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Letterature
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Cultura generale
Linda Terziroli
Novant’anni dalla morte di Hugo von Hofmannsthal, il 15 luglio del 1919. Centotrent’anni dalla pubblicazione di Un Homme libre di Maurice Barrès. Per celebrare l’anniversario del grande scrittore viennese, un frammento di un suo articolo su quello che fu il primo maestro di Drieu e Montherlant ma del quale sostanzialmente nessuna delle maggiori opere è mai stata tradotta. [Marco Settimini]
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Hugo von Hofmannsthal, “Maurice Barrès (Souls l’œil des barbares, Un Homme libre, Le jardin de Bérénice)”, in “L’ignoto che appare”, tr. it. di Gabriella Bemporad, Adelphi, 1991.
Non ha mai scritto un romanzo nel senso corrente, non appartiene ad alcuna clique letteraria; non si cura della bellezza della forma, non ha quasi uno stile. A lui importa esprimere in modo chiaro e comprensibile pensieri rari, ingrati e importanti, laddove altri vogliono suggerire stati d’animo con la musica e il colore della parola. […] Scrive in modo quasi non moderno, quasi non francese; ma i suoi libri singolari, che non stimolano, non commuovono e non avvincono, l’hanno reso molto famoso. I suoi libri singolari formano un’opera, contengono un sistema; la sua fama e la fama di un filosofo.
Il signor Maurice Barrès ha compiuto l’onorevole e rispettabile tentativo di portare nella propria esistenza, quella di un francese moderno, chiarezza, unità, una concezione filosofica della vita, di attuare una corrispondenza tra la vita esteriore e quella interiore. Alla descrizione di questo tentativo sono dedicati i suoi tre libri. Ciò che ha fatto, l’hanno fatto altri prima di lui, la maggior parte dei filosofi dell’antichità, parecchi santi della Chiesa cristiana, in certo senso anche l’autore del Wilhelm Meister. Ad ogni modo il suo tentativo resta degno e pregevole. A noi suole mancare tanto fede quanto cultura, che sostituisce la fede. Manca un centro, manca la forma, lo stile. La vita è per noi un groviglio di manifestazioni sconnesse; contento di adempiere un morto dovere professionale, nessuno chiede altro. Formule inaridite stanno bell’e pronte, attraverso tutta la vita ci porta la corrente di cose tramandate. Il caso ci nutre, il caso ci ammaestra; grati godiamo di ciò che il caso ci offre, senza lamento rinunciamo a ciò di cui il caso ci priva. Pensiamo i comodi pensieri degli altri e sentiamo che il nostro io migliore muore a poco a poco. Viviamo una vita morta. Soffochiamo il nostro io. Si può essere veramente felici in una tal via, ma si è tremendamente sventurati. Si è un’ombra animata da sangue estraneo, uno schiavo straniero sotto l’occhio dei signori, dei barbari.
Tale condizione i Santi Padri la chiamavano vita senza la grazia, un’esistenza arida, vuota e sorda, una morte vivente. Tale esistenza, l’esistenza di noi tutti, è rappresentata nel primo libro: Sous l’œil des barbares. Uscì nel 1888 e passò quasi inosservato. Non era che un preliminare, il primo gradino di un sistema.
Un homme libre contiene il metodo. Tratta di “ciò che solo è necessario”. Un vero e proprio libro di edificazione. È imparentato con l’Imitatio del quattordicesimo secolo e con gli Esercizi spirituali di Loyola. Solo che non si rivolge a cristiani credenti, ma a uomini moderni.
È la sistematica della vita d’oggi, l’etica dei nervi moderni. Insegna a vivere. Ha la forma di un lungo esame di coscienza, di una confessione psicologica. Contiene preghiere e invocazioni, i capitoli hanno per titolo formule cattoliche, oratio, meditatio e colloquium fanno pensare a una regola monastica. E la vita monastica, la santa, filosofica vita cristiana, verso la quale già da qualche tempo aleggia attraverso i libri una vaga nostalgia, è il simbolo della nuova vita, della vita dell’“uomo libero”. È la maschera che Nietzsche consiglia, e anche l’allegoria attraverso cui si devono manifestare e imprimere cose difficile a comprendersi. “Io ho sviluppato e giustificato il mio metodo nella cornice di una finzione. Mi sarebbe piaciuto imprimergli forma di simbolo […]”.
L’uomo solitario di cui leggiamo il monologo guarda dentro di sé e vuole conoscere la propria anima, conoscerla interamente dalle cose minime alle più grandi. Vuole conoscerla fino a possederla, per edificarsi una vita di signoria, padrone del suo io e conoscitore dei suoi sentimenti. Con pacata riflessione, medico di se stesso, esamina il proprio corpo per sapere cosa gli giovi. Esamina la propria anima, confessore di se stesso. […]
Amore potenziale, accumulata facoltà di sentire, necessita dell’accumulatore per godere se stessi: amore come condizione vuole diventare amore come inclinazione e si costruisce un oggetto di essa. Il processo è d’uso generale: la riduzione a sistema è nuova.
L’inclinazione stessa oscilla a sua volta tra religione goethiana dell’armonia con la sana natura e culto indiano-cristiano della sofferenza.
[…] Gli uomini e le cose sono per lui “des émotions à s’assimiler pour s’en augmenter” [delle emozioni da assimilare a sé per aumentarsi di esse]; il suo io si spegne, ogni passione individuale s’estingue: l’io, possibilità di ogni sensazione, diventa l’io, totalità di tutto il conosciuto. L’opera è conchiusa. Se il signor Barrès dopo un esame di quest’opera si fa editore degli Esercizi spirituali di Ignazio, se Maurice Maeterlinck ridesta un mistico cristiano del Medioevo, se Lev Tolstoj e uno schietto ufficiale tedesco additano contemporaneamente “l’unica cosa necessaria”, questo non dimostra che il mondo vuole diventare cristiano, ma piuttosto che esso anela alla conoscenza della meta, a cui l’autore di Anna Karenina e l’autore dell’Imitazione di Cristo, a cui il signor Barrès e il signor von Egidy, Clemente Alessandrino e Platone, il figlio di Aristone, sono guide equivalenti.
Poiché queste parole di Barrès potrebbero essere da ogni anima: “Je suis perdu dans le vagabondage, ne sachant où retrouver l’unité de ma vie” [Sono perduto nel vagabondaggio, senza sapere dove ritrovare l’unità della mia vita].
Hugo von Hofmannsthal