28 Ottobre 2022

Quando eravamo ingenui & corsari… L’epopea breve del “Domenicale” (io c’ero!)

I giornali nascono per morire. Un giornale vive in bilico tra effimero e assoluto: il lettore, di fatto, legge una notizia già morta, scritta il giorno (o giorni) prima – e la fa risorgere. Dare al transitorio sostanza di mito – non di Storia, quella la fanno le turbe degli uomini, il genio del caos o la Provvidenza – è il valore, a volte mefistofelico, di un giornale. Quando un giornale muore, capita che continui a risplendere, come certe stelle che ai nostri occhi acquisiscono in luminosità, ma sono defunte da secoli. “Il Domenicale” è pubblico il 27 ottobre del 2002 – in realtà è nato e morto molte volte, durante quell’estate, per alcuni torrida, per altri magnifica, sommerso da innumeri “numeri 0”. Angelo Crespi, il direttore, aveva compiuto da poco 34 anni: ero al mare, quando mi ha telefonato. Non avevo alcun padrino, nessun pedigree partitico, scarsa esperienza giornalistica: ci accomunava l’amore per Rainer Maria Rilke, mi aveva insegnato ad amare Mario Luzi e Iosif Brodskij. Mi presentai al colloquio. Studiavo letteratura cristiana antica a Milano, non avevo – mi disse qualcuno – dei vestiti adeguati: forse acquistai una maglia, forse delle scarpe, non ricordo.

La sede del “Domenicale” era in via Senato, Milano, sede della Biblioteca di via Senato, appunto, che conserva, tra l’altro, parecchi documenti di Curzio Malaparte. Il bibliotecario, Matteo Noja, ruvido e generoso, Cerbero a custodia di testi rari, meriterebbe un racconto a parte – lo ascoltava in devoto silenzio, si esprimeva per aforismi e grugniti, un geroglifico di labbra. Angelo Crespi era sempre elegantissimo: nei toni, nei vestiti, nell’arguzia, nel sacro cinismo dispensato ad arte; io ero sempre fuori luogo, un orfano. Il giornale, edito da Marcello Dell’Utri, avrebbe dovuto rappresentare, per così dire, il labirintico mondo della ‘cultura di destra’: al Governo, dal 2001, c’era Silvio Berlusconi; vicepresidenti del Consiglio figuravano Gianfranco Fini e Marco Follini, la carica di Ministro di Beni e attività culturali era ricoperta da Giuliano Urbani. Tutto questo, naturalmente, non mi interessava, sfuggiva alle mie idolatrie: venivo dalla più becera periferia torinese, dalla sopravvivenza o quasi; per me era sufficiente sapere che “Il Domenicale” era nato il giorno in cui compiva gli anni Dylan Thomas, il mio poeta preferito, il 27 ottobre, appunto.

È strana la vita dei giornali: nascono per morire ed esistono reggendosi su visioni e intenti spesso contraddittori. “Il Domenicale” – vivaddio – non rappresentò la ‘cultura di destra’, qualsiasi cosa voglia dire la parola cultura e la parola destra: per alcuni era un’ispirazione politica, per altri fu eccesso di mecenatismo, patetico, per altri ancora l’epitome – o la messa in crisi – della propria ambizione personale, per me fu, comunque, una poetica, il punto in cui, misticamente, lavoro e vita congiuravano assieme. Il fatto che quell’anno, nel 2002, pressoché tutti i redattori del “Domenicale” – compreso il direttore – scoprirono che sarebbero presto diventati padri, conferisce a un evento altrimenti fugace una natura di gioia sostanziale.

Da Marco Respinti, giornalista principesco, interno, imparai la profondità della parola “conservatore”, l’epica contraddittoria degli Stati Uniti d’America, il genio degli scrittori del Sud: gli devo la conoscenza di Allen Tate, poeta straordinario, e dei “Fugitives”. Era certo che Tolkien – di cui ha ri-tradotto, di fatto, il Silmarillion – fosse più grande di Joyce o di Proust, nel 2004 curò un’edizione dei Cori da “La Rocca” di Thomas S. Eliot che intitolò La Roccia; credeva con una intensità rituale che non smette di suggestionarmi. Di Angelo Crespi mi limito all’allusione: le profonde ragioni dell’affetto, una riconoscenza imperterrita, sono beni da tutelarle nel pudore. Mi ha insegnato questo mestiere, a costruire un articolo come una sedia, a inacidire l’aggettivo, se serve, a incenerirlo, se inutile. Mi ha mostrato come nasce un giornale dal nulla. Mi ha difeso da chi diceva: e questo chi è, da dove viene?

Il primo numero del “Domenicale” – che in realtà uscì sabato 26 ottobre 2002, in allegato a “Panorama” – allinea un repertorio di padri nobili: Nicolás Gómez Dávila (con un aforisma in calce alla testata), Carmelo Bene in prima pagina e Prezzolini a pagina 3; recensioni di Charles Simic, Robert Louis Stevenson e Roger Nimier – quanto ho limato quel breve oblò intorno a un romanzo magnetico, Le spade –; una stroncatura d’autore (siglata C.C., ergo: Cesare Cavalleri) a Senza sangue, esangue romanzo di Alessandro Baricco, “pensierini da cioccolatino amaro… la letteratura è altrove”, consegnava un tratto guerresco al settimanale. A tutela di tutti, la pagina-album dedicata a Ezra Pound, con i disegni, magistrali, di un grande artista, Marco Carnà. Era un bel giornale, “Il Domenicale”: al tratto canonico di Carnà si alternava quello più ironico, brillante, da samurai delle affiche, di Henri Matchavariani,georgiano trapiantato in Francia, scaltro e geniale, dotato di mitici mustacchi, leziosamente sporco, il personaggio di un racconto breve di Joseph Conrad, insomma.

Ci piaceva l’idea di un giornale da conservare in un tempo in cui i giornali – come oggi – si usavano per incartare il pesce. Ogni settimana, il lettore incrociava “Il poster del Dom”, da incorniciare: un vezzo, per un rotocalco colto che alternava la cravatta alla fionda. Dopo Ezra Pound fu la volta di un poster dedicato alla Traviata, poi di quelli destinato a Ettore Petrolini, a Thomas S. Eliot, a Rainer Maria Rilke, a D.H. Lawrence – con la bella traduzione di un inedito, a cura di Lorenzo Scandroglio, che in quello stesso numero (7 dicembre 2002) aveva realizzato un’intervista doppia sul futuro dell’università a Giovanni Reale e a Massimo Cacciari. Dedicammo un poster al grande poeta – dimenticato – Dario Villa, a Tolkien, a Louis Ferdinand Céline, traducendo un’intervista allora ancora inedita in Italia. Poi finì anche quella serie, come tutto. Tanto per capirci, nel secondo numero del “Dom” il poster era una mirabile crocefissione realizzata da Carnà, mentre il numero di Natale – 15 dicembre 2002 – era contraddistinto da un Presepio del Domenicale che il lettore poteva ritagliare e costruire. Questa era vera ‘politica’, cioè l’ostensione di una poetica.

Alla foce di queste scelte, al di là del direttore, c’era spesso un personaggio stralunato e solare, irascibile e geniale, un vero fool, Girolamo Melis. Di lui, della sua maestria, ho già scritto: il suo compito era tenerci sotto il tiro dell’imprevisto, sotto ricatto. Insomma, rompeva le palle. Lavoravo dalle otto di mattina alle otto di sera: dovevo imparare tutto. Girolamo mi obbligava a favolosi tour nella Biblioteca Sormani, mi comprò, in una qualche libreria milanese, libri di Lev Šestov, Michel Foucault, Lacan e Norman O’Brown che a suo dire dovevo leggere; mi inoltrò – per dire il soggetto – nei miti ancestrali dell’Africa oscura; venerava Martin Heidegger e Rilke letto, da una delle sue tante prodighe amiche, in tedesco. Un giorno fondammo una casa editrice; un giorno mi portò da Alberto Casiraghy, ideatore di Pulcinoelefante, nel suo antro-stamperia, a Osnago; un giorno mi fece inventare una pubblicità per Ferrero, la nota azienda di dolciumi.

Fu lui, ricordo, ad avere avuto l’idea con cui “il Domenicale” si presentò al mondo – bulimico e poco bucolico – della stampa italiana. Impilammo I 400 libri che (forse) l’insegnante di tuo figlio non ha letto. Una specie di carta d’identità prima che una provocazione. Tra i tanti libri spiccavano Requiem di Anna Achmatova, Le categorie del politico di Carl Schmitt, La scala del paradiso di Giovanni Climaco, l’Edda e le Enneadi. Giovanni Raboni, che nel marzo di quell’anno, sul “Corriere della Sera”, aveva scritto il fatidico articolo che ‘sdoganava’ la cultura di destra, scrisse, pressappoco, che eravamo arditi e idioti, snobisti e qualunquisti. I giornali di destra, evidentemente, non gli andavano bene: la cultura sì. Di lì a poco, in seguito a un’inchiesta sui “poteri rossi” in Mondadori, curata con garbo e malizia da Luigi Mascheroni, amico, firma fraterna del “Dom”, ci pigliammo la prima querela.  

Eravamo dandy e opliti, sempre in lotta, in perenne minoranza. Leggere i comunicati stampa ci pareva l’eccidio dell’intelligenza, accontentarsi di ciò che proponeva il mercato culturale un mercimonio, la gastronomia della noia. Andavamo alla ricerca di libri rari e pensieri aguzzi, di piccoli editori sotterranei e poeti intrepidi dunque banditi: piuttosto che recensire – leccornia per lacchè – stroncavamo. Tra le fauci e le aule del “Dom” – soprattutto nei primi due anni, quando, come dire, c’erano i danè – passarono in tanti: Filippo Facci, Pietrangelo Buttafuoco e Camillo Langone occuparono, per un tot, lo spazio di una rubrica fissa. Vi hanno scritto Sossio Giametta e Carlo Lottieri, Alain De Benoist e Giuseppe Frasso, Ermanno Paccagnini, Alessandro Giuli, Alessandro Campi, Giuseppe Conte (il poeta), Roberto Mussapi (l’altro poeta), Ugo Finetti, Carlo Carena, Vito Punzi, ottimo germanista e traduttore di Trakl e Broch, Massimo Introvigne, Franco Frattini, Matteo G. Brega… Beatrice Buscaroli coordinava, di fatto, le pagine dell’arte, Massimiliano Parente creava scompiglio in quelle letterarie: cominciò parlando di Aldo Busi, proseguì distruggendo gli idoli del culturame italico: ne ammiravo l’ossessione per la scrittura, la beata brutalità – fummo fraterni. Nelle pagine letterarie, appunto, Daniele Piccini e Marco Merlin, intelligenze egualmente limpide e diametralmente opposte, curavano due rubriche sulla poesia; ricordo le firme di Andrea Ponso e di Flavio Santi, di Emanuele Buzzi – che mi pare aver svolto la sua carriera al “Corriere della Sera”; con me scandagliava, sceglieva, traduceva autori statunitensi prima che approdassero in Italia – e di Francesco Borgonovo – molto diverso da come è ora: meno elegante, arrembante, parlavamo di letteratura, ogni tanto di Faulkner: era giovane. Giuseppe Romano, esperto di immaginari e videogame, entrò in redazione poco dopo la nascita del “Dom”: lo contraddistingueva un’arguta gentilezza, un’indefettibile curiosità.

Per i primi numeri abbiamo cullato il vezzo di non firmarci; poi di firmarci sempre. Il primo articolo con il mio nome è del 15 febbraio 2003, scrivo di René Char; usavo una manciata di pseudonimi, per scrittore difformi; Tirteo era l’alter ego che si occupava di sport. Eravamo così aristocratici – nel mio caso: fuori dal mondo – da permetterci riflessioni e ‘pezzi’ per il gusto, senza alcuna attinenza editoriale, senza altro pretesto che l’estro momentaneo, il desiderio, l’eros del logos. Una volta Vittore Branca, insigne studioso del Boccaccio, mi diede del cretino per come avevo osato impaginare un suo pezzo: aveva ragione, probabilmente; morì l’anno dopo. Tramite “il Dom” conobbi Alessandro Gnocchi, all’epoca capocultura di “Libero”, ora caporedattore al “Giornale”: gli fui simpatico, collaboriamo ancora oggi, siamo amici.

Ma sto divagando. Non sono mai riuscito a capire chi avessi intorno, il lignaggio di chi mi passava accanto: di norma, non so proprio cos’è l’uomo e non riesco a trarre utili dalla simpatia. Dopo tre anni, in sostanza, mi trasferii dove abito oggi, sul mare, lontano dalla città e dalla sua stola di demoni e di iene. Quando un giornale non è che il regesto della propria giovinezza, però, ha smarrito la propria missione. Che senso ha avuto “il Domenicale”, chi se lo ricorda ancora? Appunto. La nobiltà restò nel sottosuolo, l’amicizia, spesso, fu avventizia più che avventurosa: quando le cose non si misero bene, in tanti mollarono la ciotola dove fino a un attimo prima avevano intinto la lingua – e attinto denaro. Amen. Una certa ingenua avventatezza ci distingueva; pensare di poter fare ciò che piaceva a noi, in direzione contraria, certi di essere corsivi e corsari, belli e dannati – e per questo giustificati – fu, forse, un errore. Eravamo re senza regno né baluardo, combattenti spediti in rioni di sabbia, la spezia e lo spreco. Esistono stagioni memorabili – il resto della vita è esiguo, a volte esiziale. Noi abbiamo munto il miracolo, attratti da ciò che ammutolisce, e dobbiamo esserne grati.

I giornali nascono per morire: per questo vincono la morte. Nient’altro esiste che la resurrezione, ed è continuo, fino a spellarti le mani.  

Gruppo MAGOG