“Vi aleggia il soffio dell’aldilà”. L’ossessione musicale di Cioran
Filosofia
Tony Vero
La voce è dolce, ma ferma. L’incipit del libro, poi, ha un sapore di metallo. “La prima convinzione che mi ha guidato nella scrittura di questo libro è che i filosofi abbiano giocato un ruolo cruciale nel genocidio armeno e nel negazionismo turco. Mi sono convinta sempre di più che la filosofia ha le mani sporche di sangue”. Dicono che sia la nuova Hannah Arendt. Quando glielo dico, non si scompone. Al contrario, rilancia. “Alla Arendt contesto il fatto di non essere andata alla radice del problema del genocidio”. E quale sarebbe questa radice? “Il ‘protagorismo’ di Cartesio”. Questa me la spiega dopo. “No. Gliela spiego subito. Con un esempio”. Prego. “Ricorderà il caso di Bruce Jenner, campione olimpico di decathlon, che un giorno ha detto al mondo di sentirsi donna. Io, francamente, mi sono sentita offesa. Cosa significa ‘sentirsi donna’ per Jenner? Ha mai avuto delle mestruazioni? Ecco: oggi conta solo quello che pensi, non quello che sei. Se pensi di essere una donna, allora lo sei. Ma pensare una cosa non è essere quella cosa, perché l’uomo – ecco il ‘protagorismo’ – non è misura di tutte le cose”. Siobhan Nash-Marshall insegna filosofia al Manhattanville College di New York, parla perfettamente in italiano – d’altronde, si è perfezionata, accademicamente, all’Università di Padova e alla Cattolica di Milano – è tradotta in Italia (da Vita e Pensiero, La ricettività dell’intelletto), il suo ultimo libro, The Sins of the Fathers. Turkish Denialism and the Armenian Genocide (The Crossroad Publishing Company, pagg. 250, $24.95; prossimamente in Italia per Guerini), il primo di una trilogia dedicata al “Tradimento della Filosofia”, è stato accostato, per ampiezza d’intenti, alla Banalità del male della Arendt. Fermo la Nash-Marshall a Padova, è ospite di Antonia Arslan, la scrittrice de La masseria delle allodole, di cui sta traducendo, in inglese, Il libro di Mush. A leggere commenti e rassegna stampa, The Sins of the Fathers è il massimo contributo filosofico sul genocidio armeno, che diventa, agli occhi dell’autrice, l’emblema della crisi del pensiero occidentale. “Credo che non sia sfuggito a nessuno che oggi viviamo un momento di profonda crisi culturale, una crisi che è diventata sistemica”, mi dice la filosofa. Da qui, azzanno.
Lei ha studiato il fenomeno del genocidio armeno come emblema di questa crisi sistemica…
“Per me è stato necessario operare così. Io lavoro in università, con molti studenti, e osservo quotidianamente gli effetti della crisi. Gli studenti non sono timidi, come potevamo esserlo noi, anni fa: sono terrorizzati. Pensano che il mondo sia brutto e cattivo e che voglia ‘farli fuori’. Pensano che non ci sia un posto per loro nel mondo, che l’unica soluzione sia la distruzione – guardi all’aumento del numero dei giovani occidentali che si suicidano – e l’autolesionismo, anche fisico. Si dilata il fenomeno della noia, che non è il tedio del Settecento, riassunto in romanzi come Le relazioni pericolose: è uno stato ideale di assoluta apatia e di non coinvolgimento nel mondo. Pensi che ho realizzato un seminario sulla noia perché fossero i ragazzi, e non i soliti accademici, a parlare di ciò che provano…”.
La crisi però non è solo dei giovani.
“La crisi, ripeto, è sistemica. Sono in crisi le grande strutture: la politica – basta guardare alle recenti elezioni in Europa – e l’accademia. Il mondo dell’intelligenza e dei governi è totalmente incapace nel dare risposte a questa crisi. In fondo, il mondo concreto non ha più alcuna rilevanza. Guardi a cosa è accaduto dopo il fallimento planetario delle banche americane, nel 2008. Hanno forse cacciato i responsabili del disastro bancario? No. A quei direttori è stato assegnato un premio, un bonus. Perché? Perché non misuriamo più le idee rispetto ai risultati ottenuti. Conta l’intenzione – e in quel caso l’intenzione, cioè fare più profitti, era corretta”.
Nella prima pagina del suo studio lei è perentoria: “la filosofia ha avuto un ruolo cruciale nel genocidio armeno e nel negazionismo turco… la filosofia ha le mani sporche di sangue”. Cosa significa?
“Illuminismo cartesiano. Ecco cosa significa. Dividere il mondo della ragione da quello materiale, il mondo dell’esperienza da quello del pensiero. Penso dunque sono. L’approccio di Cartesio è devastante congiunto all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese, quando la filosofia cessa di essere amore della sapienza ma progetto demiurgico per cambiare il mondo. Fichte, Herder, Bentham, Hegel, Marx: il pensiero dell’Ottocento – ad eccezione di Antonio Rosmini – ha come scopo precipuo quello di rendere perfetto il mondo. Il genocidio, allora, è giustificato, terribilmente, da una specifica visione del mondo”.
E questo come si lega al genocidio armeno?
“Dai primi decenni dell’Ottocento, dopo la rivendicazione dell’indipendenza della Grecia, l’Impero Ottomano ha come problema, come incubo dominante, la costruzione di una identità propria, turca. L’Armenia è un ostacolo alla creazione del vatan, della patria. Se il vatan esiste, l’Armenia deve essere annientata. Bisogna considerare che i Giovani Turchi, responsabili del genocidio armeno, sono indottrinati dalla filosofia ottocentesca. Credono di avere diritto anche loro a costruire un mondo a immagine e somiglianza della propria idea”.
Veniamo ai dati. Quando inizia il genocidio?
“I primi stermini cominciano dal 1908, ma tutto ha inizio nel 1878, in seguito al Congresso di Berlino che rettifica la pace di Santo Stefano siglata dalla Russia, vincitrice sull’Impero Ottomano. I Balcani entrano sotto orbita russa ed europea, l’Armenia ottiene alcune concessioni e la promessa di riforme mai attuate. Le testimonianze del console inglese Fitzmaurice, che recensisce i massacri ai danni degli armeni orditi dal sultano Abdul Hamid II, e svariate lettere, dal 1878 al 1915, ai governi francesi e inglesi, dimostrano che l’Europa era a conoscenza di ciò che stava accadendo al popolo armeno. Ma per ‘realpolitik’ non fece nulla. Soltanto il Vaticano, con papa Benedetto XV, tentò di evitare il genocidio”.
Contro gli armeni si è agito con accanimento feroce: perché davano così fastidio?
“Se vogliamo essere mistici, le direi: perché l’Armenia è stata la prima nazione cristiana. Le ragioni storiche, però, risalgono al 1717, quando il doge di Venezia cede l’isola di San Lazzaro agli armeni, e l’abate Mechitar vi redige la prima grammatica dell’armeno parlato, volgare. Comincia da lì un profondo lavoro sull’educazione che porterà l’Armenia, nei primi anni del Novecento, ad avere una alfabetizzazione pressoché completa dei propri cittadini, risultato all’epoca non ancora raggiunto nel resto dell’Occidente. Questa grande fioritura culturale fa sì che nel 1915 l’80% circa dell’economia ottomana fosse in mano cristiana. Un fatto che infastidiva i Giovani Turchi”.
Nel suo libro scrive, studiando i censimenti, che “circa 3,7 milioni di cristiani, il 74% della popolazione dell’Anatolia e delle provincie orientali, sono state eliminate – uccise, o deportate – in quegli anni”, tra il 1914 e il 1927. Cosa sappiamo riguardo ai numeri del genocidio armeno?
“Cosa sappiamo riguardo ai morti nei Gulag stalinisti? Cosa sappiamo dei morti durante la marcia di Mao? Pressoché nulla. Censimenti e statistiche fanno parte della lotta politica: possiamo solo supporre delle cifre. Il censimento in Turchia, poi, avveniva per fede religiosa: tra musulmani e cristiani, però, ci sono sette e sfaccettature diverse. La vera domanda, piuttosto, è: chi sono davvero i ‘turchi’? In cosa si riconoscono? In quale identità culturale, gastronomica, musicale, artistica? La verità è che la Turchia, ieri come oggi, è un mosaico”.
Hitler prese a modello l’efficienza turca nel gestire il genocidio armeno, replicando il ‘metodo’ con gli ebrei…
“Va detto che la politica antiarmena, in Germania, comincia nel tardo Ottocento, quando una massiccia pubblicistica mostra l’armeno come ‘l’ebreo d’Oriente’, come ‘il virus’. La Germania aveva mire espansionistiche verso l’Impero Ottomano e interesse nel dileggiare gli armeni. Quanto a Hitler, certo, vede nel genocidio armeno una possibilità realizzata. Se i Turchi ce l’avevano fatta, anche Hitler, allora, avrebbe potuto compiere gli stessi orrori senza particolari pericoli. Le analogie sono agghiaccianti: anche nel nazismo, ad esempio, ha un peso il ‘motivo biologico’ già cavalcato dai Giovani Turchi, in era di darwinismo rampante. I turchi, bravi figliocci del materialismo tedesco e francese, misuravano i crani per dimostrare che erano loro i veri autoctoni di Turchia”.
A suo avviso il negazionismo turco esemplifica l’epoca della post-verità. Ci spieghi.
“Per Erdogan negare il genocidio armeno è essenziale all’identità turca: dovesse riconoscere la realtà dei fatti, sarebbe la fine del suo governo e la disgregazione della Turchia. Non contano i fatti, ma le intenzioni, il mondo concreto non ha rilevanza: ecco l’illuminismo cartesiano! Il problema, piuttosto, è l’Europa, sono gli Stati Uniti, a cui non importa più di vivere in una situazione contraria alla verità. Se così è, allora la cultura occidentale è scomparsa”.
Posto che il genocidio armeno è l’emblema della fine dell’Occidente e del dominio della post-verità: come ne usciamo, se possiamo uscirne?
“Bisogna ammettere che Cartesio aveva torto, bisogna capire che il mondo non è quello che voglio che sia – Nietzsche e i suoi steroidi, per cui non è importante essere coerenti – e tornare a lavorare duramente dal basso, dall’educazione. Bisogna recuperare la concretezza filosofica, altrimenti – come è già drammaticamente accaduto – ci troveremo a decidere che cosa è umano e cosa non lo è, indipendentemente dalla realtà dei fatti. Spesso mi domando se Boezio sapesse di essere l’ultimo degli antichi. Probabilmente sì. Spero di non trovarmi in un nuovo VI secolo, ma in un I secolo, dove ci sono tanti Silla e tanti Clodio, ma in fondo si può ancora pensare e cambiare. I giovani non sono perduti: bisogna offrire loro delle alternative, partendo dal piccolo, dall’educazione, dal basso”.