17 Maggio 2022

“L’accademia è la morte del cinema: impara a non avere paura”. Intorno a Werner Herzog

Nel febbraio 1992, al Festival di Berlino viene presentato il documentario Lektionen in Finsternis (trad. “Lezioni di oscurità”, distribuito in Italia con il titolo “Apocalisse nel deserto”) di Werner Herzog. Questa la didascalia che introduce il film e che Herzog attribuisce fittiziamente a Blaise Pascal: «Al pari della Creazione, anche la morte del sistema solare avverrà con maestoso splendore». Ne segue un poema mitologico ambientato nel Kuwait apocalittico – post Guerra del Golfo – dove le tracce dell’umanità sono state cancellate dall’esondazione dei pozzi di petrolio e incenerite da colonne di fuoco inestinguibili. L’esperienza che ne deriva è disorientante. Il Requiem di Verdi, il Parsifal di Wagner, il Peer Gynt di Grieg e altre somme composizioni elevano le immagini della devastazione a uno status inedito, accessibile solo a un poeta avventato o a un alieno di passaggio.

Al termine della proiezione, il pubblico si rivolta inferocito contro il regista bavarese, accusato d’aver sottratto le immagini alla cronaca per assecondare il diletto poetico, il cruccio dell’artista. Così ricorda quell’esperienza singolare: «Mi hanno gridato e sputato. Sono stato accusato di aver applicato l’estetica all’orrore. La mia sola risposta fu che Goya e Bosch avevano fatto la stessa cosa». Posto che nessuno mai oserebbe avanzare pretese circa la rivalutazione della caratura di Herzog, il bilancio complessivo delle ricezioni riporta diverse stroncature da parte della critica: quella tedesca in primis. Lektionen in Finsternis resta il più contestato, ma si pensi anche a Fata Morgana (1970), Cerro Torre: Schrei aus Stein (1991) (“Grido di pietra”) The Wild Blue Yonder (2005) (“L’ignoto spazio profondo”).

In quelle occasioni, al regista fu imputato ancora una volta il peccato d’estetismo, nonostante la sua considerazione dell’estetica sia decisamente scarsa: «Ai miei operatori dico non preoccupatevi di centrare l’immagine o di farla sembrare carina, non cercate dei bei colori. Se ti abitui a progettare le tue riprese concentrandoti solo sull’estetica, rischi di scadere nel kitsch». A onor del vero, andrebbero considerate le ragioni di entrambe le parti. Tuttavia, indagare la vocazione di Herzog è certamente più complesso e interessante che ascoltare le ragioni morali dei critici. Varrebbe perciò la pena esplorare gli aspetti più centrali della produzione herzogiana, anche allo scopo di proteggere alcuni suoi lavori dal tentativo di ridurli a mero capriccio estetico.

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Primo aspetto: la fisicità

Herzog si è sempre presentato come regista fisico. Non è immediato capire cosa voglia dire. Meglio si spiega se si considerano alcuni aneddoti biografici degni di nota. A quattordici anni, dopo aver imparato dall’enciclopedia tutto quello che c’era da sapere sulla regia, il giovane Herzog ruba una cinepresa da 35 mm dalla Munich Film School. Più tardi avrebbe giustificato così quel gesto: «So che non è stato un furto. Avevo il diritto naturale di prenderla». Un anno dopo soffre un’intensa crisi di fede, si converte al cattolicesimo e va peregrinando per l’Europa balcanica, partendo da Monaco e raggiungendo a piedi il confine con l’Albania.

Fu per lui l’occasione per imparare la prima regola fondamentale che a suo dire ogni regista dovrebbe conoscere:

«Per superare i problemi serve la vera fisicità… Semmai aprissi una scuola di cinema, verrebbe ammesso solo chi ha dapprima viaggiato a piedi in solitaria. Diciamo da Madrid a Kiev, per circa cinquemila chilometri […] Viaggiando a piedi si avrebbe la possibilità di imparare molto di più sul fare cinema che stando chiusi in una classe […] Nella mia scuola ci sarebbe un ring dove gli studenti possono praticare la boxe, imparare a non avere paura, fare l’esperienza di quella eccitazione interiore… Questo, e solo questo, è ciò che in ultima istanza crea il film. L’accademia non è che la morte del cinema, dove si formano dei tecnici piuttosto che delle persone vivaci con una fiamma ardente che brucia dentro di loro». Per Herzog dunque, «il cinema deriva non da un pensiero accademico e astratto, ma dalle ginocchia e dalle cosce».

Werner Herzog

Ciò spiega anche la sua avversione per il teatro: «È un affronto al genere umano, deludente e rivoltante. Trova la recitazione sul palcoscenico disgustosa e nient’affatto convincente, priva di un’autentica vitalità. L’enfasi drammatica, le urla, la falsa passione: tutte queste cose mi danno il tormento. Sarebbe più facile per me assistere a un scontro di wrestling. Preferisco di gran lunga le esibizioni false e coreografate dei lottatori, con i vari personaggi che parlano gli spettatori per dimostrare quanto sono cattivi. Non c’è dubbio che mi troverei più a mio agio in mezzo alla folla volgare del wrestling».

La fisicità del cinema pretende da Herzog fatica, sacrifici, lotte e compromessi che servono a superare gli scogli della logistica e della lavorazione del film, ma che garantiscono per noi l’inedito. Così Fata Morgana, concepito nel corso dei viaggi in Africa alla fine degli anni Sessanta, deriva dalla ricerca di immagini inedite presso civiltà non ancora raggiunte dalla tecnologia, o che seppur raggiunte ne risultano alterate e che dunque mai rientrerebbero nel catalogo del “già visto”.  E proprio come in Lektionen in Finsternis o in The Wild Blue Yonder, per rendere inedita l’immagine di un rottame nel deserto – di un ghiacciaio o di un pozzo di petrolio incendiato – non c’è altro modo che osservarla con gli occhi di un extraterrestre. Per far ciò, non ci si può limitare all’immedesimazione. È necessario dissociarsi dal proprio io, testimone di una sterminata varietà di esperienze visive. È necessario che si compia la dimenticanza di sé, che si abbia il coraggio di perdersi nella delirante sequenza di suoni come un requiem nel Deserto Arabico, una ballata di Leonard Cohen in un villaggio ivoriano o un canto a tenore sardo negli abissi dell’Antartide.

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Secondo aspetto: il coraggio

Poco più che ventenne, Herzog sbarca ad Alessandria d’Egitto con l’intenzione di raggiungere il Congo, da poco resosi indipendente e caduto in balìa dei violentissimi tumulti anarchici. Lungo la strada si ammala gravemente, sceglie così di tornare indietro e alla prima occasione si rifugia in una baracca nei pressi di un cantiere frequentato da ingegneri tedeschi di stanza in Egitto. Uno di loro lo ritrova privo di sensi. «Non sapevo da quanto tempo fossi lì dentro. I topi mi avevano morso prima il gomito e poi l’ascella, volevano usare la lana del mio maglione per costruirsi il nido. Mi ricordo anche di essere stato svegliato da un topo che si era arrampicato su di me, mi aveva morsicato la guancia e poi era scappato via in un angolo. Ci sono volute parecchie settimane perché la ferita si rimarginasse. Porto ancora la cicatrice».

La vocazione di Herzog sembra dunque trovare compimento nel coraggio di addentrarsi nei gironi della civiltà, da lui intesa alla stregua di «un sottile strato di ghiaccio sopra un oceano profondo di caos e tenebre». La biografia del regista è una formidabile raccolta di aneddoti consultabili anzitutto nel libro-intervista Incontri alla fine del mondo (Minimum Fax, 2009), dal quale ci si persuade in via definitiva che la missione di Herzog è quella rompere la barriera dell’alterità, calandosi in parte nei panni di un antropologo impegnato nella ricerca sul campo. Ciò che in diverse occasioni è stato ridotto a uno sciorinamento di riprese estetizzanti che speculano sui drammi sociali, sembra derivare piuttosto dalla sensibilità antropologica di chi sceglie di riprendere una donna che ha perso l’uso della parola dopo aver assistito alle torture inflitte al figlio, ucciso poi davanti ai propri occhi.

La partecipazione al dolore è evidente, e ciò che l’ha sempre resa possibile è il coraggio dimostrato intorno al mondo. Il coraggio di resistere alla prigionia in Uganda: «Quando mi arrestarono mi puntarono un fucile alla testa, uno al cuore e uno alle palle». Di recarsi alle pendici del vulcano La Grande Soufrière durante l’eruzione del 1976 (documentata nel film La Soufrière (1977): «La terra sotto i nostri piedi era sempre più calda, siamo andati sul bordo del cratere e ci abbiamo pisciato dentro». O ancora, di confrontarsi con l’orrore patito nella giungla durante la lavorazione di Fitzcarraldo (1982).

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Terzo aspetto: l’orrore

I due anni e mezzo trascorsi nella giungla amazzonica, rappresentano per Herzog un’esperienza intimamente conradiana. Nei diari di quel periodo, raccolti ne La conquista dell’inutile (Mondadori, 2007), il regista riporta ciò che il suo cuore di tenebra avvertì dopo essere stato inghiottito dalla foresta pluviale. Così descrive lo sconquasso degli animali: «In questa terra, incompiuta e abbandonata da Dio nella sua ira, gli uccelli non cantano: gridano di dolore. Tra le esalazioni di una Creazione che qui non si è ancora compiuta». È l’immagine vulcanica di un angolo di Terra fermo allo stato primordiale, dove Herzog sperimenta l’Orrore, indispensabile chiave di lettura di quel confine psico-geografico in cui l’uomo occidentale dimentica se stesso e tutte le cose utili ad esserlo. È nella giungla in cui un piroscafo domina dalla cima di una collina, che si compie la conquista dell’inutile.

La natura appare oscena agli occhi di Herzog, che al tempo della produzione di Fitzcarraldo aveva esplorato molti altri luoghi primordiali, rinvenendo immagini inedite e perciò inadatte ad essere interiorizzate dalla collettività. Ma accostarsi all’inedito equivale ad accostarsi a qualcosa che sia altro da sé. Ecco dunque che l’Orrore del regista si dota di quel fondamento antropologico e geografico che non esclude neppure l’impegno sociale preteso dai critici moralmente impegnati. Egli sì partecipa del dolore dei soggetti incontrati lungo i viaggi in Africa, America Latina e Medio Oriente. Ne documenta l’intensità in una sequenza di immagini montate nella forma di stati coscienza: sconcerto, disorientamento, solidarietà. A muovere la sua mano è il proposito antropologico, a concepire il montaggio finale è la sensibilità poetica.

«Non faccio film usando immagini di nuvole e alberi. Lavoro con esseri umani, mi interessa il modo in cui si comportano in gruppi culturali diversi. Se questo fa di me un antropologo mi sta bene, ma il mio obiettivo è quello di scoprire qualcosa sull’uomo in generale. Uso il cinema perché è uno strumento che ha a che fare più con i nostri sogni collettivi che con la realtà. Le mie scelte musicali poi, dimostrano che il film non è un documentario su una specifica tribù indiana, ma una storia sulla bellezza e sul desiderio».

Assolvere Herzog dall’accusa d’estetismo, significa riconoscere che il Bello, come la religione, è praticabile nei luoghi di culto o nell’intimità della preghiera. Il cinema non è certo un luogo intimo, ma resta il luogo destinato al culto del Bello contemplato dai quei poeti dell’immagine reduci da lunghi e tormentati momenti di preghiera. Lunghi e tormentati come un pellegrinaggio di oltre mille chilometri verso l’Albania, come lo sforzo per trainare un piroscafo sulla cima di una collina, o ancora come l’atto di calarsi a pochi centimetri da un pozzo di petrolio in ebollizione. Il requiem che accompagna il volo dell’extraterrestre in Fata Morgana, Lektionen in Finsternis e in The Wild Blue Yonder, fa della la sua visita un pellegrinaggio planetario in un luogo di morte e desolazione. E seppur non c’è traccia di un Dio in cui rifugiarsi, l’attenzione del visitatore per le macerie e gli aloni della civiltà, suggerisce il suo intimo bisogno di pregare. I tre contestatissimi film raccontano di un preciso momento dell’odissea stellare, quella in cui giunti su un pianeta desolato, non resta che raccogliere le testimonianze della civiltà che lo ha avvelenato. Herzog non ha altra scelta che assegnare a questo momento il Requiem for a Dying Planet – colonna sonora anche ne Il dimanate bianco (2004).

Oscenità, terrore, preghiera. Tanto serve a persuaderci che la poesia di Herzog è autentica, e che adottare la partecipazione al dolore come misura della grandezza di un poeta, riduce l’arte al proposito attivista di difendere la causa del più debole, distraendo il lettore critico dal compito di indagare il punto di vista che il poeta stesso privilegia, e non l’oggetto della sua visione. Non è sempre un compito facile, bisogna essere pronti ad accettare l’indole perversa e perfino malvagia dell’artista, la cui sensibilità non è sempre compatibile con gli standard di moralità e integrità condivisi dalla collettività. In fondo, Herzog si è sempre proposto di innestare nella coscienza collettiva immagini inedite come quella del piroscafo sulla collina. «Un piroscafo trascinato su una montagna nella giungla è un’immagine che rimane piantata nella mente di molte persone. Gli spettatori lo riconoscono come fosse un amico che desideravano vedere da tempo. È un’immagine che appartiene al catalogo segreto dei nostri sogni, e sono stato io per primo a portarla in vita e a darle un nome».

Non è un caso che il suo film più contestato, riporti il titolo che Herzog oppone al cinéma vérité. Le “Lezioni di oscurità” sono infatti il solo modo di accedere alla verità, che non è quella «superficiale dei contabili» bensì la verità «poetica ed estatica, misteriosa e sfuggente, raggiungibile solo attraverso la composizione, l’immaginazione, la stilizzazione», scrive nel Manifesto del Minnesota del 1999, al termine di un decennio dedicato quasi esclusivamente alla produzione di documentari. Il senso di un requiem nel deserto è dunque questo: «La musica ci aiuta a uscire dalla dimensione della verità dei contabili».

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Il modello estetico rinvenibile in tutto Herzog non è basato esclusivamente sul piacere visivo. Guardando dietro la macchina c’è un uomo interessato all’estetica del corpo, a tutto ciò che provoca l’esperienza tattile e che ci ricorda che il corpo è il luogo del mondo. Il cinema di Herzog è in altre parole l’occasione di guardare alla prospettiva della prospettiva, a ciò che Adorno preferiva al Bello, vale a dire «il senso, la forma, il ritmo, il punto di vista […] i simboli che acquistano il carattere della battuta che segna il tempo di una musicalità. Ignorarli significherebbe perdere il senso dell’inizio, la storia di un mondo echeggiato e il senso di un fine, che è poi il senso del cammino da percorrere».

Ignorare il cammino percorso da Herzog, significa perdere l’occasione di partecipare anzitutto dei suoi tormenti fisici che hanno reso possibile la realizzazione dei film, a volte meno interessanti di chi e come li ha realizzati. Grizzly Man è bello, interessante, potrebbe anche non interessarci chi l’abbia diretto. Lektionen in Finsternis è disorientante, inedito, ma la cosa più interessante è il voler guardare in faccia l’uomo che sta dietro la macchina da presa. Chi è quell’uomo che vola sull’esondazione di petrolio? Proviene forse da un’altra galassia? Chi è che guarda alle riprese subacquee in Antartide come fosse l’atmosfera di elio liquido di un pianeta alieno? Chi è che vuole raccontare l’Africa come fosse il luogo in cui Dio ha fallito nella Creazione?

Il suo passato non è un mistero. Di lui si conoscono i fatti che hanno preceduto la sua odissea e la voglia di rendere inutile e inedito l’ordinario repertorio delle nostre vite. Fatti come questi: «Durante la lavorazione di Fitzcarraldo, gli Amehuacas, una tribù nomade da sempre ostile a ogni tentativo di contatto da parte di missionari e militari, è scesa lungo il fiume più di quanto avesse mai fatto prima. Hanno attaccato tre persone del posto che lavoravano nel film come comparse. Uno di loro è stato trafitto alla gola da una freccia enorme, sua moglie è stata colpita all’addome da altre tre frecce. Trasportarli altrove era troppo rischioso e così abbiamo effettuato un intervento chirurgico d’urgenza durato otto ore su un tavolo da cucina. Per tutta la durata dell’intervento, ho illuminato con una torcia elettrica la cavità addominale della donna, mentre con l’altra mano continuavo a spruzzare il repellente sui nugoli di zanzare che sciamavano intorno al sangue».

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