su tutto, cosa che non succede in Luzi, Caproni e Bertolucci. Dunque, io mi pongo lontano da una tradizione puramente formalistica. Una volta Franco Loi scrisse sul “Sole 24 Ore”, e cito a memoria: Piersanti è linguisticamente erede di una lunga tradizione linguistica – da Petrarca a Leopardi a Carducci –  perché l’italiano del centro Italia ch’egli maneggia è il più vicino di tutti all’italiano. Io credo di saper usare molto bene l’italiano, ma non come tanti che usano la lingua letteraria in maniera postmoderna, come citazione, gioco, scherzo, o ironicamente, alla maniera della Valduga o di Zeichen. Io uso la lingua italiana tra fine ‘800 e primi del ‘900 come lingua mia, non come gioco metapoetico o metaletterario. 

Lei è conosciuto come il poeta delle Cesane, il poeta della natura. Eppure la sua idea di natura non è mai né bucolica né ecologista. Ecco, in che modo, dopo la memoria e i sentimenti, racconterebbe quest’altro “strumento” della sua poesia?  

La mia percezione della natura non è affatto di tipo ecologista, anche se come cittadino penso che l’ecologia sia importante difenderla entro limiti precisi che possano integrarsi con il cammino della storia. La mia natura è una natura che non nasconde niente della sua crudeltà. Mentre la natura di Claudio Damiani, per fare un esempio, è più pacificata della mia, più francescana, la mia è molto più sconvolta. C’è poi anche in me la ricerca di una natura edenica, ma la mia natura è anche quella dove la fonte si dissecca, dove combattono i soldati, dove si compie la tragedia della storia. Nella mia poesia cerco disperatamente di trovare un’armonia, un’armonia dentro la natura, anche se è circondata dai rovi e dagli spini, non solo quelli della guerra tra gli uomini, ma tra tutti gli esseri viventi, perché la crudeltà della natura è terribile. Il ghepardo sbrana la gazzella incurante degli ecologisti e degli animalisti. Questi ultimi se la cavano dicendo che la gazzella magari era vecchia, ma tu intanto vaglielo a dire, alla gazzella, il destino che l’attende. La crudeltà della natura non toglie il fatto che si cerchi comunque un momento pacificato, che può anche essere un Eden. Ma su questa terra l’Eden passa, va via molto rapidamente.  

Anche la natura, dunque, nella sua poesia, è segnata dalla storia. E dunque vediamola meglio questa storia che così profondamente impregna la sua poesia.  

Lei è meridionale, e sa bene che la grande scuola storica viene dal Sud. Penso a De Sanctis, a Croce. Io amo la storia quanto la poesia. Leggo tantissimi libri di storia. La storia mi affascina totalmente e profondamente, e se c’è una cosa che mi disturba è che i giovani tendono a ignorarla. Dunque parto dall’amore per la storia; passiamo adesso alla poesia. Intanto la poesia ha una vasta gamma di scelte. Si può parlare di tutto. Ci sono dei poeti che hanno fatto della vita sociale e civile la propria cifra, altri, come Carducci, della storia. Io nelle mie poesie ho legato la storia alla mia vicenda. Però la storia o la cronaca non sono né un obbligo né un tabù. I poeti hanno tendenze varie, ed è giusto così. Qualcuno le unisce tutte. Qualcuno no. In Sandro Penna, per esempio, la storia non gliela trovi neanche col microscopio. Pasolini, invece, ne è impregnato. Per cui parto da questa premessa assoluta: la poesia può occuparsi di tutto, può anche occuparsi, come ha detto Michael Hamburger, delle sfumature di un tulipano, ma se è vera poesia, parlando delle sfumature di un tulipano parlerà del mondo. La storia è dentro i miei versi anche quando non c’è. Faccio un esempio. Negli “Ossi di seppia” di Montale – e lo dico senza volermi minimamente paragonare – noi sentiamo il clima degli anni ‘20 più che in qualsiasi altra opera narrativa coeva. Nelle mie poesie dedicate agli anni ‘40 si sente il clima tragico della guerra anche se non parlo direttamente di crimini e stragi. La storia è capace di entrare anche quando non direttamente raccontata – tranne, ripeto, in casi estremi, come in Penna, perché in lui la dimensione erotica tende a prevalere su tutto. Io non sono un fanatico; mi ritengo una persona che tenta di essere laica, di avere cioè uno sguardo il più possibilmente oggettivo. Ecco perché dico che nella poesia le strade sono tante. Sono un poeta che ha raccontato la seconda guerra mondiale più di altri, ma sempre con gli occhi di un bambino. Oppure gli anni ‘50, ma sempre parlando di mio padre, di certi ricordi intimi. La mia poesia è intrisa di storia anche quando non parla direttamente di storia. 

E dalla storia vorrei ora spostarmi con lei nel dolore. Che dolore emerge nella sua poesia?  

Lei conosce un mio libro pressoché sconosciuto: L’urlo della mente . Glielo donai tanti anni fa, mi pare a Torino. Lì il dolore esplodeva con una rabbia totale. Forse è un libro irrisolto, ma ha qualche poesia molto bella. Ne L’urlo della mente il dolore era rappresentato in modo totale e frontale. Poi è venuto Jacopo; un dolore che non nascondo e che, in qualche modo, tento di affrontare mettendo Jacopo in un mondo mitico, tentando di dare una trasfigurazione poetica al suo stato. Il mio traduttore americano mi diceva che era molto strano come io avevo affrontato questa dimensione che a lui interessava molto. Pochi hanno raccontato questo dolore affrontando l’handicap non solo frontalmente, ma trasferendolo in una dimensione mitica. Oggi però io con Jacopo ci vivo, e vivo e narro anche la sua quotidianità. In poesia una dimensione formale – non formalistica – va sempre trovata, ma credo che di dolore nella mia poesia se ne veda tanto. Per un’antologia sugli animali a cui ho partecipato ho mandato poesie sull’uccelletto che viene inghiottito dal serpente e sul capriolo divorato dal lupo. È reale il dolore che avvolge l’universo, e che in me prorompe con il mistero terribile di una diversità. La mia poesia si confronta con la perdita, con la paura della fine, del transito definitivo delle cose. Perché il dolore ci sbrana. Ma, nonostante tutto, la vita è bellissima. E non è un pensiero da poco. 

E la morte? Come la sbrana la morte in vita? O sbrana di più i  giovani la morte dei vivi? 

C’è un’età – l’adolescenza – in cui la morte è presente in maniera ossessiva. Infatti i suicidi avvengono soprattutto nell’adolescenza e nella prima giovinezza. Diciamo che con il passare degli anni l’idea della morte diventa sì meno ossessiva ma forse più evidente e costante. Ora per me il pensiero della morte è meno drammatico ma più presente. Perché tu sai che tanto tempo è passato. Forse ci si dovrebbe fare l’abitudine. Ma non è vero: non ci si abitua mai.

Andrea Di Consoli 

*In copertina: Umberto Piersanti in un ritratto fotografico di Dino Ignani

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