09 Giugno 2022

Houellebecq o della fase senile della scrittura

Quello di Annientare è un Houellebecq che a tratti sembra stanco. La penna scivola lungo le oltre settecento pagine con distacco via via più marcato. Lo stile suo proprio – piatto, freddo fino al parossismo clinico – non rimane relegato alla forma ma va, in questo romanzo, a modellarne quasi la sostanza. Tutti i temi cari all’autore appaiono infatti menzionati solo di sfuggita: l’islamismo viene citato, ma senza una vera e propria finalità narrativa come in Sottomissione; del sesso troviamo giusto qualche accenno, niente a che vedere con la prosa pornografica di Piattaforma; la depressione è marginale, per non dire inesistente, aspetto curioso considerato che l’ultimo suo lavoro, Serotonina, aveva indagato a fondo il ruolo dell’antidepressivo per la sopravvivenza dell’uomo moderno:

«fornisce una nuova interpretazione della vita – meno ricca, più artificiale, e improntata a una certa rigidità. Non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo, la sua azione è di tipo diverso: trasformando la vita in una serie di formalità, permette di raggirare. Pertanto aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire – per qualche tempo».

In Annientare Houellebecq si cimenta, dopo trent’anni di carriera, nel suo primo vero romanzo, come ha scritto Raffaele Alberto Ventura su Domani. Anche sotto questo punto di vista, però, lo spettro dell’incompiutezza sembra pervadere l’intera struttura narrativa; l’autore stesso dà l’idea di non avere voglia di portare a termine l’impresa. La trama si sviluppa attorno al personaggio di Paul, funzionario di gabinetto e fedele confidente del Ministro dell’Economia Bruno. Non ci saranno poi tanti altri volti lungo l’intero arco della storia: conosceremo di fatto solo la famiglia di Paul e Prudence, sua moglie, a riprova di come Houellebecq, nel continuo tentativo di trovare un appiglio di fronte alla decadenza di cui si è sempre fatto cronista, ritenga meritevoli di attenzione solo la famiglia e l’amore, anche quando assenti. Questi microcosmi sono inseriti poi in una cornice di attualità – spostata qualche anno più avanti, in questo caso al 2027 – esemplificativa delle tendenze del nostro tempo, anche se colorata superficialmente, senza approfondimento, sintomo del palpabile distacco dell’Autore verso l’esterno che pervade l’intera opera: troviamo la Cina e le terre rare, la guerra geo-economica, gli sviluppi dell’industria contrapposti al declino delle aree interne, il marketing politico, l’eutanasia e le grandi portacontainer del commercio marittimo. Infine, questa cornice viene modellata dai diversi attentati di un misterioso gruppo di terroristi, che di primo acchito sembra essere il tema centrale del romanzo, salvo poi dissolversi nelle ultime pagine, quando la malattia del protagonista Paul mostrerà in tutta la sua nudità la futilità del mondo esterno. Lo si potrebbe interpretare come il coronamento dell’(involontario?) esperimento di Houellebecq, in cui l’incompiutezza di un romanzo diventa essa stessa contenuto: l’incapacità, o assenza di motivazione, nel portare a conclusione la trama disegnata si traduce nella più intensa prova della vacuità del tutto di fronte alla morte.

Perché è la morte il grande tema di questo romanzo. L’intera weltanschauung dell’autore, focalizzata sulla decadenza del mondo contemporaneo, in cui nulla riesce a sostituirsi all’individualismo della competizione economica e sessuale, rimane sospesa, o quantomeno posta in secondo piano, di fronte alla morte, al fisico che, ironicamente, decide di abbandonare Paul prima che lo spirito ne sia d’accordo. Solitamente, in Houellebecq, è lo spirito a non sentirsi molto bene, il corpo ha un ruolo marginale. In questo romanzo, invece, l’autore si focalizza sulla descrizione del decadimento fisico, una cinepresa che racconta la lenta agonia del tumore di Paul. Spesso l’autore, nel descrivere le varie forme di depressione, ha avuto difficoltà ad approcciarsi al gesto estremo della fine – «purtroppo l’assenza di voglia di vivere non basta per aver voglia di morire» leggiamo in Serotonina – ma qui quanto si percepisce è proprio un intenso attaccamento alla vita di fronte all’odore tangibile della morte; alla solita depressione si sostituisce la paura, semplicemente, di non esserci più. Il punto, ci dice Houellebecq nel corso del romanzo, anticipando la tristezza dell’addio definitivo, «non è il fatto di essere stato felice in un posto a rendere dolorosa la prospettiva di lasciarlo, è semplicemente il fatto di lasciarlo, di lasciarsi alle spalle una parte della propria vita, per quanto piatta o addirittura sgradevole possa essere stata, di vederla sprofondare nel nulla; in altre parole, è il fatto di invecchiare». O di morire, capiremo nelle ultime pagine.

Gli attentati dei terroristi sono destinati a farsi da parte, quando impellenze, per così dire, maggiori andranno ad impattarsi su Paul e sulla struttura del romanzo. Il che, seppure coerente, è anche un peccato: Houellebecq aveva provato a tratteggiare una nuova forma di terrorismo vicino alle idee di Kaczynski, una sorta di anarco-primitivismo con tinte di estremismo ecologico che potrebbe rappresentare la prossima tematica nell’impianto teoretico dell’autore – ossia, la grande sfida dell’insofferenza verso la modernità tecno-industriale. Ma l’attualità, come abbiamo detto, svanisce di fronte all’incombenza della morte, decade dal diritto di essere narrata: sicché, dovremo in caso aspettare un prossimo romanzo per capire gli sviluppi di queste storie secondarie.

L’unica cosa che rimane degna di partecipare al momento della fine è l’amore, che si conferma un tema centrale nell’opera dell’autore. Solitamente, l’amore in Houellebecq si manifesta nell’assenza, è una mancanza che logora i personaggi, come una luce perduta o inarrivabile all’interno del buio angosciante dell’esistenza. I protagonisti sono decadenti perché privi di amore, a volte per destino, altre per colpa, come nel caso di Florent-Claude Labrouste di Serotonina, che avrebbe potuto rendere felice una donna, «era tutto chiaro sin dall’inizio», ma non ne ha tenuto conto:

«abbiamo forse ceduto a illusioni di libertà individuale, di vita aperta, di infinità dei possibili? È probabile, quelle idee erano nello spirito del tempo […] ci siamo limitati a conformarci a esse, a lasciarcene distruggere; e poi, per molto tempo, a soffrirne».

In Annientare, invece, Paul riesce nella (megalomane) impresa di non perdere l’amore. All’inizio del romanzo, il protagonista e sua moglie vivono da separati nella stessa casa, la comunicazione è ridotta all’osso, la solitudine ha un sapore tipicamente houellebecqiano. Poi però riescono a ritrovare l’antico affetto, che durerà fino all’ultima pagina. Per la prima volta, un suo personaggio sembra fortunato, anche perché, se «già di per sé invecchiare non è uno spasso: invecchiare da soli, poi, è peggio di qualsiasi cosa». In questo caso Paul ha Prudence, lei gli è vicino, fino alla fine. Tanto che il medico gli dice: «E poi […] ci sono le persone che vengono amate fino all’ultimo giorno, quelle che hanno avuto un matrimonio felice, per esempio. Non è affatto la norma, mi creda, tutt’altro. In questo caso, trovo che la pompa di morfina sia superflua, è sufficiente l’amore».

Certo, qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte al ritratto dell’amore offertoci da Houellebecq, che sovente rischia di confondersi con una più narcisistica soddisfazione del protagonista nell’essere amato, piuttosto che nel gesto coraggioso di amare; difatti, Prudence non trova alcuna connotazione, è un contenitore che l’autore non riempie, si risolve in una figura che esiste solo in funzione di Paul. Sappiamo che non è tra le corde di Houellebecq definire personaggi femminili; prendiamo atto di questa mancanza e lo perdoniamo. Se esiste un grande testimone delle profondità maschili, non bisogna biasimarlo perché non in grado di esprimere quelle femminili. Detto questo, ci piace pensare che ciononostante al personaggio di Prudence venga alla fine riconosciuto, nelle ultime righe, un pensiero proprio, quella consapevolezza mai espressa nel corso delle pagine ma che invece c’era, fin dal principio: è lei, infatti, a riconoscere, sorridendo, che niente si poteva fare, che «avremmo avuto bisogno di meravigliose menzogne», metafora houellebecqiana della vita.

Incompiutezza, decadimento fisico e amore. In Annientare abbiamo modo di conoscere un Houellebecq diverso, entrato nella fase di senilità della propria scrittura. Accantonati temporaneamente i propri temi cardine, l’autore della decadenza continua a trovare sì la contemporaneità un luogo quantomeno di cattivo gusto, quando può ne racconta gli aspetti più sgradevoli, ma ci sono dei momenti in cui si è costretti a fermarsi. Quando il corpo vacilla, la salute è compromessa, l’incombenza della morte è così drammaticamente reale, tutto il resto non importa; potrà aspettare. L’unica cosa che conta, non solo di fronte al corrompimento dello spirito, ma anche del corpo stesso, come Annientare ci mostra chiaramente, è l’amore. Una fortuna che in pochi hanno, specie in questa fase storica, ove gli infiniti possibili distolgono lo sguardo da ciò che veramente importa, conducendo gli individui a sprofondare inesorabilmente. Non per questo Houellebecq si astiene dal continuare la ricerca: dopotutto, ciò che rimane costante nella sua opera e che quest’ultimo romanzo ci conferma, è che esiste in mezzo al tempo la possibilità di un’isola. L’unico problema, forse, è che non molti la trovano. È cosa per ricchi, verrebbe da dire; anche se si tratta di una ricchezza diversa, le cui forme di creazione, accumulo e trasmissione appaiono perlopiù ignote.

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