Testamento di un idolatra
Cultura generale
Si unge di olio il capo di chi si battezza e di chi muore. Olio per chi fa ingresso nella vita cristiana – olio per chi fa ingresso in un’altra vita.
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Nel mercoledì che precede la Quaresima il cranio è unto di cenere. Quaresima ricalca i quaranta giorni di Gesù nel deserto, tentato dal male – e i quaranta del diluvio, e i quaranta di Mosè sul Sinai, a flirtare con Dio. Una quarantena dalla terra, una quarantena da sé e dall’uomo, per prepararsi a Dio – per diventare sacrificio vivente.
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La cenere sul cranio non ci ricorda cosa siamo – sbuffo di nulla – ma ci prepara a vincere la rinuncia. Perché l’uomo possiede soltanto ciò a cui rinuncia. La rinuncia è la forma con cui adorniamo le cose nell’adorazione.
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Quaresima non è penitenza ma addestramento. Il digiuno rende limpida l’anima, l’astinenza precisa la lucidità. Si addestra l’anima alla Pasqua, cioè alla resurrezione. Far memoria della morte – la cenere – precisa il precipizio nella vita.
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Attenzione: non parlo da catechista, da bigotto. La vita è un addestramento per non essere addomesticati dal mondo: si legge per addestrare l’intelligenza; si forza il fisico per addestrarne le forme; si digiuna per rendere sacra l’anima.
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“Cenere sei e cenere tornerai”, dice Dio in Genesi cacciando l’uomo da Eden, dal giardino. Dal giardino a questo deserto – la vita è una Quaresima. Di cui essere grati.
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Incenerito il mondo, Dio trarrà argento dalla cenere.
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Il secondogenito di Adamo ed Eva si chiama Abele, Habel in ebraico significa soffio, nebbia, vanità. Il grande libro di Habel è Qoelèt, “vanità delle vanità tutto è vanità”. Tutto è soffio. Il grande libro del Dio che irrompe nella Storia, del Dio che si incarna, infine, è il libro della cenere – che incenerisce – è il libro del soffio. Cosa resta di questa parola di cenere su una muraglia di nebbia? L’addestramento.
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L’addestramento è misura dell’amare – voglio essere in quarantena dal resto degli uomini perché amo soltanto te. Il resto è cenere, perché soltanto tu sei la vita.
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Il Mercoledì delle Ceneri diventa poesia superba, superiore in Thomas S. Eliot. “Gli anni nuovi passano, ravvivano/ In una meravigliosa nube di lacrime, gli anni, ravvivano/ Con un verso nuovo la rima antica. Redimi/ Il tempo. Redimi/ La visione illeggibile nel sogno più alto/ Mentre unicorni ingioiellati tirano il carro funebre”, canta in Ash Wednesday.
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La cenere, però, questo Golia di carne ridotto a mignolo, a bagliore grigio – dov’è il tuo sorriso, che amavo tanto, e i tuoi denti scintillanti, e il naso, aggraziato, le labbra che ho baciato innumerevoli volte e la mano, la mano che ha curato la mia malinconia? – l’ha detta Robert Walser. “La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificanza, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no. La cenere è priva di carattere, […] dove vi è cenere, non ci è in fondo proprio nulla. Metti il piede sulla cenere, e quasi non ti accorgerai di aver calcato qualcosa”.
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Dovremo diventare più arresi, più pazienti, più inconsistenti della cenere. Il retro della pupilla, la capitale pietà.
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La resa, l’umiltà, l’insignificanza della cenere è corroborante, è un gesto di gloria – è come spogliarsi, finalmente, di tutti i nomi e di tutte le distinzioni, senza più attendere che qualcuno, il divoratore dei nomi, ci chiami. Siamo già, nella cenere, i chiamati. (d.b.)