Una meteora con la coda: la sua scia è stata visibile nel cielo italiano per ben quattro anni. Oggi chi la ricorda – pochi, pochissimi anche tra i lettori di Pangea – l’ha derubricata a un’esperienza forse importante al tempo ma non più attuale né attuabile. Il comico Daniele Luttazzi: “Oggi è quasi impossibile pensare che all’epoca esistesse un settimanale satirico come (…), veramente all’avanguardia, avanti di 50 anni, insomma divertentissimo”. Eppure è stata una delle riviste satiriche più taglienti, cattive e blasfeme dell’editoria del Paese, in grado di competere, a livello di vendite, con le testate di punta: 140 mila copie a numero. Un fenomeno di costume, certo, ma non solo. Sarebbe riduttivo. Lì trovavi le migliori matite, le menti più acute e stronze, e autori che erano il meglio del meglio che reperivi sul mercato.
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Esattamente 40 anni fa, nel 1980, raggiunse il terzo posto nella categoria dei settimanali più venduti: 180 mila copie. Il segreto? Non si sa: è come la ricetta della pozione magica di Panoramix, ignota.
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Dopo aver fatto la gavetta nella redazione dell’anatra incatenata (“Le Canard enchaîné”), Giuseppe Zaccaria detto “Zac” ha l’illuminazione: perché non provarci anche in Italia? Il terreno era fertilissimo: la politica e il terrorismo, i rapimenti, i primi profumi del benessere economico che dà lì a qualche anno sarebbero diventati una pianta. I giovani rampanti, gli yuppie, figli di comunità economica capitalista importati in Italia dagli Stati Uniti e che trovano la loro piena realizzazione nei fast food, nel forno a microonde, nei paninari, negli appartamenti arredati con colori monocromatici, poltrone e divani di pelle bianco e nero con dettagli di acciaio cromato, nella musica dei Duran Duran, di Prince, di Cyndi Lauper, ascoltata rigorosamente nei cd.
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Certo che il titolo scelto non poteva lasciare indifferenti. Il Male. Lo leggevano persone incazzate con il sistema, mangiapreti, politicanti, persone comuni stanche di farsi il culo ma anche professionisti, dottori, avvocati e studenti. E i giovani, che li trovavano l’altra voce, il modo per sdrammatizzare pur facendo politica – ogni giornale fa politica, ieri come oggi – e artisti non solo bravi ma più semplicemente i migliori. I loro nomi? Vincino, Vauro Senesi e Andrea Pazienza. Sì, il “Paz”.
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I titoli delle prime pagine erano saette. Amavano i “falsi”, nonostante i collaboratori fossero tutti veri: “Ugo Tognazzi capo delle Br”, “Annullati i mondiali”, “Da un’altra galassia hanno raggiunto la Terra”. In occasione dei funerali di Aldo Moro il settimanale uscì con “Lo Stato si è estinto”, attribuendolo a Repubblica. Il direttore Eugenio Scalfari si incazzò un bel po’: chiamò quei “disgraziati” oltraggiosi de Il Male per chiedere spiegazioni. Uno dei redattori della rivista gli rispose secco: “Che io sappia in Italia c’è un presidente della Repubblica, poi abbiamo avuto vari re, però mai, mai, un direttore della Repubblica!”.
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Il Male era quintessenza del giornale cartaceo: coloratissimo, smontabile e rimontabile a seconda degli usi che venivano suggeriti ai lettori e ai giornalai e si divertiva a spingere sui falsi – possibilmente urlati – per rovesciare verità soggettive, quindi di base discutibili. Uno strumento di demistificazione in un periodo storico delicatissimo, sensibile, in parte anche senza difese immunitarie: bastava una scintilla per incendiare il pagliaio. Ricevette, in quattro anni, circa 70 denunce e querele.
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Le copertine non erano disegni. Erano opere d’arte. Con le unghie affilate. In occasione della protesta degli operai della Fiat di Torino, Vincino ha “visto” il faccione di Gianni Agnelli che si “pippa” gli operai utilizzando non la classica banconota ma una lunga ciminiera. “L’idea fu mia – dice lo stesso Vincino nel documentario I cinque anni della rivista Il Male firmato da Gianluca Rame – ma quello che la poteva disegnare meglio era Pazienza, mentre chi poteva colorarla bene era Enzo Sferra. Per questo in basso a destra ci sono tre firme. Questo era il nostro modo di lavorare. Sempre allegri intorno a un tavolo. Era stupendo”.
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Tra i direttori responsabili, dopo Zac (che però “firmò” solo i primi tre numeri) ci fu anche Calogero Venezia. Se a molti il suo nome dice poco, chi “mastica” questo mestiere sa bene che è stato il secondo giornalista – dopo Giovannino Guareschi – a finire in prigione nel dopoguerra. L’accusa? Vilipendio della religione e di un Capo di Stato estero, in questo caso il Sommo Pontefice: Papa Giovanni Paolo II fu definito Giampaolo II.
Alcune copie del giornale furono bruciate in piazza dal parroco di Spilimbergo, che lo giudicava “degno di essere precipitato tra il magma dei nostri italici vulcani, congeniale sede per simili ossesse pubblicazioni”.
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Avevano dei complici, quelli de Il Male. Ugo Tognazzi, per esempio, da ottimo attore qual era, fu presentato come capo delle BR. Sulle false “prime pagine” di alcuni quotidiani come La Stampa e Il Giorno uscirono le foto di Tognazzi ammanettato e scortato da quattro “carabinieri”: Saviane, Pasquini, Lo Sardo (tre redattori del settimanale) e il direttore Vincino. I testi dei falsi erano di Vincenzo Sparagna, Angelo Pasquini, Jiga Melik, Piero Lo Sardo, Mario Canale. Tognazzi, spiegando la sua partecipazione alla beffa, disse: “Rivendico il diritto alla cazzata!”.
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Oltre alle imitazioni delle prime pagine dei quotidiani, che “lanciavano” il numero con titoli assolutamente demenziali ma verosimili anche per la precisione grafica, il vero marchio di fabbrica era nella ferocia dei suoi fumetti e delle sue vignette. Nessuno fu risparmiato: oltre a Karol Wojtyła, Aldo Moro e Gianni Agnelli, finirono nel giornale anche Enrico Berlinguer e Maurizio Costanzo. Su quest’ultimo, per dar forza allo scoop di un’improvvisa chiusura del neonato quotidiano scandalistico L’Occhio (che Costanzo dirigeva), fu messo un fotomontaggio dello stesso Costanzo suicida per impiccagione. Tra le provocazioni più provocatorie, “Dieci grammi di droga gratis” con in omaggio una bustina. Di pepe, però.
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Eppure c’era anche chi lo apprezzava. Nel dicembre del 1979 il Presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini si vide sulla copertina de Il Male. Andrea Pazienza, il Maestro, lo aveva disegnato “miniaturizzato”, con tanto di pipa, basco bianco in testa, occhiali da sole. E avvolto in un maglioncino di lana. “Sono addolorato per De André, quel bravo canzonettista. Di lui mi piacevano in particolare ‘Re Carlo ritorna dalla Battaglia di Poitiers’, la famosa ‘Marinella’ e ‘Stasera mi butto’. Mi butto con te”. Lo stesso presidente chiamò Il Male per invitare la redazione al Quirinale. “Pronto, sono Sandro Pertini – ha racconta Vincenzo Sparagna – e ci chiese il disegno in regalo: gli era piaciuto. Non potevamo rifiutare l’invito. Andammo io, Vincino e Forattini che all’epoca si era offerto di farci da direttore responsabile. Gli portammo una pipa di un metro e mezzo e il disegno. Poi Pertini ci condusse a pranzo in una silenziosa saletta. I camerieri servirono un ottimo minestrone, della carne, patatine e tanto altro ancora”.
Alessandro Carli