Davide Longo è nato a Carmagnola nel 1971. I suoi primi romanzi sono stati recentemente ripubblicati da Feltrinelli: Un mattino a Irgalem (Marcos y Marcos, 2001, Feltrinelli Zoom Filtri 2015) e Il Mangiatore di pietre (Marcos y Marcos 2004, Universale Economica Feltrinelli 2016). Ha curato nel 2007 una raccolta di racconti di montagna per Einaudi. Nel 2010 pubblica per Fandango L’uomo verticale (Premio Città di Lucca). Nel 2014 esce per Feltrinelli Il caso Bramard, cui segue Così giocano le bestie giovani, nel 2018. Per NN è uscito un piccolo gioiello nel 2016, Maestro Utrecht. Uomo poliedrico, scrive per il teatro e la radio, ha pubblicato libri per bambini, insegna alla scuola Holden di Torino, dove vive e lavora. Viene dalla periferia, la sua è una famiglia operaia, ha insegnato in una scuola professionale. Frequenta i salotti buoni, ma si tiene a dovuta distanza. Immerso nel mondo radical chic degli intellettuali integrati, non perde occasione per allontanarsene, per rimarcare, in silenzio, una separazione che qualcun interpreta come ritrosia sabauda, qualcuno come sospetto e accusa.
Il nemico dichiarato di Longo è l’essenza dell’occidente, il mondo fondato sul denaro, questo impasto faustiano di cupidigia e tecnica in rapida decadenza, che sta per essere sostituito dal nuovo mondo fondato sul sangue. Davide Longo è il profeta del Tramonto dell’Occidente per dirla con Spengler. Sarebbe però più utile parlare di rarefazione. Ciò che accomuna i romanzi di Davide Longo è l’impossibilità del radicamento, del trovarsi a proprio agio, del riconoscere e prevedere gli eventi, e dunque una progressiva, necessaria e ineludibile messa in discussione della propria identità. Questo scardinamento dell’ordine, che si accompagna allo spaesamento, al guardare le cose per la prima volta, costringe a una ridefinizione del tempo. Il tempo si fa rarefatto: gli eventi non si giustappongono in serie note di cui dominiamo le sequenze. Gli eventi accadono per la prima volta, acquisiscono la forza di punto cardinale, di pietra di paragone e fondano un nuovo ordine, assumono valore originario, potremmo dire, in ultima analisi, sacro.
Ciò che accomunava i tre primi romanzi di Davide Longo era la posizione dello sguardo: uno sguardo decentrato, ma dovremmo dire forse più propriamente spaesato, o perplesso. Storie di naufraghi che prendono a poco a poco consapevolezza e possesso del continente in cui il mare li ha gettati. Nella serie dedicata a Corso Bramard sono gli eventi del passato a estraniare il protagonista dalla visione consueta della realtà: il contatto con la follia criminale e violenta (di un singolo o di una collettività) capace di stravolgere l’esistenza rendendola liquida, anch’essa folle, inspiegabile.
Iniziamo dal principio. I tuoi primi romanzi sembrano meditazioni su ciò che propriamente dura, dopo un cambiamento epocale: penso al crollo delle torri gemelle del settembre 2001. Penso all’accettazione della brutalità. Che cosa pensi della rinascita così violenta della barbarie dentro la pancia grassa, ma fiacca e guasta, dell’Occidente?
La barbarie non si estingue mai, semplicemente si disloca, cambia posto, si diluisce o compatta. Dall’origine dei tempi male e barbarie coesistono con bontà e speranza. La loro dinamica è perfettamente narrativa, narrativamente in equilibrio, e, infatti, le storie non hanno mai fine. Non ci sarà mai una storia che racconti un male non plausibile, improbabile, ogni male ci è presente, anche nella nostra società che in questa fase storica conosce un male più appartato, sporadico. La maggior parte delle serie tv, il genere narrativo attualmente più vivo e “ricco” raccontano di serial killer, malfattori, presidenti assassini. Il male ha mille forme e sempre le stesse forme. È una presenza più rassicurante di quanto pensiamo. Un vecchio amico che non sempre vogliamo incontrare, ma ci rassicura ogni tanto avere sue notizie, sapere che c’è.
Che la presenza ineludibile del male sia “rassicurante” è un bel paradosso. L’idea si fa evidente con la saga di Bramard. La barbarie nel nostro mondo molle, anche prima del 2001, non era per niente debellata, serpeggiava non vista. Basta un pretesto perché la violenza rinasca, come negli anni di piombo. Sembra che sia connaturata all’uomo, e non più un esito del complotto pluto massonico o dello stato imperialista delle multinazionali. Non è un caso che l’uomo nuovo sia un’idea che accomuna i totalitarismi: da Lenin ad Achille Starace.
La barbarie è propria dell’uomo e contemporaneamente ciò da cui l’uomo perennemente cerca di fuggire ed emanciparsi. Un elastico lega l’uomo e la barbarie: mi allontano dalla barbarie perché la mia natura è civile e sociale, ma ben presto mi accorgo che più me ne allontano più rinuncio alla vitalità che in essa e presente, e l’elastico mi trascina di nuovo verso di lei. Ci vuole molta intelligenza, saggezza e anche una vena di pazzia per essere vitale e barbarico senza cadere nella parte violenta e nefasta della cosa.
Anche ne L’uomo verticale si nota una sotterranea ammirazione per il barbarico, che ha anche i caratteri della sfrontatezza e del coraggio. Come se avessimo in noi una forza ancestrale capace di riportare l’umanità a un punto originario, in un’opera di smascheramento.
Il processo creativo è uno dei momenti in cui si può ottenere questa epifania. L’agonismo sportivo è un altro momento. In fondo sono due atti fisici e creativi che implicano una forza, una violenza (Michelangelo che martella il marmo), ma li salva il fatto di inseguire una forma di bellezza che sarà goduta da più.
Come la perfezione del gesto atletico del pugilato.
Tutto il tempo che abbiamo passato sulla terra dovrebbe mirare alla ricerca di queste forme di vitalità emancipate dalla barbarie. Inseguiamo l’energia pulita, no? Perché non una barbarie pulita! È un traguardo filosofico, non realistico. È un viaggio.
Ti cito alcune celebri frasi di P.P.P: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Il legame con le Bestie giovani è evidente. Che cosa sai Davide?
Pasolini non era l’unico a sapere. Moltissimi hanno saputo, moltissimi sanno. Non per chiaroveggenza, ma per voglia di documentarsi, connettere, esercitare l’arte del sillogismo. Basta leggere alcuni articoli di giornale usciti a caldo dopo quelle stragi che sono rimaste buchi neri nella storia italiana. Vi si ritrovano suggerite tesi e ipotesi che commissioni parlamentari e processi metteranno nero su bianco decenni dopo. Ciò vuol dire che le trame non erano così occulte nemmeno sul momento o le piste così coperte. Certo non c’erano le prove. Questo è quanto solleva Pasolini. L’aspetto che m’interessa esplorare, con Così giocano le bestie giovani, è però un altro: immaginiamo che non solo Pasolini e altri sapessero, ma che avessero trovato anche le prove. Cosa sarebbe cambiato? Un esempio pratico: facciamo l’ipotesi che il Dc9 di Ustica sia stato abbattuto dagli Americani, o dai Francesi, o dai Libici. Se ne trovano le prove, un mese dopo l’abbattimento. L’Italia era davvero in una condizione tale da potere avere spazi di manovra in proposito. Di là dalla retorica e dell’indignazione di facciata. Se gli americani o chiunque altro fosse stato preso con le mani nella marmellata, avesse addirittura ammesso “Sì, scusate, siamo stati noi, c’è scappato un missile!”, concretamente come sarebbe cambiata la vicenda giudiziaria di queste stragi, la politica italiana, la posizione del nostro paese nello scacchiere? La risposta che mi do è: pochissimo, forse niente. Questo mi pare triste e teatrale insieme. O per dirla come Flaiano ben intuì: “Drammatico, ma non serio”. La nostra posizione politica per tutto il periodo della guerra fredda purtroppo è stata regolata da questa cifra “l’impossibilità di fare delle scelte e di conseguenza di essere seri”. Come può essere seria una democrazia che non prevede una reale possibilità di alternanza. E’ un teatro, chiaramente, una pantomima.
Di nuovo il tema della maschera, del teatro.
È questa la nostra cifra. Ecco perché l’unica categoria con cui mi sembrava possibile avvicinare le vicende di cui tratta il romanzo, quelle drammatiche degli anni Settanta, era il grottesco.
Nell’ultimo romanzo l’ispettore Arcadipane medita sull’alleanza tra denaro e bellezza. Mi chiedo se in filigrana ci sia anche il dubbio che quest’alleanza riguardi anche l’intelligenza e cultura, creando un mondo di caste separate per qualità genetiche. Che spazio c’è per gli ultimi?
Per questioni sociali, che sono facili da capire, ricchezza e bellezza tendono l’una all’altra, è un fattore biologico: la storia lo mostra e lo continua a mostrare, ma non credo funzioni nello stesso modo per la cultura. La cultura, qualunque cosa sia è sfuggente, difficile da pesare e quindi da vendere. È il gioco di carta, forbice e sasso. Denaro, bellezza e cultura. Però quando giochi la cultura è difficile capire chi vince contro chi. Arthur Miller conquistò Marilyn Monroe per molti motivi, ma di certo anche perché era un uomo di cultura, uno scrittore, un intellettuale apprezzato e riconosciuto. Il contrario di quello che si poteva pensare di Marilyn che giocava un po’ la parte della bella svampita. Quindi la cultura apparentemente conquista la bellezza. Ma siamo sicuri che Miller abbia influenzato la cultura del ’900 più di Marilyn? E di conseguenza che Miller sia stato un uomo di cultura più di quanto Marilyn sia stata una donna di cultura? Non abbiamo molte difficoltà a definire chi è bello, chi è ricco o chi è potente, ma per chi gioca un ruolo nella cultura e sulla cultura la cosa è molto più complessa, se non ci fermiamo agli stereotipi di “chi ha letto più libri”.
Nessuno è innocente, nei tuoi romanzi, ma qualcuno è un po’ più colpevole degli altri. Mi spieghi perché i personaggi più odiosi dei tuoi romanzi fanno parte di una classe privilegiata, colta e ricca, propriamente radical chic, intelligenti intellettuali di buona famiglia, che leggono Einaudi e Adelphi?
La prima parte della tua domanda è corretta: nessuno nei miei libri è propriamente innocente. La seconda però è imprecisa. Dal momento che nessuno è innocente del tutto, risultano colpevoli anche coloro che provengono o accedono alle classi privilegiate, questo è vero, ma non in maniera differente dagli altri. Semplicemente che capiti a loro, colpisce di più. Ecco perché lo si nota. Inoltre dovremmo distinguere tra la colpa a rigore di legge e la colpa determinata da valori che la legge non riconosce o difende. Un padre che non ama un figlio, se provvede al suo sostentamento e non lo picchia, non può essere perseguito per legge, eppure esercita una violenza, accumula una colpa. La colpa i cui confini sono tracciati dalla legge la trovo meno interessante. Me ne servo per costruire la trama, ma sono più interessato all’altra forma della colpa, quella che si muove nel terreno vergine e privo di giudici dell’umano. Ecco perché i miei libri, quando sono dei noir o gialli, sono sempre gialli e noir impuri. Il manifesto di questo territorio è La Promessa di Dürrenmatt. Un giallo che segna la fine del giallo. Trovo sia bello camminare tra le macerie, nelle discariche si trovano cose interessanti, di cui si può fare un uso fantasioso. I miei libri sono come quelle case, dove ci sono oggetti che non fai fatica a riconoscere, ma che sono usati per una funzione diversa da quella per cui erano stati creati. Starei ore a guardare un tale che durante la colazione s’imburra una fetta di pane con un calzascarpe. Forse nemmeno un secondo un tale che con il calzascarpe s’infila i mocassini.
Simone Cerlini