16 Novembre 2023

Immanenza e divino. Interrogazioni disperate (ma essenziali)

La filosofia classica tedesca, nel portare a compimento il processo di immanentizzazione del messaggio cristiano, ha guardato ad alcuni precedenti, tra cui il pensiero italiano del Rinascimento. Nella filosofia di Giordano Bruno, ad esempio, l’identificazione tra Dio e Natura – pur non essendo totalizzante – assume una connotazione panteistica che avrà un enorme seguito nella filosofia successiva. Se, a questo proposito, le letture (in specie ottocentesche) che tendono a vedere in Bruno un anticipatore di Baruch Spinoza non colgono sempre nel segno, è tuttavia vero che uno dei fuochi principali della filosofia europea moderna sarà quello di approfondire in modo sempre più raffinato il tema dell’immanenza (ovviamente in correlazione a quello della soggettività). La tradizionale “linea genetica” che (con il tramite del pensiero italiano rinascimentale) parte da Cartesio e Spinoza per giungere alla “rivoluzione copernicana” kantiana e all’idealismo classico tedesco potrà sembrare un residuo manualistico, ma conserva la funzione di mostrare come il pensiero continentale – almeno in alcune sue direttrici privilegiate – sia stato una variazione sul tema dell’immanenza (e, per converso, su quello della critica alla trascendenza, divina e non).

Da un punto di vista di consequenzialità filosofica, la situazione più estrema e paradossale è quella che si instaura qualora si interpreti la discesa di Dio, nella forma di Cristo, tra gli uomini non come un evento unico, imprevedibile e circoscritto (o, in altri termini, come una sorta di epifania), bensì come una condizione destinata a divenire permanente, a segnare un fondamentale spartiacque nelle vicende terrene. Tale situazione ha evidenti risvolti anche sul piano morale. Se, infatti, la discesa di Cristo tra gli uomini comporta la potenziale salvezza di ogni peccatore, ogni tentativo dottrinario di distinguere – per azione o per predestinazione – tra “sommersi” e “salvati” sembra destinato al fallimento, in quanto sia il peccato che la salvezza sono per immutabile necessità correlati al concetto stesso di uomo, almeno dopo che tale concetto sia stato in questo modo improntato dalla divina incarnazione.

La questione, pertanto, non concerne la possibilità di Dio di farsi uomo, bensì la sua possibilità – dopo che uomo si sia fatto – di tornare alla propria inossidabile trascendenza e alla propria intangibilità. Una volta ipotizzato che un punto di contatto tra la trascendenza e l’immanenza (o, meglio, ciò che viene trasceso) esista, in altri termini, non si può tornare indietro, perché questo punto di contatto, dialetticamente, comporta una connessione ineliminabile. In questo modo G. W. F. Hegel – e i pensatori successivi da lui improntati (da Giovanni Gentile a Jean Hyppolite) – attingono il concetto dell’assoluta immanenza. La trascendenza divina viene da Hegel letta come un momento necessario, ma transitorio come tutti i momenti, del percorso di autoconsapevolezza spirituale. Scrive Hegel, in un passo celebre della Enciclopedia delle scienze filosofiche, nel ri-condurre la trinità divina del Cristianesimo alla immanenza spirituale (e la Religione alla Filosofia):

“[I] tre sillogismi, i quali costituiscono l’unico sillogismo della mediazione assoluta dello Spirito con se stesso, sono la Rivelazione dello Spirito stesso. Tale Rivelazione esplica la vita dello Spirito nel ciclo di figure concrete della rappresentazione (…) e con ciò perviene non soltanto alla semplicità della fede e della devozione del sentimento, ma anche al pensiero”. 

(G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Bompiani Milano 2015, p. 915)

In questo senso, era necessario che il Dio della tradizione cristiana, che a un livello di immediatezza lo Spirito riteneva a sé estraneo ed oggetto di venerazione, si incarnasse e si facesse uomo. Vale a dire – fuor di metafora – era necessario che la coscienza si rendesse conto che appartiene ad essa tutto ciò che aveva pre-supposto come esteriore. Gentile sarà ancora più radicale di Hegel in questa operazione, eliminando in modo reciso qualsiasi ripartizione del processo e ottenendo la nozione di “immanenza” più rigorosa e “scarnificata” possibile, ritenendo che conservare una qualsiasi gradualità al reale avrebbe voluto dire, di nuovo, teorizzare un’impossibile trascendenza. 

Se, tuttavia, il dettato hegeliano (e, in generale, idealistico) è impostato secondo una precisa consequenzialità filosofica, nella quale il concetto di immanenza riveste sin dal principio una funzione fondamentale, la questione è ben differente nella teologia cristiana, in cui il “farsi carne” di Dio non è dettato da una necessità, per così dire, logica che risulti autoreferenziale, ma trova il proprio senso (tralasciando le letture puramente dogmatiche) nell’esigenza di redenzione dal peccato originale. Anche in questo caso, tuttavia, non sembra potersi evitare l’implicazione messa sopra in luce: un Dio che si fa uomo, soffre e muore non può non assumere nella propria definizione queste prerogative. Se, tuttavia, è così, qualsiasi istanza morale giunge anch’essa a ridursi alla sola sfera umana: il mondo in cui Dio si è manifestato e in cui ha patito non può che essere l’unico dove agire e soffrire, sia pure in vista di qualcosa che si ritenga ulteriore. 

Per compendiare: immanentizzare la divinità – da un punto di vista puramente concettuale o morale – significa imboccare una strada di non ritorno. L’alternativa non è quella di concepire una trascendenza rispetto al “mondo di tutti i giorni”, come poteva accadere prima di intraprendere la via dell’immanenza. Diversamente, la vera opzione altra è quella adottata da alcuni filoni paralleli della teologia cristiana, quella negativa o apofatica: da Meister Eckhart a Jacob Böhme, da Niccolò Cusano a quel Friedrich Wilhelm Joseph Schelling che nell’arco di una vita è stato sia rappresentante del razionalismo assoluto idealistico che della tendenza opposta. Se si voglia evitare una via panteistica o antropologica, occorre dire che, anziché attingere Dio nella totalità o nell’uomo, non lo si possa attingere in alcun modo, se non per infinita (e, quindi, perennemente inappagata) approssimazione. Chiaramente, tale strada presenta delle incongruenze in un’ottica speculativa, ma il punto è proprio il seguente: essa non si pone dichiaratamente da un punto di vista speculativo, ma cerca di stabilire l’infinita distanza tra Dio e le cose procedendo in modo a-definitorio e talvolta anti-definitorio.

Dire che Dio sia assolutamente altro rispetto alle “cose del mondo”, e che la sua trascendenza sia pertanto assoluta, significherebbe in chiave filosofica tentare una riabilitazione del contraddittorio concetto di “nulla”. Riabilitazione che spesso, in chiave teologica, ha proprio una funzione anti-speculativa. L’ulteriore paradosso generato da questa posizione qualora si cerchi di afferrarla mediante gli strumenti della ragione risiede nel fatto che dire che Dio non equivalga a nessuna determinazione empirica ma le trascende tutte, restando la sua realtà assoluta, equivale a dire – di nuovo in termini hegeliani (quelli dell’inizio della Logica: vd. Enciclopedia, cit., p. 235) – che essere e nulla vengano a coincidere. Non è un caso che uno dei più grandi pensatori del Novecento, Martin Heidegger, sia arrivato per questa via a tematizzare l’essere, che risiede al di là dei singoli enti in una perenne e inafferrabile vicinanza-lontananza da essi. Non è neanche un caso, peraltro, che lo stesso Heidegger sia stato – per questa sua posizione – accostato da più parti a posizioni teologiche (indubbia l’influenza esercitata dalla teologia negativa nella sua formazione), con l’essere a fare le veci di Dio. Di fatto, l’essere heideggeriano non può coincidere, almeno teoreticamente, con il Dio della tradizione ebraica o cristiana, perché l’alterità di esso rispetto agli enti non è mai assoluta trascendenza, ma velamento-disvelamento.

Se il problema di Dio diventa il problema dell’Essere, significa che ci si trova una volta di più, in una sorta di corto circuito, in un terreno di pertinenza della filosofia. Ci si deve, tuttavia, domandare – in un’interrogazione forse disperata, ma essenziale – se la stessa teologia negativa, dichiarando la divinità inconcepibile, inafferrabile, abissalmente distante dalle cose del mondo, non stia nuovamente accostando i due poli, riabilitando quella duplicità e, ad un tempo, coincidenza di verità e apparenza (doxa) che costituisce sin da Parmenide il “fiume sommerso” più profondo e problematico del pensiero occidentale. 

Jonathan Salina

Gruppo MAGOG