31 Marzo 2020

“Io potrei essere una cometa?”. Una poesia-amuleto di Hölderlin (letta insieme a Cristina Campo e a Gianfranco Contini)

Nel libro – che è piuttosto un talismano –, La tigre assenza (Adelphi, 1991), la prima tra le “Traduzioni poetiche” di Cristina Campo è una poesia di Friedrich Hölderlin. Piuttosto, febbrili frammenti. La poesia – leggo tra le note – proviene “da una copia manoscritta inviata a Remo Fasani datata maggio 1946 – 1° aprile-23 giugno 1951”. Nel 1946 Cristina Campo, cristallina musa del secolo, donna d’inesorabile nitidezza, aveva 23 anni. La Seconda guerra non fu facile: il padre, il compositore Guido Guerrini, già direttore del conservatorio “Cherubini” di Firenze, fu recluso nel campo di concentramento di Collescipoli (Terni) con l’accusa di fascismo. Dopo la guerra fu nominato direttore del Santa Cecilia di Roma, in prigione compose l’Enea e una Missa quarta “per coro a 2 voci virili e pianoforte, la cui prima esecuzione ebbe luogo proprio nel campo di concentramento durante il Natale 1945” (Francesca Scaglione). Secondo la testimonianza di Alessandro Spina (in L’ospitalità intellettuale, Morcelliana, 2012), la Campo, poi, era reduce da una relazione dispari, “aver amato, pare, nei tragici anni Quaranta un ufficiale tedesco anziché l’eroe della resistenza secondo il canone del dopoguerra”. Remo Fasani, con cui la Campo ha intrattenuto un legame epistolare raccolto in Un ramo già fiorito. Lettere a Remo Fasani (Marsilio, 2010), aveva tradotto e commentato Hölderlin nel 1950. Lei, in quegli anni, traduce Katherine Mansfield (1944) ed Eduard Mörike (1948). Il lacerto hölderliniano è bellissimo:

Poco sapere, ma di gioia molto
ai mortali è concesso.

O bel sole, perché me non appaga
–  tu, fiore dei miei fiori – nominarti
in un giorno di maggio? So io forse
cosa più alta?

Oh fossi piuttosto un fanciullo!
e come gli usignuoli, in canti senza affanno,
la mia gioia cantassi!

*

La formula per enigmi fa di questa poesia uno spillo: perché l’uomo non si aggioga alla gioia, non è contento del sole, mentre si fa ispirare dal sapere, ragione di infelicità? Il punto – nel solare indistinto – è tornare al canto dell’uccello, a quella librata libertà. È un cartiglio da ricopiare su un foglio, questo, da tenere in tasca – parole che saldano a una guarigione. Oppure, da inghiottire – sperando l’ingorgo della gloria, la pace – l’inquietudine dei sani.

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La Nota alle Poesie di Eduard Mörike – Cederna, 1948 – vive del sigillo di Hölderlin. La Campo scrive sulla soglia di un deserto, dicendo di un tempo in cui la quarantena era la scelta, l’individuo la garanzia di una solitudine intaccata, inaccettabile ai vili. “Avido di armonia da trascorrere intere giornate tornendo vasi o incidendo croci tombali… giocava coi bambini, parlava con gli alberi, faceva dell’amicizia una religione… si sposò quasi cinquantenne, ebbe due figli, ben presto si separò dalla moglie”. Tra bambino e albero, croce e vaso sembra intrecciarsi un simbolo remoto, sotterrato tra Mosca e Bisanzio.

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La poesia di Hölderlin tradotta dalla Campo appartiene a un gruppo di prove, scavi di luce, provenienti da ispirazioni perdute. “Questo frammento è annotato… su una pagina del primo abbozzo dell’inno L’Arcipelago”, specifica Luigi Reitani, che ha curato Tutte le liriche di Hölderlin per i ‘Meridiani’ Mondadori. L’Arcipelago – “Quando il cuore rinasce ai viventi e il primo/ Amore si risveglia negli uomini, e il ricordo di tempi dorati,/ A te vengo, antico! E nella tua quiete ti saluto” – è pubblicata su “Intrattenimenti trimestrali” nel 1805, ma è terminata dal poeta nel 1800. È un anno difficile per il poeta: Schiller lo tratta con sufficienza, ha difficoltà a trovare lavoro e collocazione letteraria. Si sente un ‘viandante’, s’incunea nell’incomprensione, interrompe la relazione con Susette Gontard: “Tutto ciò che è intorno è muto, e vuoto, senza di te!”. La risonanza di Hölderlin, per lo più, è con il selvatico, con l’elemento primo (così a Christian Landauer, nel 1801: “Dinanzi alle Alpi, che circondano questo luogo a una distanza di qualche ora, continuo a restare attonito, davvero non ho mai conosciuto una simile impressione, sono come una meravigliosa saga della giovinezza eroica della nostra madre terra, e ricordano l’antico caos creatore: perché guardano in basso nella loro quiete, e sopra le loro nevi risplendono giorno e notte, in un azzurro più chiaro, il sole e le stelle”).

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Così traduce Reitani il frammento amato dalla Campo:

E poco sapere, ma molta gioia
È data ai mortali,

Perché, bel sole, non mi basti,
Gemma delle mie gemme! nel giorno di maggio
Conosco forse qualcosa di più alto?

Preferirei essere come i fanciulli!
Per cantare come gli usignoli
Un canto senza affanni della mia delizia!

Hölderlin non si traduce: si pratica. Si ascende per erosione, finché la roccia non è che l’anca della luce, fraterna al rivelato. Nel 1941 Gianfranco Contini pubblica, “sotto il segno del Sentimento del Tempo” – Ungaretti aveva inserito Hölderlin, con Blake, Leopardi e Lautréamont nel “canone dei quattro Grandi” – alcune traduzioni del “lirico folgorato e frammentario… poeta che isola la sua fantasia in mondi autonomi”. Leggere Hölderlin fu scoprire l’altro mondo del linguaggio. Così Contini rendeva Mnemosine:

Un segno noi siamo, indecifrato,
non avvertiamo il dolore,
lontano dalla patria la lingua abbiam quasi scordata.

…fiori anche, acqua, e sentiamo se Dio
è con noi. Incantevole è il giorno nuziale,
ma l’idea dell’onore ci angoscia.
Si deforma orrendamente
colui che una brama stringe.
Indubbio solo è l’Altissimo,
che al nuovo giorno ogni cosa può mutare…

*

Un altro brandello, secondo Contini: “Io potrei essere una cometa? Credo di sì. Poiché hanno la celerità degli uccelli, fanno fiori di fuoco, a purezza sono come infanti; a desiderio più grande la natura umana non può presumere”.

*

Alcune poesie vanno tenute a lungo sotto la lingua perché il loro sapore muti lo scatto e lo spettacolo degli occhi. All’uomo, che non si accontenta del sole, è dettato il destino della cometa. La scia, il gelo infiammato, il miracolo che fende l’arteria del cosmo, lo schianto. (d.b.)

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