
Guido Morselli e la rivolta dei cacciaviti. Un testo ritrovato
Letterature
Linda Terziroli
“Dio solo basta”. I versi senza tempo di Santa Teresa D’Avila sono pazientemente intagliati sul legno, lettera dopo lettera, con un piccolo coltellino, da un frate, il monaco polacco Tadeusz, che vive da vent’anni a Preci, sulle morbide colline nell’eremitaggio di San Fiorenzo, in Umbria. È il 2017, nei dintorni di Norcia si consuma la quiete dopo il terremoto: siamo nel cuore del docufilm Storie di pietre, del regista e sceneggiatore Alessandro Leone che ha vinto con Massimo Donati il Nastro d’Argento Speciale per Fuoriscena, pellicola presentata al 31° Torino Film Festival e vincitrice di numerosi altri riconoscimenti in Italia e all’estero. Storie di pietre è stato presentato da poco in anteprima internazionale al 67° Trento Film Festival, dove si è aggiudicato il Premio RAI come miglior documentario di attualità, è stato inserito nella selezione ufficiale del Torino Cinemambiente e scelto, tra gli otto documentari italiani, nella selezione ufficiale del Cardiff Italian Film Festival.
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Immerso nel silenzio secolare della solitudine, a mille metri di altitudine, il monaco polacco è intento a riparare le lievi crepe della chiesa che si aprono dopo ogni scossa di terremoto. Il film è la storia, le storie nate dopo il violento terremoto delle 7 e 40 di quel tragico 30 ottobre 2016; ma al fragore del sisma, il regista preferisce il silenzio, ai dialoghi, la potenza delle immagini, in una fotografia che resta a lungo negli occhi. Siamo nella piccola, familiare, comunità della frazione di Frascaro di Norcia, che lotta per strappare alle macerie parti preziose della tela che valorizzava la loro antica chiesa, Sant’Antonio. Una chiesa che è ridotta a un cumulo di macerie e a uno scheletro di lamiera con il tetto a capanna. Si sente il frinire delle cicale, gli uccellini che cantano, nella morbida campagna che ricorda una preghiera francescana, dove persino le nuvole sembrano macerie di un terremoto, ridotte a brandelli. Le ruspe si fermano e si scava a mani nude. Quella del restauro è un’arte tutta femminile, con delicatezza le restauratrici accarezzano pietre che parlano ferite. Si estrae, nel rumore delle pietre, un candelabro, gli affreschi sono tenuti insieme da bende, sottili come la pelle.
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Il film è “immersivo”. Sulla dolorosa ricostruzione, piove come se persino il cielo lacrimasse, dal dolore. Nonostante il nero di nubi, come gabbiani, si vedono volare uomini in parapendio. Con la leggerezza di chi non ha ormai più nulla da perdere, nessun peso da portare. E solo Dio basta. Solo Dio basta anche nei moduli abitativi, dove la vita va avanti grazie a un piatto di spaghetti, al movimento ciclico delle lavatrici, si stendono i panni. Dei ragazzi giocano con il telefonino. Le parole si smorzano definitivamente quando si guardano le foto della chiesa, del paese di Frascaro, prima delle scosse di terremoto, come un mutilato rivede le foto di quel suo arto fantasma. Solo la natura e il suo respiro rimangono immutati mentre il film “fotografa” i volti dei bambini che erano un tempo quei vecchi di oggi. Lo sguardo del ragazzo di Frascaro ormai non è più triste. È rassegnato. “Qualcosa può essere ancora trovato”. Tra le vie del paese, i ragazzini, con una pietra nel pugno, bussano sui muri del paese ancora rimasti in piedi. Il rumore che fanno, il rumore di fondo, accompagna il film, è la storia atavica, primitiva, delle pietre. L’occhio del regista indugia sul volto di Cristo in croce, mutilato, sembra ancor più sofferente. Un bambino, intanto, diventa grande. Un passero ferito a morte, caduto dal nido, viene sepolto nella terra, con una croce di legno stilizzata. I richiami al Vangelo sono così numerosi che non vale contarli. Gli occhi guardano le macerie e si pensa a quello che abbiamo perso, a quello che era stato e che non tornerà più. A chi eravamo stati. E il garage diventa una camera da letto.
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Le immagini del restauro sono le più poetiche del film. La deposizione della Croce è un omaggio al Mantegna. Il Deposito di Santo Chiodo a Spoleto racchiude un tesoro ridotto a puzzle, a tessere di un mosaico che forse mai troveranno mai pace. Il chiodo infilato nei piedi di Dio, una vivida crudeltà. Il corpo di Cristo viene avvolto in un sudario e poi nella plastica. Gli uomini di Frascaro sollevano il cartello con il nome del paese, perché, si sa, se alle cose diamo un nome, esistono. Un agnellino, ancora sporco di sangue e di placenta, tenta faticosamente di sollevarsi e di avvicinarsi alla sua mamma. Impossibile non pensare al sacrificio. I rimandi al Vangelo sono ovunque. Scavando a mani nude nella montagna di macerie, si trova la mano piccola di una piccola statua. Ed è tutto nel tentativo di fare la processione tradizionale del paese il sacrificio narrato da questo film sulla ricostruzione di ciò che è andato distrutto, che prima di tutto è una ricostruzione spirituale, una rinascita. Delle macerie che sono anzitutto dentro di noi, dopo un terremoto, dopo il lutto di perdere tutto, e tutto ciò che eravamo. E il tentativo poetico, struggente, di ritrovarsi, insieme, nel dolore. E nella sua cura.
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Dopo il racconto corale di Fuoriscena – scritto e diretto con Massimo Donati – frutto di un anno di riprese nell’Accademia Teatro alla Scala, scuola d’eccellenza fra le più prestigiose a livello internazionale, sei tornato tra le pieghe dell’intimità di una vicenda corale e personale insieme, nel risvolto di una storia che diventa personale e dolorosa, con un messaggio alto, coraggioso. Di rinascita, ricostruzione, dopo la distruzione.
“È un film immersivo e che chiede immersione al pubblico. Questo genere di documentari di osservazione si generano lentamente, sui ritmi di ciò che raccontano. Guarda, Linda, penso che la realtà abbia una componente drammaturgica elevata: si tratta solo di farla emergere. I primi 13 minuti sono forse i più ostici, li ho girati sapendo di dover far conto solo su suoni e rumori, tutto il resto è un’immagine del mondo contadino che sta scomparendo. Volevo iniziare con una premessa che osserva i luoghi della distruzione. Poi il film inizia di nuovo con un briefing e i diversi frammenti di vita. Con l’approccio del documentario di osservazione, rinunciando a interviste e voci narranti, il film è un’immersione progressiva in un tessuto antropologico ferito per comprendere la relazione tra le persone e il territorio; il valore del sacro di fronte alla perdita dei luoghi di culto; la volontà di preservare tradizioni secolari e radici che affondano nel rapporto tra vita contadina e patrimonio artistico; la percezione del presente e la possibilità del futuro nonostante la minaccia incombente. Dagli anziani ai bambini, i protagonisti di Storie di pietre sembrano saldamente legati a questa terra magnifica e disgraziata”.
Che cosa hai voluto ritrarre?
“Il film intreccia luoghi e storie connesse dal sisma: la piccola comunità della frazione di Frascaro di Norcia, per niente rassegnata a perdere parti di una preziosa tela che valorizzava la loro antica chiesa; i restauratori volontari di Chief attivi a San Salvatore in Campi, perla del romanico di cui rimangono poche mura perimetrali; infine due luoghi silenziosi: il Deposito di Santo Chiodo a Spoleto, dove un team di restauratrici mette in sicurezza ciò che arriva da San Salvatore, Frascaro e da altri siti in macerie; l’eremo di San Fiorenzo, dove a mille metri, un eremita polacco, da più vent’anni, ripara la struttura dopo ogni scossa. Un lavoro solitario che ha reso robusta la pietra che abita con Dio. Il racconto procede per frammenti raccolti nello spazio filmico come tessere di un mosaico, in maniera simile al lavoro dei restauratori che tentano di ricostruire i magnifici affreschi della chiesa distrutta di San Salvatore. Gli stessi frammenti di racconto sono intervallati da “spazi neri” in cui le immagini mancano, lasciando solo i suoni. Non sono neri usati come punteggiatura, ma neri che marcano un’assenza, che definiscono per analogia la frammentazione di un tessuto sociale che improvvisamente si trova orfano di pezzi di vita quotidiana. Se gli interni claustrofobici del container contrastano con gli esterni luminosi, i suoni e i rumori di pietre, il vento, gli animali, fanno da collante tra uomini, paesaggi, icone sfregiate, e si fanno carico di significati anche dove le immagini non ci sono più”.
Sei ritornato sui luoghi del terremoto a distanza di tempo dalle riprese?
“Sì, ci sono tornato e ci torno ancora, perché sono nati legami forti con gli abitanti di Frascaro, con Tadeusz, con i luoghi, c’è dunque familiarità. Un film come Storie di pietre non si risolve in qualche settimana di riprese, è invece un percorso di conoscenza che chiede tempo. Quella delle zone colpite dal sisma è una realtà dolorosa e per questo ogni documentazione deve essere rispettosa del contesto, della vita delle persone che lo abitano. I mesi trascorsi a Frascaro hanno cementato un’amicizia che perdurerà, ne sono certo. La condivisione di storie personali e collettive è una cosa seria, è un atto di fiducia. Il film è ciò che emerge in superficie di questo legame”.
Come procede la ricostruzione?
“È da agosto che manco da Norcia, ma ciò che ho visto la scorsa estate e ciò che mi raccontano gli amici di Frascaro è uno stallo. San Salvatore in Campi è stata messa in sicurezza, dopo che i volontari di Chief Onlus avevano recuperato e catalogato ciò che rimaneva del patrimonio artistico sepolto. A San Benedetto sono iniziati timidamente dei lavori. Anche a Castelluccio. Sono state aperte delle strade. Per il resto, le frazioni attendono ancora interventi. Le casette alloggio che hanno svuotato i container non possono essere la soluzione. Mancano luoghi di aggregazione intorno ai quali ricostruire il tessuto sociale. Questo è il problema più grosso. Non basta una sistemazione temporanea, bisogna riattivare le comunità, permettere loro di riappropriarsi dei vessilli identitari che custodiscono la storia territoriale, come le opere d’arte, le effigi, anche solo ciò che rimane dopo i crolli. È per questo che nel film vediamo con quanta tenacia a Frascaro si sia scavato a mani nude per recuperare frammenti di una tela o di sculture lignee”.
Quali i tuoi prossimi progetti in cantiere?
“Sono in fase di scrittura. Su due progetti in verità. Uno ancora embrionale e che si propone di raccontare un quartiere di Mumbai (una realtà che frequento da quindici anni), l’altro è più definito ma siamo alla ricerca di fondi per lo sviluppo. Infine sto lavorando su un testo che racconta il cinema attraverso gli occhi dei bambini. Spero di poterlo pubblicare nel 2021”.
Linda Terziroli
*Alessandro Leone si è laureato all’Accademia di Belle Arti di Brera. Regista, sceneggiatore e critico, ha pubblicato diversi saggi sul cinema, tra cui Il girone del cinema di poesia, (in Pasolini – Un’idea in azione, AA.VV., ed. Abrigliasciolta, 2010), Corpo da ring – La boxe immaginata dal cinema (ed. Falsopiano, 2014), Viaggi in Italia (in Essere Vincent Price, AA.VV., ed. Falsopiano, 2014). Nel 2013, con Massimo Donati, scrive e dirige Fuoriscena (Opening Act, 2013); presentato al 31° Torino Film Festival, il documentario ottiene il Nastro d’Argento speciale 2014 e numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero. Nel 2010 scrive il documentario diretto da Daniele Azzola, La via del ring, Guirlande d’Honneur al 28th International Sport Movies & Tv di Milano. Nel 2009 è co-autore della serie di dieci documentari per Yamm 112003 – Gruppo Endemol, Portraits – Ragazzi venuti da lontano. L’anno prima co-sceneggia il film diretto da Federico Rizzo Fuga dal call center, Agave di Cristallo alla sceneggiatura per i migliori dialoghi e premiato come Miglior film al Clorofilla Film Festival nel 2011. Del 2005 è la sua prima regia, il cortometraggio La fune, premiatissimo in diversi festival italiani ed esteri. Storie di pietre è il suo secondo lungometraggio da regista. Il documentario è stato presentato in anteprima assoluta al 67° Trento Film Festival, dove si è aggiudicato il Premio RAI Trento come miglior documentario di attualità.
Storie di Pietre Scritto e diretto da Alessandro Leone. Musiche originali di Rolando Marchesini. Prodotto da Ester Produzioni e Start, Distribuito da Start, Italia, 2019. Durata 74’