Ho da poco terminato di leggere il libro di Sandro Gerbi e Raffale Liucci, studiosi di cose italiane e collaboratori rispettivamente del «Corriere della Sera» e del «Sole 24 Ore», dedicato a Indro Montanelli, uscito già qualche anno fa in due volumi per Einaudi e ora riveduto per Hoepli. E mentre infilo il foglio nella mia Lettera 22 (una pura casualità…), mi domando perché lo stia facendo. Perché infatti dedicare il tempo mio e dei lettori di «Pangea» a un personaggio a dir poco sopravvalutato, quasi sempre molesto e sovente ambiguo?
Ma forse è un dubbio solo personale, quindi lo accantono. Ci sono ancora molte persone, soprattutto di una certa età, che ritengono valga la pena o sia persin doveroso conoscere le imprese professionali del «principe del giornalismo», come qualche buontempone lo ha definito. Sicché mi avventuro volentieri in questa impresa, ponendo un’altra domanda: il libro di Gerbi e Liucci può essere utile per conoscere più da presso quella testa coronata delle gazzette? Sì e no. Dipende da cosa si cerchi e da quali pretese si abbiano. Spigoliamo.
Indro Montanelli è un libro senz’altro ben confezionato: si fa leggere in un amen ed è fitto di utilissime citazioni e di svariate note (ahimè, alla fine dei capitoli). Un vero lavoro di archivio scritto però con piglio brillante. Non c’è una sola pagina noiosa e talune suscitano persino un sorriso, nonostante il soggetto non induca certo al buonumore. Inoltre non è agiografico o liturgico come la più parte degli scritti dedicati a Montanelli: il che è già di per sé un valore aggiunto.
Gioverà senz’altro il capitolo «Il “sovversivo”», in cui gli autori, e forse sono i primi a farlo, rivelano che il furor anticomunista di Montanelli, costante in tutta la sua carriera almeno fino al 1991, anno della liquidazione dell’Unione Sovietica, si declinava non soltanto nella militanza ideale o ideologica e giornalistica, ma anche nel curioso tentativo di allestire, insieme ad altri, un piano politico-militare per sventare una possibile vittoria dei rossi. Ma il lettore non si inganni, ché Gladio non c’entra: Montanelli era molto più estremista e raffazzonato, come dimostra l’intenzione di coinvolgere nel progetto addirittura la mafia.
Aspetto succoso del libro è aver sovente messo in luce la pressoché totale assenza nel fucecchiese di intuito politico e storico, caratteristica che emerse in maniera assai perspicua, pericolosa e, lasciatemelo dire, criminale, ad esempio quando l’allampanato giornalista liquidò con sufficienza la P2 e il suo Gran Maestro, Licio Gelli. Una sufficienza che, se non si conoscesse Montanelli, potrebbe puzzare di complicità o almeno di contiguità. E invece era solo disinvolta fessaggine. O almeno si spera.
Forse ancor più infame, anche se non disgiungibile dall’episodio precedente, è la serqua di lunghi articoli, in tutto cinque, con cui Montanelli, allora cinquantenne e quindi non certo alle prime armi, tentò di fare a pezzi sul «Corriere della Sera», da sempre il quotidiano più letto e diffuso d’Italia, Enrico Mattei. E ciò solo a tre mesi dal suo assassinio. Assassinio, ça va sans dire, a cui Indro non credette mai. Non si sa o non si dice se Montanelli fosse stato imbeccato da qualcuno oppure fosse soltanto in perfetta aderenza con la stragrande maggioranza del giornalismo italiano, un misto di superficialità, pavidità e corruzione. A ogni buon conto, attaccare in maniera programmata e reiterata uno dei pochi italiani in alto loco intenzionati a tutelare gli interessi del nostro Paese, la dice assai lunga sull’estensore di quella specie di dossieraggio, peraltro assai sgangherato.
Venendo ad anni più recenti, Gerbi e Liucci hanno il pregio di ricostruire in maniera assai accurata la rottura tra l’allora direttore del «Giornale» e Silvio Berlusconi e di descrivere alcuni retroscena, che portarono al naufragio della «Voce», il quotidiano fondato da Indro dopo l’uscita dalla sua prima creatura. Peccato soltanto non poter qui contribuire a integrare la vicenda con certune informazioni acquisite di recente: non ho né la voglia, né i soldi per finire in tribunale. In questo Paese è molto facile finire stritolati da una giustizia non sempre equanime, soprattutto se si tocchino certi mostri sacri.
Questo Indro Montanelli ha tuttavia anche delle magagne, e non dappoco. Ne enumeriamo qualcuna tra le più rimarchevoli.
Iniziamo con la meno grave, ossia l’assenza del benché minimo riferimento, proprio nel capitolo dedicato alla «Voce», all’iniziativa editoriale cui Montanelli partecipò come magna pars nel torno di tempo tra la preparazione del nuovo foglio e il suo abbrivio (1994). Gli autori passano bensì in rassegna l’attività montanelliana di quel periodo, rievocando la costante presenza del giornalista sulla scena pubblica attraverso «interviste rilasciate, programmi televisivi, promozioni della nuova creatura in giro per l’Italia e interventi giornalistici» e a una rinnovata ricomparsa sul «Corriere della Sera». Ma in questo carosello non c’è traccia di un rinato «Borghese», che però abortì dopo solo una decina di numeri.
Assai meno scusabile, soprattutto in due autori per il solito scrupolosi, è il trattamento riservato a Piero Buscaroli, a lungo collaboratore di Montanelli al «Giornale». E ciò non tanto perché lo apostrofano dandogli di «repubblichino», seppur tra virgolette, quanto soprattutto perché non hanno saputo o voluto sfruttarlo, forse proprio per via del pregiudizio denunziato da quel volgare attributo. Buscaroli sarà pure stato un «repubblichino», ma era una delle persone più informate su Montanelli. Ciò risulta chiaro dal libro di memorie buscaroliane Dalla parte dei vinti (Mondadori 2010), il cui capitolo «Ma chi è questo Piero Santerno?» non ricostruisce soltanto la querelle sullo pseudonimo imposto da Montanelli al suo collaboratore fascista per non dispiacere a certe firme del «Giornale» e giustamente rievocato da Gerbi e Liucci, ma altresì scopre gustosi, o disgustosi, aspetti di Montanelli. Tre esempi.
Il primo riguarda l’invasione sovietica in Ungheria. Com’è noto, Montanelli era presente a Budapest in veste di cronista e l’evento contribuì sensibilmente a rafforzare la sua carriera e la sua mitologia. Ma le cose si svolsero piuttosto diversamente da come ci riferiscono Gerbi e Liucci, i quali asseverano, di certo in buona fede, la versione ufficiale della vicenda. Sentiamo come in realtà si sarebbe comportato Montanelli secondo Buscaroli:
«I russi invasori rilasciavano i permessi d’uscita [dall’Ungheria] non alle persone, ma alle targhe delle automobili, e l’Indro se ne andò a bordo di una macchina di francesi, di cui gli eroi nostri connazionali s’erano impadroniti con l’inganno, compresi i permessi timbrati dei francesi, che rimasero a terra. Queste cose andò a raccontargli [a Longanesi] Vittorio Mangili, “il repubblichino della Rai”, che i suoi servizi li aveva fatti tra cannonate e raffiche di mitraglia, all’aperto, nella città. L’Indro non era mai uscito dalle cantine dell’Ambasciata d’Italia, e aveva fatto i suoi “pezzi” con le notizie e le scene carpite a lui».
Il secondo riguarda Leo Longanesi, figura abbastanza presente nel libro e che passa per essere il padre spirituale del collega toscano. Ma Longanesi non amava affatto Montanelli, né lo stimava. E profetizzò: «Quell’Indro finirà nel piscio».
Altra interessante rivelazione di Buscaroli – che tuttavia nell’ambiente è nota da sempre – riguarda la popolare Storia d’Italia, in più volumi, e la biografia di Longanesi. I libri risultano scritti, i primi, da Montanelli, Mario Cervi e Roberto Gervaso, la seconda, da Montanelli e da Marcello Staglieno. Pare tuttavia che la fatica fu tutta sulle spalle dei coautori e che Montanelli non scrisse nemmeno un rigo, né forse lo lesse. Anche se di certo si prendeva il cinquanta percento dei diritti d’autore.
Altra perplessità suscita in questo Indro Montanelli la vaghezza con cui, nelle pagine dedicate alla porcata contro Enrico Mattei e poi alla fondazione del «Giornale», Gerbi e Liucci parlano di Eugenio Cefis, una delle figure più losche e sordide che abbiano attraversato la storia italiana tra gli anni Quaranta e Cinquanta, su cui si è scritto parecchio. Ci si legga ad esempio Questo è Cefis e L’uragano Cefis, due libri con una storia editoriale assai interessante, fatta di censure e misteriose sparizioni persino dalle biblioteche, oggi fortunatamente stampati dall’editore Effigie. In quegli anni chi doveva, ben sapeva chi fosse quell’individuo. Ma Montanelli non ebbe alcuno scrupolo ad avvalersi dei suoi soldi per fondare e mantenere «il Giornale». Perché Gerbi e Liucci preferiscono sorvolare su Cefis e sulla liaison di Montanelli? È un atteggiamento ben strano da parte di chi non perde occasione di divagare per informare circa alcuni personaggi o episodi della storia italiana assai significativi. Ed è strano anche per chi quando deve mazzolare qualcuno, ad esempio i socialisti e Craxi oppure, nemmeno a dirlo, il fascismo e Mussolini, sa dar di piglio alla penna con grande abilità. Su Cefis invece la penna si fa molto timida.
A proposito di fascismo e di divagazioni, i due studiosi giustificano abilmente lo scempio di piazzale Loreto, in cui, nell’aprile del ’45, la folla inaugurò l’incipiente repubblica democratica e antifascista lardellando i corpi di Mussolini, della Petacci, Achille Starace e altre sedici persone, fucilate a Dongo, con legnate, sputi e piscio, indi appendendoli a testa in giù. La furia popolare sarebbe stata giustificata dall’esasperazione di vent’anni di regime e cinque di guerra e la scelta non luogo non fu casuale, poiché proprio lì, nell’agosto del 1944, tedeschi e fascisti avevano fucilato una banda di partigiani. Ma è tutto così chiaro e lineare? Secondo Buscaroli, che su questo tratto di storia è una miniera di informazioni, proprio per nulla. Leggiamo:
«Vi hanno nascosto che cosa gli eroici partigiani erano andati a fare nel Piazzale [Loreto]. Rispondono, ci erano andati ad ammazzare i tedeschi che sul Piazzale ci andavano tutti i giorni. A fare che cosa ci andavano tutti i giorni, ecco il mistero. Ci andavano tutti i giorni per distribuire il latte alle massaie. La guerriglia aveva reso troppo pericolosa la raccolta quotidiana del latte appena munto dalle cascine dei dintorni, le mucche soffrivano a non essere munte e mandarono una delegazione al comando tedesco dove trovarono un maresciallo ch’era nella vita civile un anziano contadino…, e così ogni mattina…, accompagnato da alcuni soldati, si mise a fare il lungo periplo delle cascine e poi… distribuiva il latte…, ch’era una bella quantità e non costava niente, alle dame del quartiere. I partigiani, che osservavano quel quotidiano trambusto, ne conclusero che ammazzare il maresciallo del latte e i suoi soldati era un’impresa eroica e poco pericolosa. Dopo le raffiche di mitra sparate all’improvviso, non ci furono più soldati lattai, né massaie in attesa».
È davvero avvilente, per non dir peggio, che ancor oggi persino ricercatori dotati di notevole acribia diano credito alla vulgata omertosa e criminale dei vincitori.
Indro Montanelli, inoltre, sarebbe stata un’ottima occasione per raccontare cosa si cela dietro le quinte dell’informazione. Per gli ingenui, che sono la maggioranza, tutto si svolge sempre o quasi in maniera pacifica, trasparente e corretta. La verità è però tutto il contrario. Ve lo può assicurare chiunque abbia frequentato l’ambiente. Da ultimo c’è da obbiettare su quanto promette il sottotitolo del libro: Una biografia (1909-2001). Ma Indro Montanelli non è affatto una biografia: è piuttosto un ritratto professionale, o intellettuale. Gli aspetti umani, infatti, sono pressoché assenti, fuor di qualche sbrigativo cenno qua e là.
Componendo il ritratto di chicchessia, non si può sorvolare su carattere e temperamento, vita private, aspetti fisiognomici, relazioni, abitudini etc. Senza di essi una qualsiasi immagine risulta monca e, pertanto, snaturata. Avremmo ad esempio gradito qualche riferimento a Colette Rosselli, anch’ella giornalista, con la quale Montanelli aveva iniziato una relazione nel 1950 – mentre era ancora sposato con Margarethe –, e che portò all’altare soltanto nel 1972: ella fu una figura fondamentale nella vita di Indro da molti punti di vista. E avremmo volentieri apprezzato almeno l’evocazione delle equivoche e orrende imprese montanelliane durante la guerra e prim’ancora in Etiopia, oppure un’attenzione ai suoi ciclici periodi di depressione.
Silenzio, e questa volta ancor più fondo e penso imbarazzato, circa le probabili e vere origini famigliari del toscano famoso, le quali potrebbero spiegarne la carriera e molti altri aspetti della vita. Il lettore si divertirà a prender notizie circa Lodovico Spada Veralli Potenziani, principe di Rieti. Dalle eloquenti fotografie e da persone bene informate risulterebbe che fosse il nobiluomo reatino il vero padre di Indro. È forse per questo che qualcuno definisce Montanelli principe del giornalismo?