“Che cosa resterà di me?”: un anno senza Franco Battiato
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Michele Nigro
La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.
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L’incomprensione grava sul cristianesimo, che mistica arteriosa. Un attimo dopo la rivelazione agghiacciante di Gesù – la condanna a morte, la supremazia del dolore, gli sputi, il flagello (Mc 10, 33-34) – “Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo” – la Bibbia è il grande libro dei nomi e delle genealogie – pretendono (“Maestro, vogliamo…”, Mc 10, 35) un trono nell’aldilà, un luogo eminente in Paradiso, “che uno stia a destra e uno a sinistra della tua gloria” (Mc 10, 37). Gli altri discepoli, “i dieci”, si arrabbiano: che richiesta ricamata nella presunzione, incanto di bisce. Gesù non si scompone, parla agli uni, spiega agli altri. Sa di essere solo. Di essere plasmato nell’incomprensione: i suoi non sanno chi lui sia.
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L’errore dei due non è di presunzione: Giacomo e Giovanni pensano di trovare altrove, nei cieli, ciò che manca in terra, ma l’opera va compiuta su questa terra. La terra è eminente – il cielo è una suggestione.
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Ripassare sulle labbra queste parole, una conversione degli occhi. “Offrirà se stesso in sacrificio di riparazione… il servo giusto giustificherà i molti/ indosserà la loro iniquità” (Is 53 10, 11). Gesù le ripete esatte: “il figlio dell’uomo non viene per essere servito ma a servire – a dare la vita in riscatto ai molti” (Mc 10, 45). Che mistero indicibile: un uomo s’incarica delle colpe dell’umanità e le espia. Che tipo di gratificazione, in ciò? Niente.
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Sono ‘giustificato’ se qualcuno mi ama a tal punto da morire per me, assiduamente, nell’assurda convinzione che non ci sia altro da amare.
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Il male è nell’uomo – l’ira ne illividisce le ossa – e deve sfogarsi, in sputi e frustate, sull’innocente (“di noi ha provato tutto, tranne il peccato”, Eb 4, 15), fino a esaurire l’ultima scoria di malvagità. Perché? Facciamo davvero così schifo? Il sacrificio dell’innocente è adorato nell’irriconoscenza: di Gesù neppure un belato attraversa la Storia – del Gesù vissuto su questa terra sappiamo nulla, la sua importanza spirituale è inversamente proporzionale a quella storica. In quel niente, la luce; dal nulla, una campata di falò.
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Consueto ribadire il ribaltamento dei valori. Il potente è il più fragile, l’ultimo è il primo, chi crede di fare la Storia ne è divorato, il servo è il vero re. “Chi vuole farsi grande tra voi, sarà servo – chi vuole essere primo sarà schiavo” (Mc 10, 44-45). In cosa consiste questa schiavitù? Vivere per dare la vita ai molti, senza richiesta di grazie – il servo è il prigioniero, il senza diritti, l’annientato, ma nel servo è serbato il mistero del servizio. Il libro dei tanti nomi, la Bibbia, chiede la rinuncia a ogni personalità – anche al personalismo un po’ sadico del servizio.
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Viviamo per sconfiggere tutti i nomi, per darci, a precipizio, perché si ama sempre da dispari, da spauriti.
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Ambiguità dei poteri, delle priorità. “Chi è considerato capo della nazioni spadroneggia su di esse” (Mc 10, 42): il “capo delle nazioni” è arconte; Gesù da Paolo, nella Lettera agli Ebrei, è detto archierèo, sommo sacerdote. Indicazione di grandezze inclinate.
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Ma cos’è questa iniquità, questa colpa, questo peccato che ha bisogno di un violento riscatto? Chi di voi ha l’ardore di mordere la faccia all’innocente? La colpa è la spina di cristallo che ci tiene eretti, attenti. La colpa è – non è per forza il male. Vivere significa uccidere (o demandare l’uccisione della terra e delle creature ad altri); tradire per capire che cosa ci manca; pagare per sopprimere; fare l’amore per brutalizzare; desiderare per galvanizzare le assenze; figliare per castrare i figli; lavorare invidiando; le piccole malizie che ingrigiscono i giorni. Si vive per liberarsi di sé.
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“Nell’immersione in cui sono immerso sarete immersi” (Mc 10, 39). Se alla parola battesimo, rituale sgusciato di senso e riempito di collanine, crocefissi d’oro e pranzo in famiglia, sostituissimo la parola quale è, reale, immersione. Immersi in Gesù. Vivere è una apnea – gli altri senza virtù di falco guardano l’apparizione del giorno, noi apprendiamo gli abissi. Per questo, il servaggio, capite? Più ti abbassi, più ti immergi in Cristo – chi pensa di primeggiare è vinto dal vento.
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Modificare perfino la spina dorsale, vertebra per vertebra, rosario allucinato – distruggere la stazione eretta, preparare una verticale contraria, a testa in giù, insaporire l’orizzonte, le diagonali del niente. Ecco il cristianesimo.
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Se Bibbia è testo sacro, vuol dire che chi lo legge vi lascia traccia, lo modifica. Esiste una Bibbia per ogni sguardo, si dice; su ciascuna è imposto il viso di chi la passa. Ho la Bibbia di mio padre a casa – proviene dai valdesi che amava frequentare. La leggo setacciando trame d’atti, una mappa di passi. Forse è quella la carta astrale, nordica – anche il cielo è un Nord –, l’indizio di dove è, cosa ricorda, l’ingratitudine degli smarriti, e se mi cerca. La regalerò a lei. (d.b.)