01 Agosto 2022

“Il buio ha destrezza d’inganno”. Ivor Gurney, il poeta che si credeva Shakespeare e diventò pazzo

Anche le lapidi, affastellate d’intenti, mutano – e forse mentono. La prima descriveva Ivor Gurney come Musician and Poet, specificando, “Amante della bellezza, creatore”. Elusiva, astratta, esatta. Gurney morì di tubercolosi, il giorno di Santo Stefano del 1937. Faceva freddo, lo seppellirono nel camposanto di Twigworth, non lontano da Gloucester, dove era nato, il 28 agosto del 1890. Nelle fotografie ha uno sguardo allo stesso tempo docile e reattivo, arguto e rabbioso, di obliqua sensualità. Smantellata la prima, la nuova lapide ci avvisa, da anni, che Ivor Gurney è Composer e Poet of the Severn and Somme. Come nelle poesie di Ungaretti, i toponimi indicano una specie di pedagogia dell’esistenza del poeta: il Severn è il fiume natale, che attraversa il Glochestershire; la Somme è il rivo intorno a cui si è consumata una delle più violente battaglie della Prima guerra. L’alcova e la trincea, il luogo avito e quello dell’avida lotta.

Figlio di sarti, con un talento precoce per la musica, il canto e la composizione, Ivor Gurney è annoverato – insieme a Wilfred Owen, Siegfried Sassoon, Isaac Rosenberg, Richard Aldington, Robert Graves… – tra i grandi War Poets, esaltati nel “Poet’s Corner” a Westminster. Severn and Somme, tra l’altro, è il titolo del primo libro di Gurney, pubblicato da Sidgwick & Jackson – l’editore di Rupert Brooke e di E.M. Forster – nel 1917, scritto durante i brevi, lancinanti periodi di convalescenza. La poesia di Gurney, a differenza dei soldati confratelli, magnifica una specie di sfasamento, è concreta e visionaria, protesa al granatiere del miracolo: inedita in Italia – qui proponiamo una manciata di versi, a cura di Annalisa Crea – è un pilastro nel canone inglese; Carcanet ha in catalogo diversi libri, i Collected Poems sono curati da Patrick Kavanagh; nel 2020 la Oxford University Press ha pubblicato il primo volume dei The Complete Poetical Works.  

Il genio di Gurney, pulviscolare, è legato originariamente alla musica. Corista presso la Gloucester Cathedral, ha studiato al Royal College of Music, ha scritto oltre trecento canzoni, musicando, tra l’altro, testi di diversi poeti, da Hilaire Belloc a W.B. Yeats, da John Fletcher e Shakespeare a Thomas Hardy, Walter de la Mare, Robert Graves. Soffriva di disturbo bipolare, di sdoppiamento della personalità fin da ragazzo: nel 1922, mentre Eliot pubblicava La terra desolata, Ivor Gurney, poeta sopravvissuto alla Prima guerra, scoscese nella follia, fu dichiarato pazzo, passò il resto della vita ramingo tra diversi ospedali psichiatrici.

La reclusione non gli impedì l’estasi dell’ispirato: “soltanto nel 1925 scrisse 57 canzoni, 5 brani corali, 2 composizioni per organo, 11 quartetti per archi, una sonata per pianoforte, un preludio, 5 musiche per violino”. La vera epigrafe, probabilmente, la vergò un amico, dopo avergli fatto visita, nel 1930: “è così sano nella sua follia”. La biografia di Kate Kennedy, Dweller in Shadows. A Life of Ivor Gurney, stampata l’anno scorso dalla Princeton University Press, sgombra il campo da qualsiasi romanticismo: la follia di Gurney, pur scandita da momenti creativi, fu violenta, rovinosa, rapace.

“Gli anni trascorsi tra ‘il tonfo, lo schiaffo, il vorticoso vomito della guerra’ e la reclusione, furono tra i più indisciplinati della sua vita. Alternava la fame all’estremismo del digiuno, le visite a Londra, a piedi, le notti nei campi… affittava appartamenti fatiscenti, si faceva ospitare da amici che dovevano sopportare il suo regime esistenziale eccentrico, camminava di notte, si credeva un vampiro, alternava la tenerezza alla violenza”.

Nei ricoveri, dichiarava di essere Shakespeare, chiedeva di ascoltare Schubert, diceva di voler “perdere i miei poteri in una notte, e andare oltremare, di nascosto, finalmente anonimo”. Parlava in alfabeti incomprensibili. “L’ultimo decennio della sua vita è caratterizzato da lunghe settimane di ineffabili silenzi, di tentati suicidi e scatti d’ira irrisolta, di scrittura frenetica; compilava lettere senza destinatario, cadde, morì con un corpo che pareva quello di un vecchio”, scrive Anthony Lane in un lungo articolo pubblicato sul “New Yorker”, The Strange Case of Ivor Gurney. La follia, da sempre, intriga i salotti buoni, che sotto sotto sanno la loro insania.

Dino Campana, il nostro poeta recluso, morì cinque anni prima di Gurney. Qualcosa di cupo e di irrisolto avvolge in bozzolo l’esistenza di questo genio: la biografia lo brandisce come un eroe, figura orfica che ha scelto di mungere le ombre e di perpetuare la poesia, in una civiltà che ha scelto la macchina, una disinvolta violenza, la viltà.

***

Dolore

Dolore, dolore incessante, dolore infinito;
Duro fin sui più rudi, ma su chi
Brama bellezza… Non i più saggi
Né i più pietosi sanno il peso
Dello scorrere di un’ora. Grigia inedia
Aggrava i cieli grigi, grigio fango su cui sfila
Una grigia schiera di fradici straccioni
Ormai incuranti del Fato più crudele.
Ovunque gli occhi opachi di uomini spezzati,
Di cavalli abbattuti, immoti di fiacchezza,
Morenti gli uni e gli altri in crateri di granata, dal fango offesi.
Uomini smunti, urlanti a un colpo di fucile.
Finché il dolore non lo annienta, o il torpore non lo ottunde,
Il cuore sbigottito si scaglia contro Dio.

*

Quando dalla curva

Quando dalla curva al limine del bosco
Appare la Potenza, e cresce e mi avviluppa
Nel senso dell’incontro del seme e dell’aratro
Una poesia mi sento tremare
Nel profondo; le doglie se ne vanno
Lasciando gioia piena, poiché presto verranno
La scintilla, i colpi ai cancelli del Cielo
La marea che incede imperiosa verso casa.

Allora sotto i cieli io farò voto
Di mondare il mio cuore affinché possa
Abitare la superna Casa
Della Poesia, che svetta avulsa, eccelsa, pura.
Il fuoco, l’onda, il volo, questi i tre
Che uniti danno potere di profezia e poesia.

*

Il buio ha destrezza d’inganno

Il buio ha destrezza d’inganno
Quando gli occhi vagano errabondi,
S’apre e si chiude in lunghi sentieri
Che il pensiero non sa dimostrare.

Il buio s’apre e si chiude;
Cela un roseto di cinta
Tre diversi fantasmi
E ogni pertica un monito.

Finché uno non giunge sull’orlo del crinale,
Si volta, vede la città spiegarsi
In una lunga schiera di vividi brillii
Che lo chiamano, grato, verso casa.

*

Dracme e scrupoli

Lo strazio misurato in dracme e scrupoli
Non è che uno sfregio su una pagina vana.
Di maestri crudeli siamo allievi,
La fuga giunge incauta con l’età.

Perché le stelle in armonia celeste
Desideriamo come ingordi il pane,
Come bambini i ninnoli – Possa la morte
Smussare lo spigolo vivo del male.

Ivor Gurney

*Traduzione di Annalisa Crea

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