L’esperimento non ammetteva repliche né ritardi. Cosa avrà da dirmi, ora, un racconto che ho scritto allora, quattro anni fa? La domanda, resa ferina dal caldo, mi ha morso. L’antefatto è questo. Nel 2015 – era estate, credo – Maria Cristina Ballestracci, artista, mi chiede un racconto da accorpare a un suo lavoro. Il lavoro si chiama “Oltrepassi 201”. La Ballestracci ha raccolto, dalla spiaggia di Fiorenzuola di Focara – dove spira il dantesco “vento di Focara” – una sfilza di scarpe, abbandonate, risorte dal mare, chissà. Dall’abbandono, tramite opera di recupero artistico, si risale all’individuo: a 21 scrittori l’artista ha chiesto di abitare una scarpa. La scarpa che mi è stata affidata non è più una scarpa: è una piastra nera, la lingua essiccata di un rinoceronte. Il progetto, connesso a Matera 2019, vede i testi, tra gli altri, di Eraldo Affinati, Franco Arminio, Marcello Fois, Lina Colasanto, Nada, Marco Paolini. La Ballestracci, aiutata dalla giornalista Rai Giovanna Greco, ha fatto vagabondare il progetto in giro per l’Italia. Pensando a quei reperti masticati dal mare, non penso solo alla cronaca dilaniante dell’oggi, ma alle età dell’uomo: al soldato a Lepanto, all’oplita di Alessandro, alla donna accusata di stregoneria che tentava vie orientali alla scoperta dell’amare. Che cosa incatena l’uomo di oggi al suo se stesso, secoli fa? In ogni caso. Quattro anni fa ho donato all’artista un racconto, s’intitola “Ingrid”, poi ne ho perso le tracce, l’ho cancellato, per capire cosa sarebbe nato dal sepolto. Quando l’artista mi fa sapere che il suo progetto, insieme ai racconti degli autori, è esposto per esteso ai Magazzini del Sale di Cervia – fino al 14 luglio – perforo il muro della calura, vado. Voglio vedere chi ero quattro anni fa. Che cosa ho scritto. Fotografo il racconto. Lo leggo. Lo rileggo. Il mio ritratto è sempre quello: uno che al posto del viso ha il buco di un chiodo. Sono sempre lo stesso, infine, perfino in quella millimetrica richiesta di perdono – e mi illudo, forse, di essere più feroce. ‘Lo stesso’ è il Credo, un Salmo, l’idiota. (d.b.)
***
Ingrid
“Mio padre è morto da 25 anni”.
“Lo so. Oggi compio gli anni”.
“Pensando di fare il bene, gli uomini compiono il male”. Non lo disse, regalò a se stesso questa frase. Suo padre era morto quando aveva dieci anni. Ma la verità sulla sua morte gli era stata rivelata dieci anni dopo. Suicidio. Allora, declinò la sorpresa, l’orrore, dicendo, “l’esito non cambia”. Da quel giorno imparò a mentire.
L’aveva portata a Farö, a visitare la casa di Ingmar Bergman. Il sole pietrificava la sua bellezza, la rendeva infinita. Le toccò il viso e pensò se sarebbe stato in grado di replicarlo, sul legno, sul vento. Era un viso che poteva sparire. Il mare aveva rigurgitato tronchi sulla spiaggia. Sembravano giaguari. Accucciati da un millennio, a proteggere i confini di una foresta azzurra. Immaginò l’era in cui i lupi trottavano su quell’isola.
“Ricordi perché tuo padre ha voluto chiamarti Ingrid?”.
“Ricordamelo”.
“Ingrid Thulin. La musa di Ingmar Bergman”. Compiva 25 anni. Il padre era morto il giorno della sua nascita. Un incidente casalingo, il gas, le dissero. Le dissero di averlo trovato di sbieco, sconvolto, con le gambe sul petto e le scarpe sulla faccia. Ricordò il particolare delle scarpe che coprivano per sempre il viso del padre. Sembrava nordica, il viso duro, ma era nata a Torino.
“Bergman era un sessuomane”, le disse. La sua carriera universitaria aveva avuto una svolta qualche anno prima, quando aveva scoperto una drammaturgia inedita di Ingmar Bergman. S’intitolava La sorella del Papa. Bergman immagina un pontefice che decida di ritirarsi in un convento, in un’isola del Nord. Insieme alla sorellastra, molto più giovane di lui, che gode a seviziare. La protagonista di questo film atroce avrebbe dovuto essere Ingrid Thulin. Per questa scoperta, gli avevano assegnato un corso all’Università di Torino e una cattedra a Stoccolma.
“Dimmi perché ami ripetere il mio nome quando facciamo l’amore”, gli disse, nuda, più tardi. La notte costringe alle intimità, alle intimidazioni. Ma lui non le disse che lei, Ingrid, era la sua sorellastra. Ci aveva messo anni a trovarla, a sedurla. Era curioso. Se l’avesse messa incinta, il figlio sarebbe stato uguale a loro padre? Sarebbe nato un demente, un demone? Li avrebbe perdonati?
Davide Brullo
*In copertina: Ingrid Thulin (1926-2004). Scoperta da Ingmar Bergman, che la vuole per “Il posto delle fragole”, è una delle sue attrici-feticcio. Tra i film ricordiamo “Luci d’inverno”, “L’ora del lupo”, “Sussurri e grida”