Il poeta laureato è un poeta imborghesito. La vera poesia è per sempre giovane
Politica culturale
Alessio Magaddino
La ‘prima’ andò in scena l’ultimo giorno di ottobre del 1903, a Berlino, presso il teatro di Max Reinhardt: era andata da poco in atto la Salomé di Oscar Wilde. Il successo fu ‘scandaloso’; l’opera fu acquistata da decine di teatri; il libretto esaurì, in pochi istanti, tre edizioni. Richard Strauss – che già aveva intenzione di rielaborare in musica proprio la Salomè di Wilde – cominciò con Elektra il lungo, fruttuoso sodalizio con Hugo von Hofmannsthal.
Lo ‘scandalo’, più che altro, originò da uno dei monologhi finali di Elettra, quando la ragazza descrive l’amplesso con lo spettro del padre, Agamennone, con parole perturbanti:
“Dovetti allora l’orrido, dall’alito
di vipera, lasciare che strisciasse
su di me, nel mio letto insonne, e tutto
mi costrinse a sapere ciò che avviene
tra uomo e donna…”
Amare il morto. Il sunto – secondo lo stigma dell’enigma greco – ha il sapore del monito: “Sono gelosi i morti”.
In molti riconobbero nell’Elettra insonne per la morte del padre una specie di Amleto femmina. In effetti, con quella tragedia di un unico, allucinato, atto Hofmannsthal intendeva ‘gareggiare’ con Shakespeare – o meglio: misurare il tono ‘classico’, d’ammonimento celeste e cupo, al dettato shakespeariano. Lo dice lui stesso, allo studioso Ernst Hladny: Elettra fu composta in un mese, confrontandosi con il modello sofocleo, “mi venne in mente il verso della Ifigenia di Goethe… anche mi colpì l’affinità e il contrasto con Amleto”. Tutta la tradizione converge in Hugo von Hofmannsthal: Sofocle, Goethe, Shakespeare. Elettra: una specie di orfica Ofelia che ha fatto a pezzi Amleto.
A 150 anni dalla nascita, vale la pena rileggere Hugo von Hofmannsthal proprio a partire da Elettra: meglio se nella bella traduzione di Giovanna Bemporad, edita da Garzanti.
L’Elettra di Hofmannsthal turba per l’esuberanza degli estremi: è la vergine votata alla memoria dei morti, è pura & folle, sacra e discinta. I suoi caratteri la rendono super-umana e sub-umana: la prima volta la troviamo “sulla soglia, in cenci”; tutto, in lei, è ricondotto alla bestialità, allo stato ferino prima che ferito dell’uomo (poi la vediamo “alla soglia della porta, silenziosa, come un animale”; “non vive bestia feroce sola e orrendamente/ quanto me”, si dice lei; anche nell’azione finale, rendez-vous del sangue, resta immobile, “come una fiera chiusa nella gabbia”).
Elettra “vive in disparte dagli uomini e passa/ le sue giornate a guardia di una tomba”: nessuno sa sostenere il suo sguardo, violenta sapienza, incardinata sull’erta della vendetta, la sua. “Tu sei tremenda”, dice di lei la sorella, Crisotemide, usando l’epiteto con cui si circoscrivono gli dèi, orientata, invece, alla vita, slegata dall’antico omicidio ordito dalla madre, Clitemestra, e dall’amante, Egisto, ai danni del padre. Elettra rimane, invece, salda a “fissare il buio”: istruisce la mandria delle ombre che affollano la mente fino alla follia. La sua dottrina è sacerdozio negativo: Elettra non agisce, istiga all’azione, conforta il fratello, Oreste, a realizzare l’osceno atto, il matricidio.
Oreste ha l’onere gerarchico di uccidere: egli succederà al trono del padre. Ma i re passano, gli dèi restano, immortali, immorali: Elettra è consacrata alla memoria e alla profezia – alla fine della tragedia, mentre i sopravvissuti fan festa, lei inaugura “una danza senza nome” perché “Io porto il peso della gioia, e davanti a voi qui danzo”. Il verbo, incapace a dire l’indicibile, rovina nella selvaggia danza – Elettra è agita, ossessa, spossessata.
Tuttavia, Elettra non ha il crisma della profezia proprio di Cassandra, non è sensuosa come Elena, non conosce i segreti del labirinto come Elettra. Non è eroica come Antigone. Resta rinchiusa in una femminilità cristallina e imbestiata, cerusica del nulla. Scoscende nell’abiezione. Elettra, donna dal ventre muto, cavo, scava la terra, nelle doglie del mondo (“lascia ch’io frughi nella terra”), sintetizza con micidiale ferocia il ciclo della vita umana, che fa razzia di ogni giustizia (“razza che vive nel suo buco/ e mangia e beve e dorme e si moltiplica”) e a tutto si sottrae. Fa, cioè, esperienza del nulla: “Io sono nulla, vedi”, latra a Oreste, il ritrovato fratello, “ho guaito insieme ai cani/ sono venuta in odio, e tutto ho visto”. Tutto odiano Elettra perché vede: non scosta occhio dall’ingiustizia e sa che “tutto è nulla”; anche “l’odio è nulla”, perché “rode e lima se stesso”, come l’amore che “a tutto si protende/ e nulla afferra, le sue mani sono/ fiamme che nulla afferrano”. Fuori dall’egida di amore e dalla materia dell’odio, Elettra resta la passante, il monito, figura minima e senza esito, che per sempre arde.
Quando Hugo von Hofmannsthal pubblica Elettra ha 29 anni: la sua precocità ha sancito un’epoca. Giovanissimo, appena diciottenne, è riconosciuto come l’astro della poesia tedesca, il bambino d’oro, un eletto. A lui si fa addosso Stefan George, patriarca delle lettere, da lui discenderà Rainer Maria Rilke. Nella Lettera di Lord Chandos, capolavoro di poche, rivoluzionarie pagine, in sostanza, Hofmannsthal sancisce la fine del legame tra le parole e le cose, scatena il senso della rivelazione, che verbo non può sostenere né dire. La letteratura non è sconfitta, è sotto scacco:
“È qualcosa che non ha nome, e a malapena può averne, quel che mi si annuncia in certi istanti, quando un qualsiasi oggetto della mia abituale esistenza, come un recipiente, viene a essere colmato da un flusso di vita più alta, fino a traboccarne… Un annaffiatoio, un erpice abbandonato nei campi, un cane al sole, un umile camposanto nella campagna, uno storpio, un piccolo casolare, tutto questo può diventare per me il tramite di una rivelazione”.
Il puro ispirato vive, rinuncia al dire umano: altro linguaggio è ora da forgiare – o restare nella trappa del silenzio. La Lettera è pubblica nel 1902: nello stesso anno Joseph Conrad pubblica Gioventù, libro che raccoglie tre racconti, tra cui Cuore di tenebra. Con altri mezzi letterari, anche qui è descritto lo scacco del linguaggio al cospetto dell’orrore dell’uomo, la stessa atmosfera trasognata, tra infero e paradisiaco. Hofmannsthal e Conrad, in modi opposti, sigillano la fine della letteratura come era stata intesa fino ad allora: preludono al balbettio orfico, allo sperimentalismo alchemico, all’inselvatichimento del verbo – o al suo farsi pura merce, effimero show.
Harold Bloom scriveva che la fine del ‘canone occidentale’ aveva per termometro i romanzi di Thomas Mann: chi è ancora in grado di leggerli e capirli, chi ancora li leggerà? Io direi che ha per metro di misura l’opera di Hugo von Hofmannsthal. Poeta amato da scrittori d’alto lignaggio come Alessandro Spina e Cristina Campo – nel 2001 le edizioni Ripostes hanno stampato un Hofmannsthal tradotto da Cristina Campo assai suggestivo –, Hofmannsthal è tradotto in modo disparato (di recente Del Vecchio Editore ha pubblicato le poesie come Nel centro di ogni cosa), si legge alla macchia, senza entrare nella nebulosa narrativa, spiazzante, a angeli scatenati. Ad esempio, il ‘Meridiano’ Mondadori che ne raccoglie Narrazioni e poesie, curato da Giorgio Zampa, è lì dal 1972: Hofmannsthal è definito “poeta del decadentismo viennese, poi librettista di Richard Strauss ed elegante narratore”. Del tutto diversa, a contrario, l’enfasi con cui lo presentava Vincenzo Errante nel 1949, nella raccolta Orfeo: “è il più grande poeta austriaco moderno… prezioso nella forma, acuto e sensibile nell’ispirazione, H. ha lo sgomento delle cose che passano; ondeggia fra il sogno e la realtà, senza mai trovare un vero rifugio o una soluzione”.
Sintomi dell’odierna civiltà: un tempo Hofmannsthal era lettura d’obbligo, oggi è accessoria. Nulla gli è, però, all’altezza – dalla Lettera si parta per comprendere lo scialacquio linguistico di Joyce, il deragliamento di Beckett –, e la sua ostinata percezione d’abisso suona, proprio oggi, con claustrale verità.
“Il poeta è là dove non sembra si trovi e si trova sempre in un luogo diverso da quello in cui lo si pensa. Stranamente, egli abita nella casa del tempo, sotto la scala, là dove tutti gli debbono passare davanti, e nessuno lo nota… Codesta è la sua vita, vivere non riconosciuto nella propria casa, sotto la scala, al buio, accanto ai cani; straniero eppure in patria… battuto dall’ultima delle sguattere e additato ai cani; senza ufficio, senza occupazione, senza diritti”.
Aveva previsto anche questo. Il poeta è dell’ispirata stirpe di Elettra: in cenci, fissa il buio. E danza la gioia.
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Ballata della vita eterna
Crescono, con profondi occhi, bambini
che nulla sanno, crescono e periscono,
mentre gli uomini van per lor cammini.
E i frutti acerbi via via s’addolciscono;
cascano a notte come uccelli morti,
giacciono a terra, subito marciscono.
E il vento spira sempre, e sempre molti
discorsi udiamo e diciamo, e piacere
e stanchezza portiamo nei nostri corpi.
Corrono strade per l’erba e lumiere
appaiono qua e là, paludi e piante:
aride cose spente, o vive e fiere.
A che son esse fatte? A che di tante
non una all’altra eguale? E il riso dopo
le lacrime, e il pallore del sembiante?
A che ci giova il tutto, e questo giuoco
eterno, noi pur grandi e sempre a tondo
erranti, e soli sempre e senza scopo?
E tante cose simili nel mondo?…
Eppur chi dice “sera” una parola
dice onde un senso doloroso e fondo,
come da favo un grave miele, cola.
Traduzione di Diego Valeri
*
Pensieri: mele sull’albero
che non appartengono
a nessuno se non a chi
per primo li afferra.
*
Terzine sulla transitorietà
Sento ancora il suo respiro sul viso:
come è possibile che questi giorni, così
prossimi, siano svaniti per sempre?
Cosa che nessuno pensa con pienezza
perché terribile sarebbe il lamento:
tutto scorre, tutto scivola e ci passa accanto.
Anche il mio ego, senza ostacoli,
è passato dal bambino muto
alla creatura aliena, come un cane.
Inoltre: un secolo fa anch’io ero
e i miei ancestri, cerimoniosi,
vicini a me come questi capelli
a me vicini come questi capelli.
II
Le ore! Fissavamo l’azzurro
pallido del mare, sapevamo la morte
semplici e felici, senza paura,
come le bimbe che sembrano pallide
con i loro grandi occhi, gelidi
che in silenzio guardano nella sera:
capii che la vita scorre silente
dal loro ondeggiare ebbre di sonno
tra gli alberi e l’erba guarnita di sorrisi
come una santa che distilla il suo sangue.
III
Siamo della stessa stoffa dei sogni
e i sogni spalancano gli occhi
come piccoli bambini sotto i ciliegi
dalle loro corone la luna piena
nella vasta notte comincia la corsa dorata
…non altrimenti sorgono i nostri sogni,
sono, e vivono come un bimbo che ride
non meno abbagliante nel suo flottare
della luna piena tra le cime degli alberi.
L’intimo è aperto alla loro tessitura
come mani spettrali in una stanza chiusa:
sono sempre in noi, viventi, sempre.
E i tre sono uno: l’uomo, la cosa, il sogno.
*
Canzone per il viaggio
L’acqua crolla per divorarci
la roccia rotola per schiacciarci
quando su forti ali calano gli uccelli
e ci portano via.
Ma sotto è la terra
che riflette senza fine
i frutti del cielo in laghi
senza età.
Testa di marmo, grumo di fonte
sorge dai campi fioriti:
i venti soffiano, leggiadri.
Hugo von Hofmannsthal