Ogni volta che vado a trovare Stefano Simoncelli incontro un uomo abitato dal demone della parola, convivono due nuclei di fuoco dentro una sola cellula. La poesia di Simoncelli non si estranea mai dalla realtà, l’abita nei piccoli dettagli, come provare un cannocchiale dentro le quattro mura di una stanza, tutto diventa speciale e irripetibile, degno.
Un barelliere del turno di notte è l’ultima pubblicazione di Simoncelli, sempre per la fedelissima peQuod, dove i testi sono accompagnati dai disegni di Roberto Pagnani. Il barelliere in ospedale è colui che fa da ponte al destino di ogni singolo uomo barellato: un uomo viene messo su una barella, incapace di arrivare da solo al percorso della diagnosi, “dove sta la malattia” si chiede, e il barelliere è colui che lo accompagna, un testimone del percorso, totalmente incapace però di impedire il dolore e la morte. Così è il poeta, colui che porta la testimonianza delle cose, inserito nel mondo lo abita ma allo stesso tempo lo attraversa e ce lo restituisce depurato.
Simoncelli ha la capacità di stare zitto se non ha niente da dire, lo ha fatto per dodici anni e senza nessun rimpianto. Per cui non è di sicuro il silenzio e l’immobilismo a cui siamo obbligati da un anno a spingere Stefano a scrivere, come invece ho visto fare a tanti, ansimanti come pesci in un acquario troppo stretto, che per forza dovevano scrivere qualcosa, anche se non avevano assolutamente niente da dire. Nei versi di Simoncelli c’è la coerenza dell’uomo-barelliere che esiste in ognuno di noi, testimone inutile dell’accadere delle cose, incapace di cambiarle eppure vivo: “ma non si può cambiare niente/ come a quest’ora in un ospedale/ della Lombardia o del Piemonte/ un barelliere del turno di notte/ che esce a fumare una sigaretta/ nel parcheggio delle ambulanze/ mentre là dentro, nelle corsie,/ con lui o senza lui, si muore.” Simoncelli nemmeno in quarantena perde la bussola della sua voce, mi dice “si riscrive sempre la stessa poesia”, come fosse un mantra o una preghiera, nell’isolamento lui ha continuato a seguire il suo canto, come il suono della sirena del porto di Cesenatico che richiama le barche, riporta il poeta al porto sicuro e doloroso della parola, con tutti i suoi fantasmi. Perché “gli uomini dimenticano in fretta/ e tu sei morto lì, sulla polvere” ma Simoncelli resiste nel ricordo dei suoi morti portandoli sempre appresso come lanterne, anche obbligato dentro casa, non tradisce mai le loro voci. “Pochi passi ed era scomparso/ dentro una rivendita di vino./ E’ quello mi sta aspettando/ e mi cammina sottobraccio/ anche nei sogni, mi sono detto,/ è la paura di essere già un’ombra/ che svanisce o la sua brutta copia.”
Il poeta-barelliere continua a essere dentro al mondo, obbligato a una realtà che però può trasformare come solo i poeti sanno fare: “Controllano a tutti la febbre/ appoggiandoci sulla fronte/ il termometro elettronico/ che assomiglia al becco/ di un uccello rapace/ o di un germano reale./ (…) La febbre stavo dicendo./ Non so se siamo già grafici/ di corpi scomparsi in un lampo/ nei pronto soccorso degli ospedali/ o gite di bagnanti sui lungomari/ in attesa febbrile di un’estate/ che si prepara su improvvisati patiboli.” Il poeta è un fluido, sta dentro alle cose riuscendo a scappare dal contenitore. “Non c’è niente che possa desiderare/ come essere dove non sono, là,/ ad esempio, dove è inverno/ mentre qui è primavera inoltrata o già estate/ e mi trovo nel chiosco delle darsene dove andava mio padre”.
Un barelliere del turno di notte è una raccolta di testi scritti nel periodo di quarantena ma privi dell’odore acre di chiusura. Simoncelli scrive dalla quarantena ma continuando a essere spinto dal demone che lo accompagna: la parola è un demone, lo chiama con la voce degli affetti in una terra sfumata e fatta di dettagli, di visioni lucide a cui manca solo il non doversi più svegliare. Ma da questa terra di visione il poeta è un fluido, scivola tra le voci e cambia la temperatura, si trasforma in un solido che deve fare posto alla memoria. “Mi sono accorto di avere la memoria piena/ e devo eliminare avvenimento del passato/ per fare posto a una cosa spettacoloso/ che ho avuto la fortuna di vedere/ in una di queste mattine cupe,/ malvagie e piene di veleno. (…) Qualcosa devo togliere per fare posto/ al festival di rondini che ho visto/ attraversare il cielo di maggio/ dal solito terrazzo sui tetti/ mentre pensavo che valeva la pena/ fermarmi ancora qui per qualche attimo.”
Clery Celeste
*In copertina: Stefano Simoncelli in una fotografia di Daniele Ferroni