È emersa dal mare magnum dei social, senza spinte o aiutini. Ha un passato da bocconiana – ma “redenta”, ci tiene a precisarlo. In molti l’hanno letta, quando ha pubblicato, appena un anno fa, Neoliberismo e manipolazione di massa. Era un testo autoprodotto e, al di là di ogni più rosea aspettativa, ha cavalcato la classifica di Amazon nella sezione economia, riuscendo addirittura a contendersi il podio con autori pubblicati da importantissime case editrici. Esce adesso il suo secondo libro. Siamo quindi andati a incontrare Ilaria Bifarini, economista e blogger, divulgatrice e agitatrice culturale, per parlare di I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa, la sua ultima fatica.
Ilaria, ci faresti un breve sunto, una sorta di quarta di copertina del tuo nuovo libro?
I coloni dell’austerity segue il tracciato di analisi critica del pensiero unico economico intrapreso con il primo libro e allarga l’orizzonte dell’influenza della dottrina neoliberista all’ambito internazionale. Dall’analisi delle politiche economiche adottate in Africa, nel periodo postcoloniale, emergono elementi inediti e sottaciuti dall’attuale narrazione. Questa è legata a luoghi comuni spesso infondati, volti a esonerare le organizzazioni economiche internazionali dalle loro responsabilità sul mancato sviluppo del continente. Sessant’anni di aiuti alla crescita e di umanitarismo internazionale si palesano in tutto il loro fallimento, come dimostra l’esplosione del fenomeno migratorio.
Quali sono i problemi legati al fenomeno dell’immigrazione?
Il fenomeno migratorio diventa problematico quando supera il livello cosiddetto funzionale, ossia ottimale a rispondere alle richieste di lavoro non soddisfatte nel paese di destinazione. È quello che accade con l’attuale flusso di migrazioni di massa, che crea quel famoso esercito industriale di riserva di cui parlava Marx, in cui gli individui lavoratori rispondono alla stessa logica della concorrenza applicata alle merci e ai servizi. Ciò si riflette inevitabilmente nel livellamento verso il basso dei salari, nell’annullamento dei diritti e nella precarizzazione della vita lavorativa, ormai giunti a un punto disumano. Analogamente, l’emigrazione africana depaupera il continente della sua forza lavoro più giovane e più intraprendente, non risolvendo – e anzi accrescendo – i fattori ostativi allo sviluppo nei paesi d’origine, sia economici che sociali. Ne deriva un impoverimento generale che, come spiego nel libro, alimenta un florido business di speculazione finanziaria in continua espansione.
Esiste una connessione tra il passato colonialista e le migrazioni odierne?
No, per quanto un certo filone di pensiero voglia fomentare in noi occidentali il senso di colpa. Uno degli inganni che viene utilizzato dal sistema è proprio quello di ricondurre al piano morale quelle che sono invece problematiche e fenomeni di ordine economico. È la strategia dei cosiddetti buonisti, secondo i quali potremmo redimerci dai nostri peccati soltanto attraverso l’accoglienza indiscriminata. In realtà, le migrazioni sono diventate massive proprio negli ultimissimi anni, quindi non c’è alcun collegamento diretto con quanto avvenuto in tempi oramai remoti. Invece, è interessante notare come il neocolonialismo abbia fatto sì, imponendo ed esportando politiche di stampo neoliberista universalmente applicate, che si generassero sempre maggiori disuguaglianze, così come prevede il modello stesso. A fronte di un PIL, che in alcuni paesi dell’Africa riscontra una crescita, aumenta la disperazione e la disuguaglianza anche all’interno delle popolazioni locali. Di conseguenza, queste finiscono per vedere nell’emigrazione l’unica soluzione. Si tratta però di un circolo vizioso che porta all’aumento della povertà negli stessi paesi da cui migrano, finendo poi per esportarla anche nei paesi di accoglienza.
Eppure, è incontestabile che molte multinazionali siano andate in quei territori al solo fine di depredarli.
Sicuramente, le multinazionali non hanno fatto altro che sostituirsi ai vecchi invasori. Il principale strumento di conquista del neocolonialismo, però, è il debito, come aveva compreso con grande lucidità e lungimiranza Thomas Sankara, che ha pagato con la morte la propria intuizione. La strumentalizzazione del debito pubblico, ai fini del depauperamento della ricchezza degli Stati, come succede anche oggi in Occidente, è avvenuta decenni orsono nei paesi del Terzo Mondo. Nonostante la credenza diffusa dalla narrazione dominante, subito dopo il processo di decolonizzazione, l’Africa, insieme agli altri paesi in via di sviluppo, si era avviata verso un processo di crescita dell’economia nazionale, che sarebbe poi stato interrotto dall’imposizione di politiche economiche neoliberiste. Attraverso tale imposizione, come condizione per accedere al prestito, il continente africano, sarebbe quindi entrato nella spirale perversa delle liberalizzazioni incontrollate e delle politiche di austerity.
Quindi, i due principali problemi con cui fare i conti sono l’austerity e le migrazioni di massa?
Sì. L’austerity che viene imposta nei paesi a economia avanzata, tramite lo strumento del debito, nonostante i suoi manifesti fallimenti, già verificati nei paesi del Terzo Mondo. Siamo, insomma, di fronte a un colonialismo del debito su base universale. Per quel che concerne le migrazioni di massa, queste servono a far sì che il modello neoliberista, basato sull’annullamento dei diritti del lavoratore, venga tenuto in piedi anche in Occidente spingendolo verso una terzomondizzazione.
I migranti sono realmente, come sostengono alcuni, i nuovi schiavi che non abbiamo neanche bisogno di andare a prendere con le navi da negriero, perché sono loro stessi a pagare per venire da noi?
In realtà, dietro queste migrazioni di disperati che affrontano viaggi della speranza pieni di rischi e senza sapere cosa li aspetta, dai costi peraltro palesemente troppo al di sopra della loro portata, si nasconde di nuovo una speculazione di tipo finanziario. Si tratta di quella che io nel libro chiamo la “finanziarizzazione della povertà”: un business tutto da scoprire e sul quale indagare, fatto di concessioni di prestiti e accesso al microcredito ai fini dell’emigrazione, che ci rimanda alle ONG, le organizzazioni non governative. La povertà e la disperazione di milioni di individui rappresentano una fonte di ricchezza inesauribile per banche e istituti finanziari, anche attraverso le rimesse inviate dai migranti nei propri paesi di origine, ma senza alcun apporto positivo all’economia reale.
Vi è uno sbaglio particolare nelle politiche antimigratorie?
Si tende sempre a polarizzare le posizioni. L’opinione pubblica e la politica si trovano divise tra xenofobi e xenofili, per cui si riporta sempre a una categoria di tipo morale ciò che invece attiene a fattori di natura sociale ed economica. Anziché controllare le migrazioni e analizzarle dal punto di vista della possibile ricettività della popolazione e dell’economia, valutando quindi le concrete opportunità di inserimento dell’immigrato nel contesto economico e lavorativo del paese ospitante, si fa del pressappochismo. Da una parte ci sono coloro che vorrebbero sempre accogliere, con la motivazione di redimerci dalle presunte colpe di un passato coloniale e che, come ho già detto, non rientrano nel novero delle cause di queste migrazioni. Sull’altro versante, invece, c’è la parte della società che cerca di fomentare un terrorismo della paura, ma che in realtà ha motivazioni di tipo economico, derivato dal degrado che si è venuto a creare nelle nostre città e soprattutto da una disoccupazione senza precedenti nella storia, che è poi consustanziale al modello economico neoliberista.
Sentivo da qualche parte che almeno il 10% della popolazione sarebbe straniera. Qual è la percentuale di immigrati che può sopportare un popolo, dal punto di vista antropologico, prima di divenire altro da sé?
La questione mi interessa poco, da questo punto di vista. La mia analisi vuole essere strettamente economica, guardando quindi in concreto al trend e alla reale possibilità di accoglienza. Quel che mi risulta ovvio è come, in un paese con un tasso di disoccupazione giovanile ai massimi storici, forse il più alto della storia d’Italia, non ci siano possibilità oggettive di integrazione e di inserimento nel mercato lavorativo di chi arriva nella speranza di poter migliorare le proprie condizioni. L’altra considerazione che vorrei comunque muovere, partendo dalla tua domanda, riguarda gli effetti nefasti di questi spostamenti di persone che rinunciano allo sviluppo del proprio territorio, della propria economia locale, e ripudiano i loro stessi valori e tradizioni, in nome di un globalismo e di un modello dell’Occidente che si rifà a degli stereotipi volutamente alimentati.
Perché Giulietto Chiesa nella prefazione?
Il contributo di un esperto di scenari geopolitici, come Giulietto Chiesa, offre una preziosa chiave di lettura, complementare a quella economica del libro. Grazie a lui, il fenomeno dell’adozione delle politiche neoliberiste nell’Africa post coloniale viene collocato nel giusto contesto storico e sullo scacchiere internazionale.
Matteo Fais