La letteratura è costellata di idoli, gli dèi sono rarissimi, di norma è tutto un mattatoio. Più di tutto, però, la letteratura chiede atto di adorazione. Per lo meno, un grazie. Ringraziai, invadendo l’eden degli scrittori, Julio Cortázar. Fu lui, tramite galassie librarie, a farmelo conoscere. In un saggio, citò il Manuale del perfetto scrittore di racconti. L’aveva scritto, nel 1925, un uomo con l’anomalia nel sangue e una certa animalità nel verbo. Horacio Quiroga. In realtà, il “Manuale” è un decalogo. La prima legge riguarda l’adorazione – che è l’altra faccia del lecito omicidio. “Credi nel maestro – Poe, Maupassant, Kipling, Cechov – come in Dio stesso”. Adoravo Kipling, quello dei racconti della giungla, di Mowgli – ringraziamento numero due. Nell’ottobre del 1925 un articolista del “New York Times” dedicò a quello scrittore sudamericano, ingenuo e sgangherato, una pagina. Titolo: Horacio Quiroga, l’erede letterario di Kipling e di Jack London. Quello – il 1925, intendo – fu forse l’anno più felice nella vita di Quiroga. I suoi racconti funzionavano – aveva pubblicato, in serie, tre raccolte straordinarie: Anaconda, El desierto e Los desterrados –, stava diventando di moda, aveva trovato una ragazza di 17 anni – lui ne aveva 46 – in cui affogare e lenire i suoi antichi dolori. Jorge Luis Borges lo onorò della sua caustica incomprensione. “Horacio Quiroga è una bugia uruguagia, la struttura dei suoi racconti è livida, l’emozione nulla, l’esecuzione incredibilmente torbida”. Del decalogo – riuscito ma prevedibile – Cortázar preferiva l’ultimo comandamento: “Non pensare agli amici quando scrivi, né all’impressione che farà la tua storia. Racconta come se la narrazione non avesse interesse che per il circoscritto ambiente dei tuoi personaggi, uno dei quali avresti potuto essere tu. Non altrimenti si ottiene la vita nel racconto”.
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Quanto a Borges, mi pare chiaro. I suoi racconti sono cristalli, quelli di Quiroga morsi; JLB eccelle nella costruzione di monocoli e caleidoscopi, Quiroga procede per graffi e assalti. Nelle fotografie, in effetti, sembra una fiera in giacca e cravatta: ma quanto può durare un puma a fare il dandy? Piuttosto, gli occhi hanno il famelico della compassione, di chi è stato foglia e formica, volpe e ape e pantera e ora, per difetto, si è trovato in un corpo umano. Forse Juan Darién, la “tigre che fu allevata e educata fra gli umani”, oggetto di uno dei suoi racconti più belli, è un autoritratto. Infine, Juan Darién – specie di Mowgli al contrario – belva in vestiti umani, scopre la malvagità dell’essere eretto e torna nella giungla, “Tigre per sempre!”. Anche Quiroga, adorando la metropoli e schifandola, tornò nella foresta.
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Ernesto Franco, che ha introdotto la raccolta di racconti Tigre per sempre (Einaudi, 2016), riassume in cammeo l’esistenza di questo scrittore selvatico. “Nasce a Salto e vive le sue più importanti esperienze nel Chaco e a San Ignacio a Misiones, tutti luoghi di frontiera. È segnato da una vita disseminata di morti violente, il padre per un incidente con il fucile quando ha pochi mesi, l’amico del cuore che lui stesso uccide con un colpo di pistola partito accidentalmente, il patrigno e la moglie, lui stesso e la figlia morti suicidi, come se quella fosse una porta sempre socchiusa dal caso. È amante assoluto della solitudine ma rinomato dongiovanni sempre sedotto da donne giovani, spesso troppo giovani, e dalle loro scarpe di vernice. Solo è però autore di bellissime lettere in cui invita gli amici più cari a raggiungerlo nella selva. Scrive, e intanto inventa imprese commerciali, destinate sempre al fallimento. È innamorato della modernità, appassionato di cinema… pazzo per la velocità su auto e motociclette tanto da rischiare la vita propria e quella altrui, ma colleziona pelli di anaconda recluso in fondo alla selva. Horacio Quiroga fugge dalla metropoli perché desidera la selva e lascia la selva perché è sedotto dalla metropoli”.
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Il rischio, appunto, è quello di fare, dello scrittore ammaliato dalla foresta, una discussione da pianobar, giocando a rimpiattino con le proprie bibliche e byroniane sofferenze. Insomma, uno scherzo, scacchismo da schifiltosi, da filologi infognati al premio Strega. Eletto presto alla letteratura, a Montevideo, fonda la “Rivista de Salto”, fa il canonico viaggio a Parigi, pubblica il primo libro, Los arrecifes de coral, si fa seguace di Leopoldo Lugones. Ma Quiroga è scrittore dal culto ctonio. Nel 1902 risale il Rio de la Plata, nel 1903 è a Misones, si piglia una ragazzina – Ana María Cires –, la obbliga alla selva, le fa fare figli. La donna, stremata, si ammazza nel 1915. Quiroga sembra voler comprimere la foresta in un’ampolla. I suoi racconti, slavati, pieni di fango e di ingegno contadino, hanno odore infero, seduttivo. Anaconda, che racconta la ribellione dei serpenti all’invasione dell’uomo, è possente (“Alle dieci di sera faceva un caldo opprimente. L’aria carica pesava sulla foresta senza un soffio di vento. Di tanto in tanto il cielo di carbone si squarciava in sordi lampi da un estremo all’altro dell’orizzonte. Ma il temporale sibilante del sud era ancora lontano”). È come se Mowgli avesse tagliato i polsi a Kipling per mettersi lui a scrivere le storie della giungla.
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Ossessionato dalla morte, Quiroga è riuscito a intrappolare la morte – è riuscito a descriverla, con implacabile esattezza. Il racconto, L’uomo morto, è raccolto in un libro del 1926, Los desterrados. La struttura è semplice. Un uomo sta pulendo il bananeto. Usa l’accetta, è esperto. Ammira il lavoro con soddisfazione. Vuole riposarsi. Allora scavalca la recinzione, con l’intento di sdraiarsi, sull’erba. “Ma nell’abbassare il filo spinato per passare dall’altra parte, il piede sinistro gli scivolò su un pezzo di corteccia staccatosi dal paletto, mentre l’accetta gli sfuggiva di mano. Cadendo, l’uomo ebbe la remotissima impressione che l’accetta, a terra, non stesse di piatto”. Quiroga – questo è il carisma del racconto che procede per cinque, fitte pagine – racconta lo sbigottimento dell’anima (o della coscienza, o dell’incoscienza, o dell’ultimo sussurro) sorpresa dalla morte. Gli ultimi istanti. Quelli in cui la vita è ancora calda – “Ora stava disteso sull’erba, sdraiato sul fianco destro, proprio come desiderava” – ma è irrevocabile la fine – “L’uomo tentò di muovere la testa, invano”. I timidi e temerari momenti in cui non siamo più qui ma neppure di là, pura sorpresa: “L’uomo si rifiuta di crederci – è così imprevisto questo orrore! E pensa: è un incubo, ecco cos’è! Cos’è cambiato? Nulla. E si guarda intorno: non è forse questo il bananeto, il suo bananeto? Non viene tutte le mattine a pulirlo? Chi lo conosce meglio di lui?… Morto! Ma è mai possibile? Non è questo uno dei tanti giorni in cui è uscito di casa all’alba, con l’accetta in mano?”. Eppure, l’accetta è conficcata nel suo corpo, quel corpo non si muove, l’anima – o quella che chiamiamo anima – si muove come una biglia in un oggetto ormai inerme, tra narici e occhi, pollice e gomito, ginocchio e scapola.
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“Nulla, nulla è cambiato. Solo lui è diverso. Da due minuti, la sua persona, la sua personalità vivente, nulla ha più a che vedere con il pascolo cintato, creato da lui stesso con la zappa in cinque mesi di lavoro, né con il bananeto, opera delle sue sole mani. Né con la sua famiglia. È stato strappato via in modo brusco, naturale, per opera di una corteccia scivolosa e di un’accetta nel ventre. Da due minuti: e sta morendo”. A Quiroga interessa la banale fatalità della morte. Un uomo – di cui non ci è svelato il nome. Un uomo, che ha vinto e dato ordine alla selva, che ha fondato una stirpe, muore per fatalità: l’accetta che gli ha dato la vita, slacciando i rovi dalle banane, gli ha impartito la morte. L’ultima scena, dopo l’afrore dell’incredulità, è patetica, potente. L’uomo sente la voce del figlio che lo cerca – e non può rispondere. “Papino!”. Ora l’uomo è quel fiato che si allontana dal corpo, “tranquillizzato, si decide a passare tra il paletto e l’uomo disteso, che finalmente riposa”. Quasi che ciò che abbiamo dentro fosse da sempre estraneo al corpo che lo contiene.
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Non finisce qui. Nel 1935, nell’ultima raccolta di racconti pubblicata in vita, Mas allá, Quiroga torna a quel racconto di nove anni prima. Il nuovo testo si intitola Le mosche (replica de L’uomo morto). In questo racconto è l’uomo morto che parla: “Sono caduto proprio lì, dopo aver inciampato per disavventura in un tronco sradicato”. Nessuno vede quell’uomo, ma egli sente tutto, sa la morte e non può scalciare. “Ma per l’oscura animalità che resiste, per il battito ed il respiro minacciati di morte, che vale la verità di fronte alla barbara inquietudine dell’istante preciso in cui questa resistenza della vita e questa tremenda tortura psicologica scoppieranno come un petardo, lasciando come unico residuo un ex uomo il cui volto guarda, fisso per sempre, davanti a sé?… Voglio chiudere gli occhi e non ne sono più capace”. L’uomo è accerchiato dalle mosche, le mosche lo esplorano, ormai santo perché morto, e scavano dentro di lui. L’uomo, allora, passa dall’“ansia disperata di resistenza” alla “beata imponderabilità”: “Non mi sento più un punto immobile sulla terra, radicato nel terreno da una pesantissima tortura. Sento che fluisce da me, insieme alla vita, anche la leggerezza dell’aria che mi circonda, la luce del sole, la fecondità dell’ora. Libero dallo spazio e dal tempo, posso andare qui, lì, su quest’albero, su quella liana. Posso vedere, ormai lontanissimo, come il ricordo di un’esistenza remota, vedere ancora, ai piedi di un tronco, un pupazzo dagli occhi fissi…”. Il fiato dell’uomo, ora, è diventato mosca, “mi poso con le mie compagne sul tronco caduto”, e di se stesso fa pasto, prendendo parte “alla nostra opera di rinnovamento vitale”. Beelzebub, in effetti, è il Signore delle Mosche, il re delle soglie. Infine, nel 1937, è tardo febbraio, Quiroga preferisce vedere la morte, non si accontenta di narrarla. Sceglie, per sposarla, il cianuro.
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A Buenos Aires, era gennaio, due anni fa, comprai in una bellissima biblioteca del quartiere Palermo, il volume dei Cuentos completos di Horacio Quiroga. Il prezzo non era virgineo, il volume reca in copertina il muso dolce e funesto di Quiroga. Vorrei pubblicare, un giorno, tutti i racconti di Quiroga, ma è come addentrarsi in una fattura. Quando accadrà, mi trasformerò in tigre – o in mosca. (d.b.)