16 Novembre 2019

“Un bambinetto esile, di circa undici anni, che tremava intirizzito”: storia del ragazzo che odiava i tedeschi. “L’infanzia di Ivan”, un libro che non si dimentica

“Che libro vuoi?” mi domanda. “Voglio una storia che non si dimentica”. Di passaggio dalla sua biblioteca, sbirciando tra gli scaffali zeppi di libri, ho risposto così a Silvio Raffo, poeta, scrittore, traduttore della Dickinson e di tante altre poetesse, ma anzitutto il mio professore di lettere al Liceo. Così, mi ha messo tra le mani L’infanzia di Ivan, di Vladimir Bogomolov, il Saggiatore. L’infanzia di Ivan non è soltanto il noto capolavoro di Andrej Tarkovskij del 1962, ma è principalmente il romanzo d’esordio (1958) dello scrittore russo Vladimir Bogomolov, che prima (e dopo) essere autore di questo gioiello narrativo, ha combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, guadagnandosi i gradi di ufficiale e ha trascorso nell’esercito il resto dalla sua vita.

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Nel romanzo, sei immerso nel gelido fango del secondo conflitto, in Bielorussia, sulle opposte sponde del fiume Dnepr, i due eserciti nemici si fronteggiano da settimane. Nel capanno del tenente Gal’cev, che racconta la storia, fa il suo ingresso Ivan, “un bambinetto esile, di circa undici anni, che tremava intirizzito; aveva i pantaloni e la camicia appiccicati al corpo tanto erano zuppi; e i suoi piccoli piedi scalzi erano coperti di fango fino alla caviglia”. Ma chi è Ivan? Il ragazzino dai capelli biondi non vuole parlare ai sottoposti, dice di chiamarsi Bondarev ma, ostinatamente, non vuole aggiungere altro, se non: “Riferisca allo stato maggiore, al cinquantuno, che io mi trovo qui.” Il resto non deve interessare. Tra le scapole sporgenti, un grande neo nero, sul lato destro “spiccava la cicatrice vermiglia di una ferita che sembrava di proiettile”.

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Con pochi semplici tratti, Bogomolov ci fa dono della semplice e tragica storia di Ivan, che passo dopo passo stringe il cuore per il suo mistero e nella sua tenera violenza. Chi è il piccolo Ivan? Da dove viene? È davvero un informatore sovietico che si infiltra tra i nazisti? Come fa ad attraversare, a nuoto, il fiume gelato? Ma poi cosa ci fa un ragazzino della sua età nelle zone di guerra, interdette ai civili, soprattutto sotto il fuoco incrociato dei due eserciti, a rischiare la pelle prima e più dei militari, a gettare in pasto alla guerra la sua così tenera vita? La sua storia commuove e appassiona perché ancora oggi pensiamo che ci sia un limite temporale tra l’infanzia e l’età adulta, un momento per smettere di indossare gli abiti puerili e finalmente essere pronti per atti di coraggio. Ma è davvero così? Non è forse vero il contrario? Come fa Ivan a trovare il coraggio di affrontare il nemico? Non gioca alla guerra, la combatte, da eroe, da impavido veterano. Perché ci ostiniamo a pensare di proteggere gli occhi dei bambini dal male? Anche quando il male è inevitabile, entra nella loro pelle così porosa, si fa largo fino in fondo all’anima. L’ardimento richiede riguardo, attenzioni, piccoli ma importanti doni. La cura dei particolari, nella missione, deve essere massima. La guerra ha colpito il piccolo Ivan con una ferocia che ha acceso in lui una furia vendicativa; “venni a sapere che il piccolo Bondarev era di Gomel’, ma che prima della guerra viveva con i suoi genitori in una località di frontiera, sulle rive del Baltico. Suo padre, che apparteneva alle truppe di pattuglia sul confine, era stato ucciso il primo giorno di guerra. La sua sorellina, che aveva un anno e mezzo, era morta tra le sue braccia durante una ritirata”.

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L’intensità della sua sofferenza è pari all’odio che nutre acerbo e intenso per i tedeschi. Ma ci sono anche le sue piccole tenerezze di fanciullo e una passione intensa, fremente, quella per i pugnali. Quando il tenente appende il pugnale cesellato alla cintura, Ivan si infiamma d’ammirazione, vuole il pugnale. Il tenente, però, non può darlo. È un regalo, anzi è un dono, meglio, un furto, con le iniziali del suo amico Konstantin morto in guerra. Glielo ha sfilato, dopo la sua fine. L’intenzione, ragionevole, del tenente è quella di consegnare il pugnale, una volta terminata la guerra, ai famigliari dell’amico caduto. Ma che cosa sarà mai un pugnale? Gal’cev promette che gliene regalerà un altro, ma poi passa per essere meschino, “un tirchio”. Il pensiero del pugnale lo attanaglia, ne commissiona uno uguale, al fabbro del suo battaglione. Eppure, eppure. Quante volte ci accorgiamo che il destino si oppone alle nostre buone intenzioni? Ma poi perché non donare quel pugnale al ragazzino così valoroso? Dopo la scomparsa del fanciullo, il pugnale gemello viene affidato al colonnello Grjaznov affinché lo faccia avere a Ivan. Il tenente scopre così che il ragazzino ne ha una cassa piena, quella dei pugnali è un’autentica passione da collezionista. Allora il pugnale sigilla forse il momento? È un simbolo? Un’amicizia, sul nascere, già troncata, recisa, dalla guerra. Il colonnello consiglia a Gal’cev di dimenticare Ivan, eppure lui non è mai riuscito a dimenticarlo. Come potrebbe? L’innocenza tradita, uccisa non si dimentica.

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La guerra, coi suoi aspri combattimenti, finisce, e ci ritroviamo nel cuore di una Berlino grondante di sangue, il tenente ferito gravemente ormai utilizzato come retroguardia e interprete nella sezione informativa. “Berlino è caduta il 2 maggio, alle tre di pomeriggio. In quell’ora storica, il nostro gruppo operativo si trovava proprio nel centro della città, in un edificio semidistrutto della Prinz-Albrecht Strasse”, la sede della Gestapo, insomma. Tra il bunker, la puzza dei cadaveri, i crateri delle bombe, il tenente taglia le corde di alcuni pacchi, con il pugnale. Si tratta di documenti della polizia segreta militare, che si riferivano all’inverno 1943-1944. Inizia a cadere una pioggia gelata sopra una Berlino sconfitta e, tra gli incartamenti, il tenente trova il nome di Ivan, il suo volto, si trova di fronte alla certezza spietata della sua morte. “Dopo il frastuono di dieci giorni di combattimenti feroci, regnava un silenzio interrotto, di tanto in tanto, da raffiche di mitra”. Un’ultima cartella tra le mani. È quella di Ivan. “L’ho riconosciuto subito per via di quella sua faccia dagli zigomi sporgenti e dei suoi occhi, molto distanti l’uno dall’altro. Non avevo mai visto nessuno che avesse gli occhi tanto distanti. Guardava di traverso, come un giovane toro, con lo stesso sguardo che aveva durante il nostro primo colloquio nella base, sulla sponda del Dnepr. Sotto lo zigomo, sulla guancia sinistra, si vedeva la macchia scura di un livido”. Ma dove sarà finito Ivan? Il tenente gira il foglio con trepidazione, in cerca di una risposta, con una stretta al cuore. Ivan non aveva perduto il suo disprezzo per i nazisti. Le ultime parole del romanzo di Bogomolov sono un epitaffio, su cui non si può che gettare uno sguardo di preghiera. “Durante l’interrogatorio, ha sempre conservato un atteggiamento provocatorio; non cercava di nascondere il suo odio per l’esercito tedesco e per il Reich. In adempienza alle direttive dell’Alto Comando delle Forze Armate dell’11 novembre 1943, è stato fucilato il giorno 25 dicembre 1943 alle 6.55”.

Linda Terziroli

*In copertina: “L’infanzia di Ivan” è il film, tratto dal libro di Bogomolov, con cui Andrej Tarkovskij ottiene il Leone d’oro a Venezia, nel 1962

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