04 Aprile 2022

“L’arte è vita nuda”. Hugo Mujica, il monaco poeta

Probabilmente sono passati dieci anni, l’ho incontrato a casa del suo editore, Walter Raffaelli, a Morciano, nei recessi romagnoli, crudi ed enigmatici, dove sono nati i genitori di Umberto Boccioni. Il poeta stava in una sfera di silenzio, attento, perché l’attimo è un ago, totalmente presente a te, sulla sedia, da incutere un vago timore, come se sul tavolo da pranzo fosse sdraiata una lince. Esattamente dieci anni fa, “El País” ha dedicato un servizio – uno dei tanti – all’Hippy, monje y poeta mistico: Hugo Mujica era riconosciuto tra i grandi poeti viventi in lingua spagnola (se per la poesia hanno senso i clamori della statistica). Avvinceva la sua poesia, certo; e la sua storia. Nato a Buenos Aires nel 1942, mandato a lavorare in una fabbrica di vetro a tredici anni perché il padre rimane cieco durante un incidente, neanche ventenne, senza conoscere l’inglese, con 37 dollari in tasca, arriva a New York, precipita nel circo del Greenwich Village, si scopre pittore. In particolare, si avvicina a Timothy Leary, diventa amico di Allen Ginsberg, “il più grande di noi… lo ricordo sempre inclinato a capire le necessità degli altri: amabile nelle emozioni, potente nella parola”. La parabola dalla ribellione sociale alla scelta spirituale sembra canonica, ma per Mujica ha accenti micidiali: dopo aver partecipato al chiasso di Woodstock, si avvia al silenzio, per sette anni, in un monastero trappista. Mujica nasce poeta nel silenzio, la sua poesia istiga a vivere nel cristallino delle cose, all’apice, sulla cruna del miracolo, senza moine retoriche. È l’editore Raffaelli, appunto, nel suo opificio editoriale, a portare Mujica in Italia per la prima volta: nel 2008 pubblica un’antologia di Poesie scelte, a cui seguono E sempre dopo il vento (2013) e Quando tutto tace (2016). La poesia di Mujica – più potente di quella dell’altro celebre poeta trappista, Thomas Merton, diversa – procede per scaglie verbali, per palpebre in fiamme, epigrafi nel fuoco; è ‘mistica’, anche se il poeta direbbe che è semplicemente vita (“nelle ombre della sua stessa luce/ si cela il dio invisibile”; “tutto entra nelle mani vuote/ e quel vuoto è il dono/ e anche quel dono è tutto”; “quando l’anima è ormai carne,/ quando si vive nudo,/ tutto il fuori è la propria profondità”). L’editore Lietocolle ha pubblicato di recente altri libri di Mujica – una Antologia poetica nel 2017 e Fango nudo, 2019 –, ma restano ancora inediti i saggi, dedicati, tra l’altro, all’esicasmo, a Paul Celan, a Georg Trakl e a Francis Bacon. Qualcosa di grato e di inflessibile, di amabile e feroce è in lui, il poeta aperto ad ogni abisso, nudo alla vita. Per questo, ora, l’ho cercato. I ricordi hanno una esattezza fallace, felice.

Lei ha conosciuto Allen Ginsberg, Timothy Leary e la vita furibonda del Greenwich Village: in che modo quegli uomini e quella vita hanno influenzato la sua ricerca artistica?

In quegli anni dipingevo, l’ho fatto dalla mia infanzia fino all’ingresso nel monastero trappista. Con Leary ho lavorato sull’esperienza dell’LSD legata al processo creativo, il che mi ha permesso una ricchezza che non valuto in somme, quanto per aver decostruito una realtà che stabiliamo, che congeliamo. Mi ha dato una certa capacità nel frantumare costantemente la vita, recuperandola come verbo e non come sostantivo. Ginsberg, al di là della sua caratura da creativo, fu l’uomo che mi ha aperto le porte dello “spirituale”: mi ha presentato Swami Satchidananda, che ho frequentato e che, paradossalmente, mi ha condotto al mondo cristiano.

Che rapporto ha la sua poesia con la fede, con il mondo, appunto, “spirituale”?

Non esiste la “mia” poesia da una parte e dall’altra il mondo, che sia dello spirito o di qualsiasi altra cosa: io vivo il mondo, non “nel” mondo, e il mondo vive in me, e la “mia” poesia viene al mondo, non è posta in esso, e non separo un “mondo dello spirito” o spirituale con un altro, quale sarebbe questo altro, poi?, della carne?, e senza la carne cosa potremmo sapere dello spirito?

Nella sua biografia accenna all’incontro con gli Hare Krishna, finché non ha scelto la Trappa: come è accaduta questa scelta? Che rapporto c’è tra la spiritualità orientale e quella occidentale?

La spiritualità occidentale è storica, è l’incarnazione; quella orientale – la ridondanza è valida – è la spiritualità dello spirito. Ovviamente, questa è una estrema semplificazione. In modo ironico, accenno alle differenze in questo modo: se uno ha un percorso accidentato imbocca la porta di una chiesa per necessità; se uno vuole fare esperienza di Dio va in un gruppo orientale. Per molti versi, credo che Oriente e Occidente abbiano un debito infinito con l’umanità, o quasi – e non lo dico perché sostenga una cieca speranza. Direi che le loro religioni hanno “quasi” fallito: Caino non ha smesso di ammazzare Abele, durante il mitico fratricidio della Bibbia, e i Pandava non hanno smesso di lottare contro i Kaurava, come nel mitico combattimento umano con cui si apre la Bhagavadgita.

Che rapporto ha il silenzio con la poesia?

Parlo solo a mio nome, riguardo alla mia estetica – non per le molte voci della poesia – che è inseparabile dalla mia vita: è stato durante i sette anni che ho vissuto nel silenzio che ho cominciato a scrivere poesie, sono nato nel silenzio, da allora il silenzio è la mia intonazione creativa, è qualcosa come un richiamo al silenzio e allo stesso tempo, l’attesa che quel silenzio dilaghi, si dica.

Cosa c’entra la poesia, quest’arte così intima, quasi un rifugio, con il pubblico, con la fama?

La “fama” è volgare, non ce l’ho e non la cerco, mi importa, certo, sentirmi rispettato e ovviamente apprezzato, che è altro dall’essere applaudito. L’arte non è un “rifugio”, che suona come nascondere la testa, l’arte è vita nuda e mettere la propria carne nella carne della vita, nella vita. Quanto al rapporto tra “intimità” e “pubblico” mi piace pensare che la profondità, perfino l’abisso, stia dissolvendo la divisione tra un dentro e un fuori; la profondità è nella vita non in un luogo in essa, è qualcosa di simile a ciò che Lacan chiamava “estimità”. “Tutto è pieno di dèi”, diceva Eraclito, come santa Teresa per cui, “Dio cammina tra le pentole”.

Ho letto che ha studiato l’esicasmo: perché? In che modo questa disciplina è entrata nella sua ricerca poetica?

Non ho studiato l’esicasmo, è stato un cammino, una lunga parte del cammino della mia vita, su cui ho scritto il mio primo saggio, Kyrie Eleison; la disciplina mi è stata insegnata in un monastero trappista, in Francia. Ripeto ancora, per evitare di cadere nella dicotomia tipica: la disciplina, l’esicasmo o qualsiasi altra, non ha influenzato la mia poesia. Come tutto ciò che ho vissuto, non c’è da una parte il poeta e dall’altra le esperienze: io sono loro e loro si raccontano. Un poeta, uno scrittore, è colui che ascolta ciò che la vita gli dice su ciò che ha imparato da lei vivendola… e lo dice, o tenta di dirlo.

Le chiedo di estrarre una manciata di versi esemplari, e di spiegarmeli.

“Amare da ora in poi ciò che non saremo mai/ così per l’eternità/ così ad ogni battito”. E la spiego nell’unico modo in cui si può spiegare: “Amare da ora in poi ciò che non saremo mai/ così per l’eternità/ così ad ogni battito”.

Questa è l’era della pandemia, del riscaldamento globale, del transumanesimo, della vita digitale; della grande ricchezza e della grande rabbia. Come vive il poeta, il sacerdote in questo mondo, come lo guarda?

Con serenità. Sono uno studioso di storia, intento a riflettere non sui dati ma sulle figure che si vanno formando, sulle metafore, e vedo come cambia la storia, la vita, perché la creazione è il cambiamento, è vita che nasce e cerca nuove vie di espansione: viviamo in una cultura – “l’Occidente” – che è già passata – come sono passate tante culture e tanti imperi – benché la luce resista come quella di tante stelle che sono già morte, e qualcos’altro inizia che non è ancora iniziato, che appena scorgiamo, mentre tentiamo e facciamo errori, avanziamo e arretriamo, e senza dubbio e fortunatamente è il caos, senza il quale non ci sarebbe materia con cui plasmare il nuovo… Senza dubbio l’asse che teneva i millenni si è spezzata: l’“Uno”, sfida la pluralità, la differenza… la ricchezza dell’altro, l’alterità che ci altera liberandoci dalla fissazione sulle identità che ci stava asfissiando… Credo, spero e intanto contribuisco al creato creando.

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