“Voglio che la gente trovi da sola la sua strada”. Omaggio a Paul Feyerabend
Filosofia
Luca Bistolfi
Scrivere articoli come questo non è mia abitudine e mi scoccia oltremodo: ma siamo dinnanzi a un caso speciale.
Ricevo dal Saggiatore, casa editrice prestigiosa e non di rado raffinata, un testo intitolato Il grande libro della morte. Miti e riti dalla preistoria ai cyborg. L’autrice, Ines Testoni, è professoressa di psicologia sociale e direttrice del master in Death Studies & The End of Life presso l’università di Padova. Ha inoltre pubblicato per altri importanti editori, quali Einaudi, Bollati Boringhieri e Utet. Ma soprattutto, cito dal risvolto di copertina, è «riconosciuta tra i cento scienziati più importanti a livello nazionale per gli studi sulla morte». Un curriculum invero di tutto rispetto: mi domando tuttavia se la parola «scienziato» non sia eccessiva, anzi inopportuna, e se questo popò (scusate, la barra spaziatrice ogni tanto è difettosa) di galloni e titoli abbia un fondamento nelle conoscenze della signora.
Oltre alla generale inutilità dei contenuti, raffazzonati e trattati in maniera scalcagnata e non di rado triviale, che non aggiungono nulla e semmai sottraggono alla nobile tanatologia, il libro si presenta lardellato di veri e propri orrori per tutti i gusti. Quanto alla lingua italiana, essa è uno dei tanti cadaveri di questa ecatombe.
Sono opinabili giudizi personali? Giudicate voi.
A p. 9, la prima, apprendiamo: «Al rientro, dal Brasile mi portavo dietro il portoghese». Ma forse si trattava di un fidanzato e non dell’idioma, visto che Testoni scrive saudaji invece di saudade. Va bene che l’autrice specifica di aver perduto col tempo la lingua (purtroppo non quella che ha in bocca), ma saudade è una parola internazionale e non la sbaglierebbe neppure un turista durante il carnevale di Rio. Dal Brasile, passiamo alla Germania e scopriamo che la catastrofe di Dresda non è l’unica che si sia abbattuta su quella nazione.
Testoni non manca mai di citare spesso altisonanti concetti in tedesco, ma è chiaro che né di lingua, né di cultura germaniche conosca granché. A p. 182 scopriamo che Richard Wagner scrisse «L’anello dei nibelunghi, il Parsifal, il Sigfrido». Quali libri abbia letto la signora, resta da capire. La Tetralogia wagneriana si intitola L’anello del Nibelungo, al singolare, e il Sigfrido ne fa parte, non è un’opera a se stante. Poco più oltre leggiamo: «L’idea che piaceva a Hitler, e che comunque compendiava un profondo e radicato sentimento della cultura tedesca ed europea del diciannovesimo secolo, venne espressa da Wagner nel testo Das Judenthum in der Musickche, nella quale […]». Dolenti, ma «testo» e «nella quale» non concordano e soprattutto musica in tedesco si scrive Musik, e non Musikche, parola inesistente.
Lasciamo poi stare la trita banalità sul «profondo e radicato sentimento della cultura tedesca ed europea» di stampo antisemitico: prima la studi, questa cultura, cara professoressa; poi, se proprio le scappa, ne parli. Ma a bassissima voce, la prego.
Quanto alle considerazioni sul preteso antisemitismo wagneriano, constato che a insistere con queste imbecillità da gazzettiere di provincia sono soltanto scrittori infarciti di pregiudizi e soprattutto privi di qualsiasi conoscenza sull’argomento. Prova ne sia quanto Testoni scrive poco dopo: «Senza dubbio, se tutti gli ebrei avessero adottato la soluzione dell’autore di Sesso e carattere [il suicidio, ndr], si sarebbe interamente inverata l’istanza wagneriana». Dunque Wagner avrebbe addirittura auspicato lo sterminio degli ebrei! Ma tu senti che finezza filologica! L’affermazione è soltanto un’abominevole idiozia, non supportata da alcun riferimento testuale, che infatti non esiste. Testoni non ha mai letto il testo incriminato di Wagner e si è affidata, temo anche capendoli poco, a terzi autori. Ma davanti a simili cretinate e a una simile imperizia non ci sono argomenti, se non lo sberleffo o qualcosa di peggio. Rinuncio anche a commentare un accenno alla musica wagneriana: se Testoni ignora persino come si scriva la parola musica in tedesco, figuriamoci se sia in grado di ascoltare e capire anche soltanto un Preludio. In definitiva, la nostra accademica è solo un’orecchiante, bisognosa per giunta di un buon otorino.
Capolavoro di banalità è il passo che segue (p. 178): «Nessuna empatia, grazie a quella raccolta di irripetibili idiozie in cui consiste il Mein Kampf e a quell’esempio che incarnava tali contenuti, un uomo assolutamente banale che non è neppure riuscito a laurearsi ma perennemente immerso in ovazioni di massa: Hitler». Anche qui la lingua italiana se la vede brutta; ma il problema è tutto il resto.
Rigettare l’esperienza nazionalsocialista è legittimo e talora persin doveroso, anche se non molto originale. Ma nemmeno uno studente di scuola media si esprimerebbe con così tanta sciatteria. Ho lavorato per un certo periodo di tempo presso una fondazione di ricerche storiche, costituita e diretta da un’ebrea incarognita contro ogni manifestazione, reale o presunta, di antisemitismo: ma se le avessi presentato un testo di “analisi” come quello di Testoni, mi avrebbe preso a pedate nel didietro; ve lo garantisco.
Si noti poi la grazia della scienziata: quale ulteriore titolo di demerito, Hitler avrebbe anche la mancanza di una laurea. Anzi: non essere riuscito a laurearsi. Perdio! C’è ancora gente che misura le persone, quali che siano, sul conseguimento di un titolo universitario! Con lo stesso metro balordo e basandomi sulle qualità culturali di Testoni, mi verrebbe da dire che forse è meglio che non ci si laurei, visti i risultati. Inoltre Hitler, come sanno tutti, non si avvicinò mai all’università.
Lasciamo la Germania e voliamo in Grecia. Mi scuso in anticipo poiché dovrò essere un poco pedante.
A p. 234 leggiamo: «L’hypér-ouranós, evocato da Platone nel Fedro, è il regno che sta sopra la volta celeste, oltre il visibile, è il termine che indica lo “stare” (stéme) “sopra” (epí), il luogo da cui proviene ogni conoscenza certa intorno alla salvezza dalla morte (arché)». Precediamo con ordine. Platone non ha mai scritto quella parola hypér-ouranós: scrive invece (Fedro, 247 c) «Τὸν δὲ ὑπερουράνιον τόπον […]», dove la parola comunemente tradotta con «iperuranio» al nominativo sarebbe ὑπερουράνιος (hyperouránios) e non quella roba che ha scritto Testoni. E avanti. Il verbo «stare» non è stéme, bensì hístemi (ἵστημι), da cui epistéme, cui allude (male) la scienziata. Infine, dalla frase successiva sembra che morte in greco sia arché, poiché, sappiamo, di solito nella parentesi si traduce la parola precedente. Peccato però che morte sia thánatos e arché abbia significato affatto opposto – almeno giusta la biologia –, ossia principio. Alla faccia della scienziata! Si potrebbe dedurre che Testoni abbia voluto indicare con arché quel «luogo da cui proviene…» eccetera, ma sarebbe, ben più di una forzatura, una boiata. Sorvolo poi sulla collocazione a casaccio, in altri punti del libro, di molti accenti sulle parole greche, uno dei cata (o entero-) clismi minori.
Di passata ecco poi un paio di chicche: «Il 20 gennaio del diciassettesimo secolo…» (p. 186): un modo davvero singolare di datazione; e a p. 200: «Dopo la dichiarazione dei diritti inalienabili dell’uomo…»: se la Dichiarazione universale dei diritti umani non ha cambiato nome, ignoro a cosa si riferisca la futura ambasciatrice.
Non paga di aver devastato portoghese, italiano, greco, tedesco, musica e documenti delle Nazioni Unite, la signora professoressa se la piglia anche coi filosofi.
«Coevo a Weininger – si legge a p. 199 – anche il goriziano di origini ebraiche Carlo Raimondo Michelstaedter rifletteva sul tema dell’identità. La sua ricerca è molto profonda e anche complessa, interamente focalizzata sul problema dell’autenticità. Nella sua tesi di laurea La Persuasione e la Rettorica, scritta nel 1910 e mai discussa perché il giovane filosofo si suicidò all’età di 23 anni, il pensiero greco viene riconosciuto come il fondamento della più autentica “persuasione”, ovvero del parlare non per mistificare la realtà e costruire menzogne come accade invece nella politica contemporanea, ma per stabilire il discorso più convincente, quello che persuade, appunto».
In questa manciata di righe ci sono almeno tre cose che non quadrano. Primo, citare il secondo nome Raimondo è un’ostentazione superflua. Almeno dal 1958, anno della prima edizione un po’ seria delle opere michelstaedteriane, se non già dal famoso «Suicidio metafisico» di Papini del 1910, tutti conoscono il pensatore goriziano col solo primo nome: perché allora non scrivere Wilhelm Richard Wagner o Paul Thomas Mann? In secondo luogo anche Testoni scrive «si suicidò», solecismo frequente o ormai entrato in uso tanto nel parlato quanto nello scritto. Ma da una scienziata pretendiamo più sorveglianza. Terzo, la sintesi della filosofia michelstaedteriana, oltreché ridicola, è anche sbagliata. Il concetto di «persuasione» a Testoni sfugge del tutto, insieme al resto.
Una piccola perla, a p. 290, riguarda Simone Weil, la quale, secondo la professoressa, sarebbe morta «di stenti per anoressia e tisi a quarantaquattro anni». Sui motivi della morte di Simone Weil ci sarebbe da discutere, così come, ancora una volta sull’italiano. Ciò che invece è certo, è che la filosofa morì a trentaquattro anni. Insomma: colei che millanta di essere una dei cento esperti di studi sulla morte ignora persino le sottrazioni tra due date. Vi lascio poi immaginare che cosa abbia combinato parlando della filosofia weiliana.
Evito di rilevare l’eccesso di autori citati: nemmeno Umberto Eco o Mario Bortolotto ingravidavano con così tanti nomi i loro libri, anche se essi avrebbero potuto farlo con cognizione di causa. In realtà più che citazioni stricto sensu, quelli della Testoni sono elenchi telefonici accatastati per ostentare una cultura a dir poco abborracciata.
Ci sarebbe da rilevare molto altro, ma, come scrive Ceronetti, la carta è stanca, e immagino anche voi siate spossati da questo pessimo grand guignol. Ma per equanimità voglio ancora evidenziare che Ines Testoni è bensì ciò che esprime il suo cognome; ma mi domando: gli impiegati del Saggiatore addetti alla revisione del testo non si sono accorti di questo cumulo di fesserie ed errori? Delle due, l’una: o sono privi degli strumenti adatti alle loro mansioni, oppure hanno preferito soprassedere e non urtare la sensibilità della professoressa. E chi mai oserebbe correggere un docente universitario con schiere di studenti lì pronte ad acquistare i suoi libri?
Naturalmente ho segnalato questi orrori alla casa editrice, con una lettera riservata all’ufficio stampa, il quale però, dopo personali ringraziamenti, mi ha fatto sapere che pur prendendo in visione i rilievi, i colleghi non risponderanno. Pare non sia la prassi.
E così possiamo concludere, che, insieme alla cultura, anche l’educazione è andata in malora.
Luca Bistolfi