Avevo sette anni e mio padre non mi aveva mai portato al cinema. Particolarmente eccitabile, quel giorno mi costrinse a vedere Il nome della rosa. Le gambe del monaco che sbucano dal pentolone, la bava del vecchio cieco e la vigorosa nudità della poveretta che s’avvolge al corpo di Christian Slater mi turbarono per giorni. La fiction firmata da Giacomo Battiato, ovviamente, non mi ha fatto lo stesso effetto, anzi, m’è parsa particolarmente soporifera. Nessuna invenzione registica, prodotto laccato, destinato a essere visto e dimenticato. I cliché fanno rissa: i buoni sono anche belli – l’occitana sopravvissuta allo sterminio della famiglia ordita dai cattivi fedeli al papa è la folgorante Antonia Fotaras – mentre i cattivi hanno la faccia da pervertiti dementi. D’altronde, ogni eresia, per quanto efferata e astrusa, è preferibile alla baronia ecclesiale, perché la Chiesa – cioè: ogni autorità – è ricca, crudele, feroce.
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Umberto Eco è stato un genio della comunicazione, in quel tempo – micidiale – in cui i superprof speculavano sui mass media. Già sapientone in Bompiani, Eco parlava di Tommaso d’Aquino come di Mike Bongiorno, divulgava sui giornali e discettava in università, perché tutto è uno, nessuno e centomila, Topolino o Snoopy equivalgono Guglielmo di Ockham e James Joyce, tutto è segno – o sogno, è uguale. Il nome della rosa, in questo senso – o segno –, è straordinario: il patchwork – romanzo d’impianto ottocentesco che usa le ragioni del ‘giallo’ alternate al saggio, con mistero divino e critica al potere costituito – ha il sapore di una zuppa venefica, ma di successo. D’altronde, la letteratura è un gioco, una sofisticheria intellettuale, senza sfociare in altro che nel liquore della trama.
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Come si sa, Il nome della rosa ottiene il Premio Strega nel 1981. In effetti, non aveva grandi competitori. Più bello del libro di Eco è senza dubbio Dicerie dell’untore di Gesualdo Bufalino, che otterrà lo Strega qualche anno dopo, con Le menzogne della notte. Ha una corrusca bellezza anche il libro di Enzo Siciliano, La principessa e l’antiquario (pure lui dovrà attendere: lo Strega gli capiterà tre lustri dopo, con I bei momenti). Curiosi, per gli storici della letteratura, Il primo libro di Li Po di Vittorio Saltini e I giorni del mondo di Guido Artom; poi c’è il solito Alain Elkann (con Il tuffo) e Fabrizia Ramondino, con il primo libro importante, Althénopis.
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Rispetto al romanzo ‘a tesi’ di Eco, è molto più bello, narrativamente, Il quinto evangelio di Mario Pomilio – che vincerà lo Strega nel 1983 con il raffinato romanzo breve Il Natale del 1833, dedicato a sondare aspetti reconditi della vita letteraria e familiare del Manzoni. In quel caso, la ricerca del ‘vangelo assoluto’, del ‘vangelo che non c’è’, del ‘testo dei testi’, la deve compiere il lettore, perché Pomilio, su una impalcatura romanzesca leggerissima, allinea una sfilza di testi fittizi. Troppa fatica.
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Ascolto su Radio Rai 3 una rapida intervista a Giacomo Battiato, che pur avendo una formazione – dice – da storico, allinea una filiera di luoghi comuni. Il Medioevo, dice, non è un’epoca buia ma piena di fermento intellettuale – e chi non lo sa. Poi c’è la parentesi sulla ferocia della Chiesa nel reprimere le eresie, dipinte come una ‘comune’ sessantottina. Indubbiamente, orrore, schifo e vergogna ci sono stati. Ma discettare di ‘povertà della Chiesa’ ricchi di fama e sufficientemente abbienti è ridicolo.
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Quando si parla di uomini, intendo, e ne vuoi narrare le gesta non puoi essere manicheo né figlio di ideologie di latta. Quando Battiato cita papa Innocenzo III come emblema della Chiesa violenta ha ragione, che scoperta. Innocenzo III proclama la crociata contro gli albigesi, i catari (“il primo genocidio della storia” dice Battiato), che abitavano il sud della Francia, per impedire che si propagassero, proclamando verità ostili alla Chiesa. Intorno al 1220, in un virulento pamphlet antiereticale, Cesario di Heisterbach, abate cistercense, firma il Dialogus miraculorum in cui descrive le efferatezze degli eretici in questo modo: “Uno tra i potenti della città di Tolosa… defecò presso l’altare della chiesa cattedrale, lordando con le stesse cose immonde la pala dell’altare. Altri, aggiungendo furore a furore, posero una prostituta sopra il sacro altare, ivi abusando di lei davanti al crocifisso”. L’immaginazione dell’abate, che fa esplodere la propaganda anticatara, è degna di un Marchese de Sade, ci sarebbe da scriverci un libro.
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Nel 1209 si compie l’eccidio di Bézier, in cui Simone IV di Montfort, in favore del papa, stermina quasi 20mila persone – senza fare differenza tra catari e cattolici, che paradosso, perché “essendo a conoscenza che i cattolici erano mescolati con gli eretici”, racconta ancora l’abate, “Uccideteli tutti, Dio infatti conosce coloro che sono i suoi”, pare abbia detto Arnaldo Amalrico, padre generale dei cistercensi e futuro arcivescovo di Narbona. Orrore. Nello stesso anno in cui papa Innocenzo III ammette l’eccidio degli albigesi, riconosce e approva lo stile di vita di Francesco d’Assisi e dei suoi ‘frati’. Il francescano Guglielmo da Baskerville, il buono del Nome della rosa, è francescano, sponsor della povertà di Mamma Chiesa. Ma non viene arso al rogo. L’etica francescana, infatti, impone l’obbedienza al superiore: “Rinuncia a tutto, rinuncia al tuo corpo, consegnati all’obbedienza del superiore”, è scritto nella prima regola, la più autentica, di Francesco. “Se il superiore impone qualcosa contro l’anima, è lecito non obbedire, ma non abbandonare. E se questo procura persecuzioni, che si ami il persecutore, per amore di Dio… C’è chi pensa di essere superiore ai propri superiori, guarda indietro e si rimette nel vomito della propria volontà: questi sono omicidi”. Francesco non diceva Messa, non era sacerdote, si inchinava al sacerdote della Chiesa. D’altronde, il primo papa francescano, Niccolò IV, tra le azioni in cui si impegna maggiormente vi sono l’organizzazione dell’ennesima Crociata contro ‘gli infedeli’, in Terrasanta, quella bandita contro il re d’Ungheria Ladislao IV – che culmina nel suo assassinio – e lo sforzo per reprimere le eresie. Tali atti non sono in discordia con il desiderio di pace e di povertà pronunciato dal papa francescano.
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Una narrazione non dovrebbe appiattirsi sul pregiudizio, ma dare spazio alla complessità – perversa, gloriosa – dell’anima umana. L’uomo non è piatto, non è a senso unico, ma il film tratto dal romanzo di Eco, invece, è un piattume. (d.b.)